Il Commissario Chepì e altri racconti
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Info su questo ebook
Il poliziesco è l'ultima creazione in ordine cronologico ed è stata mantenuta del tutto inedita fino alla realizzazione di questo libro. Narra del Commissario Chepì che svolge indagini per un caso di omicidio nella Firenze contemporanea.
Gli altri racconti sono invece già andati alla ricerca di consensi, sia pure da parte di un pubblico ristrettissimo, che ha mostrato di apprezzarli, stimolando l'autore ad andare oltre.
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Anteprima del libro
Il Commissario Chepì e altri racconti - Luciano Marcelli
L.M.
Prefazione
Una delle maestre che vidi avvicendarsi durante gli anni delle elementari, per l’esattezza quella che manteneva l’ordine in classe con un fischietto, mi assegnava, fatto del tutto inusuale nella scuola italiana di allora, un doppio voto nei temi: Grammatica 10. Componimento 5
. Invariabilmente.
Strumento senz’altro efficace al fine di rendere giustizia a degli elaborati miseri in bella veste, ha però fatto sì che io introiettassi un marchio di carente creatività, del quale solo in anni molto recenti ho pensato sul serio di potermi disfare; di pari passo, ho sviluppato un anelito di perfezione che mi rende la vita difficile.
Di quando in quando, ho saputo rinunciare a quel dieci nella forma, intravedendo la possibilità che, per contro, la sostanza entrasse nel dominio della sufficienza; ma sono state delle eccezioni.
La stesura di questi racconti è una di quelle.
Eccomi quindi a esordire, cinquantunenne, nel mondo della novellistica.
Perciò il lettore è avvertito: questo non è un libro perfetto.
Quanto a me, sarò contento se risulterà che ho fatto semplicemente un libro bello; oltre che buono, mi auguro.
L.M.
Il Commissario Chepì
- 1 -
Era un ottantenne in discreta forma fisica quello che il commissario Chepì si trovava di fronte. Bruno, nella foto in bianco e nero della patente del ’63; castano, c’era scritto. Quell’immagine aveva attraversato indenne decenni di rinnovi sul documento piegato a fisarmonica, mentre il titolare sottostava al naturale incanutimento; il principio di calvizie di allora lasciava oggi scoperta un’intera cupola, mentre solo al disotto, sui lati e sulla nuca, persisteva un velluto candido, corto; spazzolato.
«Si sieda, signor Numana», esordì conciliante il commissario, «e mi racconti: in che modo c’entra lei con questa vicenda? Che cosa ne sa?»
«Non c’entro affatto, commissario, e ne so davvero poco», fece l’uomo, il quale, benché certo di coltivare, per lo più, pensieri moderni, stava inconsapevolmente ammiccando benevolo e paterno e sorpreso all’indirizzo del vicequestore aggiunto, commissario capo Donata Chepì: Numana era senz’altro abituato a trovare personale femminile tra le forze dell’ordine, ma quella mattina, entrando al commissariato di San Giovanni, non era preparato a imbattersi in un funzionario donna di alta carica. Nondimeno, se ne compiacque e ora gli piaceva di stare là a conferire con la giovane e gradevole tutrice dell’ordine. «Non ne so nulla, oltre al poco che ho già avuto modo di riferire ai suoi uomini, dottoressa. A ogni modo, visto che me lo chiede, riassumo anche per lei».
«Eh no, signor Numana», lo interruppe Chepì, «mi faccia una cortesia: non riassuma. Se già ne sa poco, come dichiara, e per giunta riassume, finisce che mi lascia con un bel pugno di mosche, non le pare?»
«Giustissimo», ripartì prontamente l’uomo. «Cercherò, allora, di riferirle ogni dettaglio che, mi auguro, possa tornarle utile. Vediamo. Ecco, sì: tornavo dalla mia consueta pedalata pomeridiana, condotta alla mia solita andatura da passeggio. Sa, quando le condizioni meteorologiche risultano favorevoli o perlomeno non avverse, vado da via Manzoni, dove tengo la bici in un fondaco che mi fa da cantina e da locale di sgombero, fino al parco delle Cascine, fino alla Tomba dell’Indiano; vado a un passo molto tranquillo, sa, alla mia età... a volte mi sorpassano anche i podisti in corsa; però mi piace, mi piace molto. Al ritorno, quasi ogni volta, mi concedo una breve pausa su di una panchina della Fortezza da Basso... Mi permetta di farle un’ingenua confidenza: nelle mie tappe alla Fortezza, mi soffermo sempre in attesa che la fontana osservi la sua immancabile pausa, fatto che si verifica invariabilmente ogni trenta minuti. Ecco: quando tutto quello zampillio si arresta e quel monticello di terra, quello scoglietto, da cui fino a un attimo prima sgorgava l’acqua, rimane là da solo... umido e nudo... vorrei dire umile, secco... inutile, ecco, inutile, allora mi ritrovo a trepidare come un bambino, in attesa che i getti riprendano al più presto, che tornino a modellare quella scultura, una scultura che, essendo d’acqua, capisce, è tremolante, sì, quasi vacillante, eppure, al contempo, è potente, ecco, sì... gloriosa. Un minuto di intervallo ogni mezz’ora: lo sapeva? Come spiegazione, nei miei primi tempi a Firenze, più di quaranta anni fa oramai, provai a fare delle supposizioni, per trovare una ragione a queste pause; formulai l’ipotesi che si trattasse di interruzioni necessarie per ricaricare le pompe o per farle riposare, ma non ho mai approfondito, stranamente, né allora né poi... Chissà. Però, se ci si pensa: quale ingegno, questi giochi d’acqua! Che fantasia! E che determinazione sa dimostrare la razza umana nel perseguirne i sogni, nel realizzarli. Poi, le dirò: ragionavo giusto l’altr’ieri con mia moglie di quelle paperelle o di quei germani che abitano la vasca (e peccato che non vi siano più i bei cigni di una volta)...»
