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Il mio cielo è grigio porpora
Il mio cielo è grigio porpora
Il mio cielo è grigio porpora
E-book291 pagine3 ore

Il mio cielo è grigio porpora

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Info su questo ebook

Beatrice e Michele sono sposati da 25 anni.
La loro vita, apparentemente perfetta, viene resa tale anche dalla presenza dei due figli Leonardo e Margherita.
Qualcosa però, o qualcuno, arriverà a rompere l’idillio. Sarà Roberta, l’amante di Michele, a spezzare la già fragile catena che li unisce, in modo irreparabile. La donna, infatti, porta in grembo il figlio che aspetta proprio da Michele.
Beatrice si rifugia nel silenzio che ha sempre odiato fin da quando in tenera età, si era ritrovata a vivere in un orfanotrofio contornata da bambini come lei, senza dimora né famiglia.
Troverà conforto nell'unica persona in grado di poterla comprendere: la scrittrice Oriana, nonché sua confidente da oltre dieci anni.
Un nuovo ospite è giunto ad illuminare le sue giornate. Suo nipote Axel è infatti appena arrivato da Stoccolma in Italia, per trovare la nonna e prendersi un periodo sabbatico, data la separazione dei genitori che gli causa sofferenza.
Beatrice e Axel instaureranno da subito un dialogo fatto di comprensione, stima reciproca, curiosità nei confronti dell’altro e amore profondo.
Un amore del quale lei sente non potrà più fare a meno, ma a cui sa di dover rinunciare, per non incorrere negli stessi sbagli commessi da suo marito, che hanno visto il disintegrarsi della famiglia.
Pochi mesi dopo il bambino di Michele e Roberta verrà alla luce, e si chiamerà Matteo.
Trascorrono in apparente serenità due anni, al termine dei quali viene comunicato ai genitori che i comportamenti “bizzarri” tenuti dal bambino, sono dovuti alla sindrome autistica.
Roberta rifiuta di avere un figlio malato.
Beatrice si ritroverà così a dover prendere l’estrema decisione di chiedere l’affidamento del bambino, per evitare che finisca in un istituto.
Questo romanzo affronta le difficili tematiche che possono sconvolgere una vita umana: l’avvicendarsi del tempo sul corpo e sulla psiche di ciascuno di noi, la malattia che destabilizza, il tradimento che sconcerta, e l’amore che con la sua spinta tiene in piedi tutto questo, grazie alla sua solenne fermezza.
Beatrice dimostrerà di essere una donna in grado di riscattarsi dalle sofferenze che le sono state inflitte.
Troverà un amore ancora più grande, nonostante il suo cielo sia mutato in forma... e colore.
 
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2017
ISBN9788826040431
Il mio cielo è grigio porpora

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    Anteprima del libro

    Il mio cielo è grigio porpora - Letizia Turrà

    Letizia Turrà

    Il mio cielo è grigio porpora

    UUID: 3b2d5f9e-6b8b-11e7-b3a9-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Dedicato...

    Prefazione

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Ringraziamenti

    Dedicato...

    A Daria e Marianna

    Copertina e grafica realizzata da Chiara Fedele

    (sito web: www.chiarafedeleillustrator.blogspot.it)

    Titolo: " La donna e il cosmo", Marzo 2017

    Prefazione

    Ero di ritorno verso Milano lo scorso gennaio.

    Il cielo romano faceva presagire una scrosciata, di lì a poco. I colori si mescolavano tra loro: in un primo momento un vivace azzurro con enormi nuvole, pesanti e ingrossate. Poi, tendente al nero, con a tratti strisce di un rosa intenso.

    Pensai al libro che stavo scrivendo. Il mio primo pensiero ricadde su Matteo, il bambino autistico con il quale ho convissuto negli ultimi otto mesi, e della difficoltà (almeno per la sottoscritta) di trattare e scrivere dell'argomento autismo.

    Quel cielo fu di grande ispirazione. Mi resi conto che non era un cielo come tutti gli altri.

    Mia figlia mi venne in aiuto, sostenendo che fosse grigio porpora.

