Epifania in Via Campania
Di Pier Adduce
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Info su questo ebook
Nell’opera di Pierfrancesco Adduce rivive l’hinterland in cui è cresciuto, il percorso di un ragazzo snodato tra spensieratezza e ostacoli, con uno sguardo sulle vicende di quegli anni e il colore dei ricordi.
Pier Adduce (all’anagrafe Pierfrancesco Adduce) nato a Monza il 7 luglio del 1970, vive in Brianza dal 2013 dopo una vita trascorsa tra l’hinterland milanese e Milano città. Frontman, musicista e autore dei testi dei Guignol, storica band milanese nata nel 1999, ha all’attivo otto album e due Ep – tra cui l’ultimo, Luna piena e guardrail (2020) LP per AtelierSonique/Orzorock Music – centinaia di concerti in Italia e all’estero e svariate collaborazioni con artisti della scena underground italiana e internazionale. Tra gli altri suoi progetti, l’ensamble di performance tra suoni e letteratura Cabaret Schengen, il recente Le Periferie Dell’amore e la raccolta di racconti brevi sonorizzati Ingannevole è il giorno (2020), realizzata col musicista e collaboratore di vari progetti Massimiliano Gallo.
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Anteprima del libro
Epifania in Via Campania - Pier Adduce
siti dell’Autore:
www.guignol.it
www.facebook.com/bandguignol/
www.facebook.com/pier.adduce
© 2021 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-1566-7
I edizione dicembre 2021
Finito di stampare nel mese di dicembre 2021
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Pier Adduce
Epifania
in Via Campania
Epifania in Via Campania
Questo libro è dedicato a mio figlio,
ai sopravvissuti (bene o male) di quegli anni,
agli inquieti e agli adulti mai
di ieri e di oggi
1 - La Cosa
Ci dirigevamo verso lo spiazzo di terra sul retro degli ultimi condomini, prima del viale, dopo il cortile dei box. Non so perché ci era parso di aver sentito un suono, una vibrazione, un ronzio che ci richiamava irresistibilmente lì.
Era una serata tiepida di fine ottobre o dei primi di novembre, calava già il buio e io e Popy – che mi seguiva un po’ ovunque – ci dirigemmo proprio lì, prima di rientrare per cena, attratti da quel ronzio che pareva non essere percepito da altri al di fuori di noi.
Effettivamente intorno non c’era nessun altro; era orario di rientro e l’estate, coi suoi sprazzi di vivacità e assembramenti, qui e là davanti al bar o alle altre botteghe all’incrocio del rione, era un ricordo lontano.
Ciò nonostante, la sera galleggiava in una strana atmosfera sospesa.
Le luci gialle alle finestre, alcuni echi di televisori già accesi, il solito frastuono di fondo del traffico del Viale del Tagliamento – vialone a scorrimento veloce, confine fisico e ideale a tutti gli effetti – a separare il quartiere tra ciò che stava al di là e ciò che stava al di qua.
Fu in quello spiazzo squallido, spelacchiato, consumato da mille e più partite di calcio caotiche di noi marmocchi sognanti ancora i mondiali di Argentina ‘78, che io e Popy vedemmo tra due grossi cespugli di ortensie, posti a metà di una breve fila di pini, quella indefinibile cosa: nera, lucida e fumante, che pareva scossa da un sottile fremito o tremore.
Aveva forma sferica o forse ovoidale e confusi erano in parte i suoi bordi nel mezzo dei cespugli in cui pareva essersi adagiata.
Adagiata? Da dove?
Soprattutto, cos’era?
Ce lo chiedemmo; anche se solo a sprazzi, nel mezzo dello sbalordimento, in un misto di stupore e spavento.
Che roba era?
Non riuscivamo a muovere un muscolo.
Nessuno si era accorto di questa cosa al confine col viale?
Possibile che nessuno la notasse?
Okay, era calato il buio e giaceva semi nascosta ma non era certo normale.
Pareva non essere di questo mondo un po’ come il monolite di 2001 Odissea Nello Spazio o qualcosa sbucato fuori dai racconti di Buzzati...
Avrei ripensato poi, anni dopo.
A me e a Popy passò di colpo la voglia di continuare i nostri giochi.