«La prego, la prego», troncò composta Chepì, che a stento si era fin qua trattenuta, in attesa di cogliere qualche spunto di interesse. «È vero che le ho chiesto i dettagli, ma alludevo soltanto a quelli pertinenti. Cerchi di non portarmi troppo in giro, con codesta sua eloquenza; è necessario che ci concentriamo sui fatti attinenti al caso e che tralasciamo il superfluo. D’accordo? Me la fa questa cortesia?»
«Oh, sì. Vedo. Mi sono dilungato e mi sono allontanato, ha ragione, e spero che vorrà perdonarmi. Vedrò di temperare questa mia propensione a narrare. In aggiunta, sa com’è? Si invecchia e allora non si ha più tanta fretta, nel raccontare, anzi: con l’avanzare dell’età si perde interesse per l’efficienza fine a se stessa, in senso generale, e quindi, in particolare, anche per l’efficienza nel discorrere, nel riferire; eh sì. Allora, torniamo ai fatti che più le preme di sapere. Bene. Lasciata ampiamente alle spalle anche la Fortezza, mi trovavo oramai a un ottimo punto, sulla via del rientro, lungo la pista ciclabile, e stavo percorrendo il tratto curvilineo intorno a piazzale Donatello, quando notai, alla mia destra, sul marciapiede, quel collo rotto di bottiglia e quel guanto. Mi fermai, misi i piedi a terra e mi chinai un po’, per osservare quei due oggetti, sempre trattenendomi con le mani sul manubrio. Non saprei dire per quale motivo avessero attirato la mia attenzione. L’aria era chiara e quelli risultavano ben visibili, fino nei dettagli. Il collo di bottiglia, rotto alla base, era di un vetro scuro ed era avvolto da una fascia bordeaux alta alcuni centimetri: una bottiglia di vino, quasi certamente; si trovava piuttosto vicino al muro, a quel muro che si erge dal marciapiede e che cinge il parco situato al di là. Il guanto era distante una ventina di centimetri, più verso la strada e leggermente più avanti: un guanto nero, di lana direi, di misura media; mi formai l’idea che fosse appartenuto a una donna; era poggiato con il palmo rivolto verso il basso, le dita semiaperte, allineate, il dorso pieno, che conservava parzialmente la forma e il volume della mano. Oh no, non che avesse alcunché di macabro, non ai miei occhi, perlomeno: nessuna particolare suggestione. Tornando alla bottiglia, mi colpì il fatto che in terra vi fosse soltanto il collo e pochissimi altri cocci piuttosto piccoli, mentre mancava il grosso della bottiglia, là intorno. Mah. Dedussi che fosse stata rotta altrove e soltanto il collo gettato là.
Comunque sia, qualcosa avvenne. Ero lì da poco, che osservavo quei due oggetti, quando ecco sopraggiungere due ragazze e un giovanotto, tutti più o meno sulla ventina o giù di lì, scesi da un’auto che avevano appena arrestato sul bordo del viale. Una delle due ragazze, avvicinandosi baldanzosa e al tempo stesso incerta, un po’ sguaiata, con l’aggressività di chi abbia timore o imbarazzo, direi, mi fa: Ehi, stia attento al mio guanto!
, come se io potessi parerle in procinto di calpestarlo o di prenderlo o chissà che altro, mentre ero ben fermo nel proposito di guardare e di non toccare. Né ritenevo di poter costituire una minaccia. Oh, no
, continuò quella, querula, un po’ tra sé, un po’ rivolta all’amica, guarda come si è conciato!
e fece per raccoglierlo. Infatti si chinò, lo prese con la destra e, mentre si rialzava, scuotendone la polvere e le foglie secche, quando ancora non era tornata del tutto su ritta in piedi, si bloccò un momento, trasecolò in volto e si accasciò al suolo; così, senza tonfo, flosciamente.
Aveva perso i sensi, era chiaro. Sa, fa impressione assistere a un fatto del genere, specialmente se si tratta di un giovane o di una giovane. Non cadde rigida, non sembrò picchiare duro a terra; preda di uno svenimento, non di un duro colpo, ma a me si strinse comunque il cuore. Dopo i primi istanti, accadde che presi io, automaticamente, il controllo della situazione, dal momento che i suoi amici si erano lasciati sopraffare dallo spavento ed erano capaci soltanto di chiamarla, in coro o a turno, disordinatamente; sapevano soltanto scuoterla e saltellare nevrastenici, del tutto improduttivamente.
Chiamai subito il 118 con il telefonino; che però mi tremava, tra le dita.
Che esperienza, il 118! Mica te l’aspetti così. Io c’ero