    Nessun adulto avrebbe mai dato una tale definizione a quel cielo, tranne un bambino.

    Solo un bambino, infatti, è in grado di vedere certi colori.

    Noi ci occupiamo ormai di altro. Siamo cresciuti, siamo adulti, con una marea di cose da fare, in un mondo che corre e corre...e corre, senza davvero soffermarsi su nessun dettaglio che lo riguardi.

    Siamo totalmente immersi nel nostro mondo, individuale e genitoriale, da non guardare più neppure al cielo.

    La vita è un viaggio misterioso, nel quale ci si può imbattere in sofferenze, tribolazioni, immensa gioia e amorevole condivisione.

    Se si parla di coppia, poi, è sicuramente il sentiero più misterioso e arduo di cui due persone possano far parte.

    Se poi vi sono anche casi in cui i soggetti coinvolti sono più di due, allora la situazione si complica, e l'oblio risucchierà gran parte dei passi compiuti in precedenza, come nel caso della storia che qui si narra.

    Mentirei se dicessi che è stato semplice scriverla, ma come dico sempre, non tutto ciò che è complicato manca della necessità di essere scritto.

    La storia di Beatrice è uguale a quella di centinaia o migliaia di donne come lei, che aveva il bisogno di essere raccontata, perché qualcuno potesse donarle un'ulteriore voce.

    Parliamo di una donna matura, seppure ancora giovane internamente, la quale è pienamente cosciente di quale sia il suo ruolo in famiglia e delle responsabilità che si è assunta nella vita, ma non per questo è pronta a decidere di stravolgerla consapevolmente, quando si rende improvvisamente conto che quella vita non è perfetta come pensava.

    Seppure si incontrino sempre più donne di cinquanta anni più belle di ragazzine di venti, è anche vero che sempre più ci ritroviamo ad affrontare il dilemma di invecchiare. L'uomo diventa in molti casi affascinante con il passare del tempo, mentre la donna subisce il suo repentino arrivo, con la conseguente, inevitabile modifica del suo aspetto.

    Tutto qui viene descritto proprio partendo dal momento nel quale, interiormente ed esteriormente, si inizia a compiere un'analisi attenta di quel dolore profondo, che deriva da un tradimento e dalle domande, che troppo spesso manchiamo di fare a noi stessi.

    Beatrice si interroga a lungo, impotente per essere finita nel limbo dei traditi, di cui riteneva non avrebbe mai fatto parte.

    Il male che ne deriverà la devasta.

    Lei pretende ancora molto dall'amore, e non accetta di pensare che la sua vita possa finire così, senza più la bellezza stessa dell'amare.

    E' stata la routine a stravolgere il suo matrimonio che andava a gonfie vele? E' forse stata la mancanza di un dialogo sincero? Oppure, più semplicemente, lei è troppo vecchia e suo marito ha preferito trovare un'amante giovane e fresca, spensierata, senza problemi?

    Quando siamo giovani, spesso restiamo a osservare chi è più vecchio di noi come se ci trovassimo aldilà di un vetro, e i nostri occhi stessero vedendo qualcosa di molto, molto lontano. Talmente lontano, da non appartenerci.

    Eppure, arriverà anche per noi il momento in cui le rughe recupereranno il nostro volto, lasciando il loro segno, legittimo e obbligato.

    Avremo anche noi schiene ricurve, animi solitari, deserti emotivi da dissetare.

    Non si resta giovani a lungo, e non si resta neppure aridi per sempre, se sappiamo comprendere il significato e la funzione profonda che l'amore ha nella nostra esistenza.

    Beatrice compirà ciascuno di quei passi, che la condurranno ad avere un'unica consapevolezza: ha perso molto dell'amore che possedeva, ma ne ha ottenuto uno ancora più grande.

    Ha conosciuto un cielo azzurro e splendente, ed un altro sconosciuto, dal colore a dir poco inverosimile.

    Eppure, era quello il cielo sotto il quale era sempre stata.

    E voi... sapete di che colore è il vostro cielo?

    Vi auguro una buona lettura, nella quale immergervi.

    Non solo, vi abbraccio dal profondo del cuore.