Eravamo ragazzini anche suggestionabili talvolta e ci perdevamo volentieri in fantasie – specie giocando in strada o quando ci perdevamo nei fumetti della Marvel Comics – ma di lì a poco ci prese una strana tremarella alle gambe, una specie di sacro terrore che non potevamo e sapevamo spiegare.
Afferrai Popy inebetito dopo averlo sentito pronunciare smozzicato un: «Che cazzo è?» Gli dissi solo: «Via! Via!»
Non ci voltammo più: ci guardammo solo un momento, in silenzio, turbati e un po’ ansimanti.
Facemmo velocemente la strada a ritroso, uscendo dallo spiazzo, solo tangenzialmente illuminato da alcuni lampioni della via al confine col viale.
Non avemmo nemmeno il tempo di uscire da lì che le circostanze, e il caso, ci posero per la seconda volta quel giorno d’innanzi a un incontro ravvicinato
: in questo caso molto meno stupefacente, ma non meno denso di pathos e – ahinoi! – prevedibile, crescente tensione, da lì a poco.
Due dodicenni dei civici lì a fianco, due facce note: attaccabrighe, figli di famiglie per bene; borghesi con auto di papà in bella mostra alla domenica pomeriggio, con mamma impellicciata al seguito e fratelli maggiori adolescenti; già prematuramente pizzicati in risse per questioni calcistiche o politiche, ci affrontarono, intimandoci di non andare oltre.
«Che fate qui?»
«Nulla, andavamo via» risposi.
«Ve ne andate quando lo dico io!» disse autoritario quello più scuro in volto, con un accenno di peluria sul muso e il mento e gli occhi divertiti di un piccolo sadico.
«Sei interista?» mi incalzò subito dopo.
«No, perché?»
Non arrivò alcuna risposta ma direttamente uno schiaffone a scuotermi la guancia con l’aggiunta dell’intimazione a non tornare più in quello che definivano territorio loro
.
Popy, in quel frangente un pelo più lucido di me, vedendomi scosso e rabbioso mi prese e portò via; che non era il caso di rispondere o fare altro, che le avremmo prese ancora e peggio.
Fu tutto rapidissimo: tagliammo velocemente la corda che nemmeno avevo realizzato ancora l’affronto subito e la guancia pulsante di calore, quando mi sorpresi a ripensare – prima che a quel prepotente figlio di puttana, un po’ più grande di me, e su cui avrei voluto posare delle mani più grandi e capaci delle mie – alla sconvolgente visione di prima, chiedendomi se mai si fossero accorti, quei due bulli, di quella cosa lì vicino, e se quella visione non fosse stata anche un po’ presaga dello sgradevole episodio accaduto dopo.
2 - Io e Popy
Io e Popy decidemmo di non dire nulla dei fatti accaduti quella sera, per quella sorta di cosa
, quella folle epifania
al campetto, di fronte al viale. Tutto si sarebbe svelato il giorno dopo, col ritorno della luce.
Non era il caso quindi di creare allarmismi o di rischiare di essere perfino presi in giro come due qualunque marmocchi in preda a fantasie e visioni.
In effetti, ciò che avevamo visto, non saremmo stati bene in grado di descriverlo. Non era ben definito ancora nelle nostre teste.
Erano vaghi e discordanti i resoconti tra me e Popy, al punto che iniziammo ad avere dubbi sul fatto di vederci bene e di non essere stati piuttosto preda di qualche suggestione indotta da chissà cos’altro.
Lo schiaffo di quel bastardo, quello sì era stato vero e inequivocabile!
Popy ridacchiava un po’ commentando il fatto: «non te l’aspettavi, eh?»
Io ribollivo di rabbia al pensiero ma avevo la sensazione che presto avrei incrociato ancora per strada quello stronzo figlio di papà, e le cose, forse, sarebbero andate diversamente.
Ero anche un po’ via con la testa e distratto – quasi sempre lo ero anche a scuola – ma provavo una sorta di inquietudine mista a leggerezza. Nonostante tutto ero stato testimone di qualcosa di straordinario e questo chissà perché mi eccitava, come se potessero aprirsi chissà quali scenari da lì in poi.
Popy, vero nome Ilario. Detto così perché cicciottello, riccio e rubicondo e poi perché gli suonava bene – onomatopeico, specie quando gli tiravano i pizzicotti, i più grandi, mimando il clacson a trombetta delle bici da cross – era un coetaneo a suo modo generoso ma guardingo, malizioso quanto bastava, incosciente e sconsiderato abbastanza da farsi coinvolgere da certe mie pensate senza però risparmiarmi il suo puntuale scherno, se era il caso, quando le cose si mettevano in modo sconveniente per entrambi; specie quando si giocava a biglie con altri ragazzi o sulle scelte per schierare le formazioni in occasione delle partitelle di calcio, dietro Via Calabria o nel cortile dei box di Via Campania.
Popy era un ottimo compagno di giochi e un discreto complice, nonostante soffrisse le situazioni che richiedevano un impegno fisico particolare. Tipo certe partite di calcio inesauribili; specie nella bella stagione, sulle aiuole dietro Via Calabria, dove si creava spontaneamente un improbabile campo da gioco.
Rubato alla quiete e al passeggio di anziani e mamme con carrozzine, somigliava più a un percorso a ostacoli; con dislivelli, cespugli, muretti e altro nel mezzo.
Le partite se le aggiudicavano le squadre che totalizzavano prima i 10 o i 15 goal e potevano variare, nella durata, dai quaranta minuti alle due, tre ore. C’era poi l’eventualità, sempre presente, della sparizione del pallone su uno dei balconi soprastanti, oppure – peggio – la foratura dolosa dello stesso con le forbici, a opera di uno dei condomini inferociti dal frastuono, o da parte del proprietario dell’auto che subiva il calcio di punizione di prima, in direttissima, sulla portiera o sul parabrezza.
Su tutte, però, l’eventualità più sciagurata era quella della rottura della vetrina della merceria posta poco dietro una delle due porte
improvvisate: delimitate da un lato dal muro del caseggiato, e dall’altro da un cespuglio, con sopra alcune giacche; messe lì perché risultasse il palo
della porta più visibile ed evidente.
Popy, in questi frangenti, alternava fasi di gioco ad alta intensità a eclissamenti – causa affanno e fiatone – in cui si estraniava dal gioco, mettendosi a margine, in attacco, o in porta a sostituire il portiere.
Fu lì che una volta parò un pallone: una saracca
di cuoio scagliata di punta da un giocatore avventizio, talmente forte che si stampò sul suo addome!
L’impatto fu secco ma lui non emise un suono; solo andò giù in terra e vi rimase guardando in alto.
Cicciottello com’era l’aveva ammortizzato bene il tiro, ma i presenti, me compreso, iniziarono a temere realmente che si fosse in qualche modo sgonfiato
o stesse per farlo.
Ci avvicinammo a lui tutt’intorno a sincerarci della situazione:
«Popy, tutto bene?» con lui che non batté ciglio.
«Ti sei sgonfiato, eh!?» sghignazzanti.
A quel punto, il sorriso beffardo di Popy ci rassicurò:
«Conigli! Voi non l’avreste mai presa! Nemmeno la vedevate!»
Aveva ragione.
3 - Il Cinema Apollo
I mondiali del ‘78 si erano tenuti l’estate passata e gli adulti al bar li commentavano ancora con un tono tra il polemico e l’ammirato, specie parlando dell’Argentina, campione per la prima volta nella sua storia; per via anche di certi favori arbitrali a dir poco sfacciati a suo vantaggio nella finalissima a danno della grande Olanda del calcio totale. Noi piccoli restavamo invece fieramente orgogliosi dei nostri beniamini nazionali: Bettega, Causio, Rossi, Cabrini, Benetti, ecc... che, come santini, ci accompagnavano durante le partitelle ai giardinetti o nel cortile dei box di Via Campania; e spesso le loro figurine venivano gelosamente custodite o esibite semmai, ma mai inserite nel mazzo di quelle da giocarsi al pomeriggio; dopo la scuola, ai muretti o sotto ai portici del Cinema Apollo.
Il Cinema Apollo: l’antro delle meraviglie, il luogo dei sogni e delle fantasie più audaci.
Non era tanto il cinema quanto i cartelloni con le anteprime ad accendere le fantasie di ragazzi e ragazze, uomini e donne di tutte le età.
Era una porta su un’altra dimensione spazio temporale. Scuro e seducente al suo