    Vostra, Letizia T.

    Sito web: www.letiziaturra.com

    Capitolo 1

    Osservare il cielo è la grazia e la maledizione dell'umanità.

    Aby Warburg

    Ho sentito dire da qualche parte che il silenzio sarebbe un dono meraviglioso.

    Non lo è per me.

    Da sempre temo il silenzio.

    Il silenzio mi disarma, contiene un sacco di suoni tutti diversi, eppure tutti simili tra loro, che ho imparato a conoscere a memoria.

    Al silenzio devo ogni mio singolo cambiamento, e a quel suo suono tacito e inestinguibile, la persona che sono diventata.

    Quando avevo quattro anni mi facevano praticare spesso il cosiddetto gioco del silenzio a scuola. Ore ed ore senza dire nulla. Niente altro che quello, dovevo soltanto stare zitta.

    L'abitudine a mantenere quel mutismo mi tolse la consapevolezza del mio essere, fino al giorno in cui correndo nel corridoio di casa, vidi il mio fuggevole riflesso nello specchio.

    Se per alcuni tra i miei amici era naturale il fatto di esistere, a me accadde di accorgermi di me quando avevo ormai superato la cosiddetta età canonica per accorgersene.

    Era il 1968. A casa di Drew si festeggiava il compleanno della nonna Emira, che compiva novantotto anni.

    Fu una serata che non dimenticherò mai.

    Eravamo tutti in fermento pronti per assistere a uno spettacolo eccezionale, qualcosa che pochi membri della famiglia avevano avuto la fortuna di vedere prima di allora, me compresa.

    Ci precipitammo fuori muniti di lenti improvvisate che aveva creato Sandro, il fratello maggiore di Drew, e per la prima volta vedemmo quella palla di luce sopra le nostre teste, lentamente oscurarsi.

    Ci trovavamo di fronte ad un evento unico, la nostra prima eclissi lunare.

    Ricordo bene lo stupore dei nostri occhi di fronte a quel fenomeno affascinante e raro.

    Non sapevo ancora un sacco di cose a quell'età, se non che non esistesse Babbo Natale e neppure la befana, che i figli non provenivano dall'impollinazione delle api, e che non era la fatina dei dentini ad avermi portato le mille lire nel giorno in cui il mio dente era finito nel bicchiere di aranciata di Martina della prima B, destando l'orrore dei compagni presenti alla festa.

    Piansi in modo quasi spropositato quando avvenne, al punto che zia Clarabella mi trascinò via che ero ancora verde per la rabbia.

    Tornai a casa sconvolta, ripromettendomi che non sarei più uscita con nessuno, né avrei mai più presenziato ad alcuna festa di compleanno per il resto dei miei giorni.

    Avevo perso qualcosa che mi apparteneva strettamente, il mio primo dente.

    Faceva tutto parte di un meccanismo instaurato inconsciamente a partire dalla mia nascita, arrivato a farmi provare un costante orrore nei confronti del concetto di perdita.

    Iniziai a nutrire una serie di paure inconsce: paura della morte, paura di essere abbandonata, paura di non essere apprezzata, addirittura la paura di non poter essere felice.

    Ero infatti convinta che la felicità fosse qualcosa che ci si doveva assolutamente meritare, così come la morte. Se eri morto, voleva dire che te lo dovevi essere meritato!

    Pensavo che fossero distanti la felicità e la morte.

    Oggi so che entrambe possono essere vicinissime.

    Si può morire dalla felicità e si può essere felici di morire.

    Non esiste stanza da cui non perpetri luce, non esiste essenza che non trovi uno spiraglio per esistere.

    La mia mente è rimasta a lungo racchiusa in una camera buia, angusta, in preda allo sconforto più assoluto.

    La vita invece era sempre rimasta lì ad attendermi, pronta a stupirmi col suo chiarore intermittente e scialbo, lo stesso che sta facendo capolino dalla finestra della mia cucina.

    Vuoi smetterla di andare avanti e indietro saltellando? rivolgo il mio sguardo teso, verso Matteo.

    E’ impaziente, mentre balzellante si affaccia sul davanzale della finestra, in attesa di scorgere qualcuno sul sentiero di ingresso.

    Oggi infatti è il suo compleanno e lui non sta più nella pelle perché abbiamo distribuito tutti i bigliettini per partecipare alla festicciola organizzata a casa nostra. Ventiquattro bigliettini che insieme abbiamo preparato e che sempre insieme abbiamo distribuito a ciascuno dei suoi amici.

    So bene che non verrà nessuno, mio figlio non gode dello stesso privilegio che la vita ha dato a me, donandomi la preziosa consapevolezza di essere amata da un padre che mi venerava, come la stella nel suo unico firmamento.

    Sono reduce dall'ultima delusione subita lo scorso anno.

    E' stato devastante, avevo organizzato una splendida festa per il suo quarto compleanno, ma all'ultimo minuto non si è presentato quasi nessuno.

    Non credo che se quest'anno si ripeterà la stessa cosa, sarò più propensa a organizzare feste di compleanno per il mio bambino, e mi sento terribilmente in colpa per questo.

    La vita mi ha chiesto di diventare la madre di ghiaccio per il mondo intero che ci vive con distacco e rifiuto, come fossimo una malattia da debellare.

    Quando usciamo anche solo per fare la spesa, mi sento perseguitata dagli sguardi di chi prova pena per noi, o di chi non comprende per ignoranza il motivo che spinge Matteo a manifestare improvvise crisi di pianto che lo rendono ingestibile.

    Non credevo che esistesse un lato crudele nelle persone, finché in prima persona ho vissuto la disabilità di mio figlio.

    Allora l'angoscia è diventata tangibile, e sempre più presente.

    Come già mi aspettavo, giunge il primo sms sul mio telefonino: Mi dispiace, ma oggi Sara terrà la sua prima lezione di equitazione, quindi non possiamo venire.

    Poi ancora un altro: Scusa tanto Beatrice, ma avevamo dimenticato che oggi è il compleanno di un altro amichetto di Tommaso, quindi non possiamo venire, che sbadata! Scusa.

    Al diavolo tutte le scuse. Non risponderò neppure alle loro fandonie.

    La gente vive ormai immersa nella tecnologia, lontana anni luce da quella che viene definita vita reale. Siamo tutti rinchiusi in un videogame gigante, nel quale teniamo in piedi la subdola illusione che arriverà qualcuno a fornirci risposte esistenziali, che invece mai giungeranno, e intanto i rapporti reali vanno a puttane.

    Non mi sorprende ricevere questo tipo di messaggi, ormai non mi pongo più domande né aspettative nei confronti degli altri.

    Dopotutto perché dovrei, dopo quanto mi è capitato nella vita?

    Sono sempre gli altri a porsi domande su di me.

    Lo vedo quando mi guardano pensando che io sia una povera derelitta con un figlio a carico, non suo.

    Le loro occhiatacce sono così eloquenti da essere in grado di oltrepassare la soglia del dolore che riesco ancora a contenere nel recipiente del mio cuore.

    Per non parlare dello sciorinamento di consigli inopportuni che ogni giorno mi vengono propinati, o delle discussioni sterili che mi tocca mio malgrado subire.

    La settimana scorsa la direttrice della scuola materna privata dove abbiamo iscritto il bambino, mi ha invitata ad essere più puntuale quando mi reco a scuola per accompagnarlo al mattino, altrimenti sarà costretta a prendere un provvedimento nei miei confronti, date le lamentele che sono pervenute da parte degli altri genitori.

    Come osano lamentarsi pur conoscendo la nostra situazione? le ho chiesto piena di un risentimento folle, puntando ai suoi occhi incredibilmente freddi e distaccati.

    Non è facile essere l’unica persona a comprendere cosa comporti vivere con un bambino dai comportamenti che rientrano nello spettro autistico.

    Non avrei mai potuto immaginare che Matteo sarebbe giunto nella mia vita con una tale prodezza, quasi con la rapidità di un tuono pronto a squarciare il cielo.

    La prima volta in cui sentii parlare di questa patologia fu al termine di una visita specialistica alla quale Michele e Roberta avevano portato il mio piccolo Sampei, è così che lo soprannominai a partire dalla nascita, per via dei suoi occhi grandi, che mi ricordano quelli di un cartone animato.

    Da diverso tempo aveva assunto un comportamento bizzarro e inusuale per un bambino di due anni, eseguendo una serie di rituali privi di senso.

    Era spesso irrequieto, contrariato, dall'essere un bambino giocoso e allegro improvvisamente si era trasformato in un bimbo chiuso in se stesso.

    Un pomeriggio si sistemò in un angolino nella stanza tenendo le ginocchia tra le mani. Restò a fissare lo stesso punto della stanza dondolandosi per quasi un'ora, e nessuno fu in grado di riuscire a distoglierlo da lì.

    Dopo aver ponderato la situazione, pensarono fosse il caso di effettuare un controllo.

    Fu comunicato loro che i danni erano sicuramente da attribuire al parto difficoltoso.

    Quando Matteo nacque ebbe un arresto cardiaco che si protrasse per quindici minuti, durante i quali i medici fecero tutto ciò che era in loro potere per salvargli la vita. La mancanza di ossigeno provocò una sofferenza e una dilatazione ventricolare, con versamento della materia bianca e grave compromissione del grado medio intellettivo e della sfera del linguaggio.

    Per i primi due anni la sua vita era stata quella di un bambino normale, fatta di giochi, sorrisi, marachelle.

    Poi quel momento, terribile, in cui la risonanza magnetica stabilì il verdetto: danno organico irreversibile.

    Matteo non era più un bambino sano, e la sua vita sarebbe stata compromessa per sempre.

    Michele corse a casa da me per raccontarmi tutto, tra le lacrime.

    Nei venticinque anni in cui eravamo stati insieme non lo avevo mai visto in quello stato.

    Non so neppure come sia arrivata a voler essere la madre di un bambino così irruento e sensibile.

    La nostra è simile a una storia d’amore iniziata un po’ per caso.

    Una di quelle che sogni quando ti immagini qualcosa di molto vicino all’innamoramento vero, con la differenza che non si concluderà come molte altre storie, bensì è destinata a proseguire lungo un percorso infinito che vede me come madre, amare per sempre il mio bambino autistico.

    Non so ancora se la vita ha scelto me perché sono davvero così forte.

    Michele una volta mi disse che io sono come l’acqua: l’acqua buca, l’acqua è forte e conosce il suo cammino, a partire dalla sua procreazione. Lei è consapevole del fatto che esista un inizio e una fine, fino al mare, la sua ultima destinazione.

    E come acqua ho lasciato defluire il rancore causato da un terribile tradimento che mi era stato inflitto.

    Se il sentimento che c’era tra me e mio marito si è interrotto, l’amore che ho provato e provo per Matteo è qualcosa che nessuno potrà mai portarmi via.

    Esiste e basta, Matteo è Matteo.

    Lo osservo sorridermi mentre ritmicamente picchietta le manine sulla testa, e ritorno al giorno in cui corsi in ospedale per poterlo vedere.

    Credevo non avrei provato nulla stringendolo a me.

    Nell'istante in cui il suo viso venne a contatto con il mio, seppi che non sarebbe stato così.

    Il mio cuore traboccò del rancore e della rabbia che avevo accumulato durante tutti quei mesi, che a me sembrarono essere durati un’eternità. Poi sopraggiunse la felicità di sentire il suo piagnucolio, simile a quello di Margherita e Leonardo, i miei due figli.

    Quel suo voler vivere così fortemente, mi fece capire che sarei stata amorevole e disinteressata per quanto avevo subito, proprio per via della mia infanzia turbolenta.

    La storia di Matteo è molto simile alla mia.

    Quando mia madre rimase incinta aveva soltanto diciassette anni e solamente un'amica, che rimase al suo fianco sempre, anche nel giorno del travaglio.

    Da tutti definita zia Clarabella, per molti tra i suoi conoscenti non era che una cinquantenne zitella, ex trapezista, che abitava vicino al quartiere di San Giovanni.

    Venni al mondo con un parto naturale in casa, nel freddo mese di febbraio da una donna di nome Teresa.

    Mi fu dato il nome di Beatrice, letteralmente colei che rende felici.

    Fu Clarabella a sceglierlo, e fu sempre lei ad accudirmi a partire dai tre mesi, giorno esatto in cui mia madre si tolse la vita, impiccandosi. Non soffrii per la sua morte, neppure quando seppi la verità su come era andata.

    Non credo si possa soffrire per la morte di qualcuno che non hai mai conosciuto.

    Credo invece di doverle molto, per avermi insegnato cosa significhi davvero apprezzare la vita come valore aggiunto, da non sperperare nutrendosi di vergogna e risentimento.

    Grazie a Clarabella trascorsi i miei giorni accompagnata da un'infanzia più che felice, contornata di prestigiatori, artisti circensi, scrittori e attori un po’ strambi.

    Avevo solo sette anni, quando scomparve in circostanze misteriose.

    Fu una terribile sofferenza per me venire a conoscenza, soltanto qualche anno dopo, del fatto che il suo corpo era stato ritrovato nel Tevere, la notte di Carnevale.

    Da quel momento ebbi la certezza che tutti coloro che amavo sarebbero morti, lasciandomi sola.

    La vita mi accolse con la sua nuda verità, sbalzandomi alla mercé degli eventi.

    La mia sorte era già stata stabilita, sarei finita in un istituto assieme ad altri orfani.

    Ricordo ancora l'odore acre delle stanze che non venivano mai lavate o aperte neppure durante l'estate. Un olezzo simile a un amalgama di sudore e aliti puzzolenti; ricordo le bacchettate sulle mani quando non erano lustrate a dovere prima di recarsi in refettorio; ricordo le lenzuola gialle che nessuno cambiava se te la facevi sotto per il freddo, oppure soltanto per la paura di restare da solo al buio.

    Imparai molto a proposito dell'indifferenza e della forza, restando in quel posto orribile per oltre un anno.

    Un angelo deve aver guardato in basso, nel giorno in cui arrivarono in orfanotrofio una coppia di sposini: i miei futuri genitori adottivi, i coniugi Lavezzi.

    Erano due tipi tranquilli e gentili, vestiti per bene e profumati, dalla testa ai piedi.

    Credendo che non sarebbero mai riusciti ad avere figli perché così aveva detto il medico, scelsero me salvandomi da chissà quale ulteriore, atroce destino.

    Tre anni dopo contro ogni previsione nacque Ludovica, la mia unica sorella.

    La famiglia era finalmente al completo, tra lo scetticismo dei miei genitori e la felicità di mia nonna Elena, che gridava al miracolo ogni volta che in visita presso altri parenti, si parlava dell'ultima arrivata.

    La nostra era una vera famiglia con reali persone, con coccole reali, una casa bianca dai vetri opachi e un grande terrazzo dove mio padre, astrofisico di fama nazionale, organizzava fastosi ricevimenti in compagnia di amici e colleghi.

    Era un vero spasso per noi bambini.

    Spesso io e Ludovica invitavamo tutti con grande vanto nella nostra camera, dove papà aveva fatto installare un telescopio.

    Fu un regalo che mi fece appena ebbi compiuto i nove anni, perché conosceva la mia passione per le stelle cadenti.

    Sapeva che nelle sere in cui mi fossi sentita triste e malinconica per via del mio passato, avrei potuto guardare il cielo ed essere serena.

    Quella di guardare le stelle era una buona abitudine che custodivamo gelosamente, per noi due soltanto.

    Spesso si accovacciava al mio fianco, cercando di non violare la mia intimità.

    Ciò che adoravo era il fatto che avesse cura delle mie percezioni e del mio mondo interiore, nel quale amavo spesso rifugiarmi.

    Una sera come tante non riuscivo a dormire e me ne stavo intenta ad aspettare il momento in cui mio padre sarebbe giunto a darmi il bacio della buonanotte.

    Lo vidi sopraggiungere con la sua sagoma scura, alta e possente.

    "Guardiamo insieme

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