Cosa Manca
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C’è Pito, ricciolone sbarbato, laconico e introverso, che vive da due anni in un buco nero fatto di caffè, fotocopie e scontrini per il rimborso spese. Quando realizza che tra una settimana sarà avvocato, gli crolla il mondo addosso.
E così, in una afosa mattina di luglio, durante la proclamazione di laurea della sua migliore amica Valentina, sfida il suo cervello, cambia sguardo e cerca, inconsciamente, ogni appiglio, ogni piccola occasione che potrebbe stravolgergli la vita pur di non passare da un buco nero a un altro. E la trova quando, in un pub irlandese di Piazza Venezia, una sconosciuta lo seduce, lo provoca, e gli chiede di partire all’indomani con lei per Nogent sur Marne, alle porte di Parigi, per fare il cameriere. La sua vita non cambierà, lui sì.
E poi ci sono Gabriella, Ilario, Giovanni, Emilio e il Maestro, giovani figli del mondo che, dopo le loro lauree, si erano promessi di rimanere a Roma e invece, hanno dovuto separarsi approdando in cinque lontani e differenti paesi.
Non per questo sono meno amici di prima.
Si riuniscono, una volta all’anno, in un posto diverso del globo, non importa quale. Perché non esiste il luogo perfetto, esistono le occasioni, i momenti, le ambizioni, che se sono quelli giusti, fanno di ogni città il posto perfetto.
E così tutti gli altri personaggi del romanzo, giovani disperati viaggiatori che hanno poco e nulla tra le mani, ma non per questo rinunciano a rimanere sognatori.
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Anteprima del libro
Cosa Manca - Giovanni B. Algieri
Pito.
PREFAZIONE
di Dario Brunori
La tua assenza è un assedio
.
Così cantava Piero Ciampi, sublimando il senso di mancanza, quell’inesorabile stillicidio che fa da sottofondo al nostro vivere quotidiano nel momento in cui avvertiamo un vuoto. Vale a dire quasi sempre.
Ed è il medesimo sottofondo agrodolce a tenere insieme le cinque storie di questo libro. I nomi cambiano, le ambientazioni mutano, talvolta anche il tempo e lo spazio narrativo, ciò che è reale e ciò che non lo è.
Ma il vuoto, quasi sempre, resta.
Ci sono gli universitar(d)i, i neolaureati, gli stagisti, il solito ambaradan postmoderno in crisi e in crasi, i nostri cari precari, i genitori ottimisti, pragmatici e superficiali, il sud degli eterni migranti, i pre-migranti e i postmigranti, le fantasie abbattute a colpi di routine, quelle inseguite a cazzo di cane
, i poveri illusi di un’Italia rosso bolletta, verde bile e notti in bianco.
Ma c’è anche l’ottimismo incrollabile, l’ironia che sa prendere e prendersi in giro, il ridere dei propri guai sempre e comunque. Insomma tutto il sapore, il colore e il calore di una certa umanità nostrana.
Come in una specie di staffetta esistenziale, tra incanto e disincanto, questi poveri cristi dipinti da Giovanni Algieri si passano il testimone nell’eterna corsa ai traguardi della vita. Se solo ci fosse una gara vera, una pista ufficiale, un tracciato definito. Se solo si sapesse in che direzione andare. Se solo si capisse dov’è la partenza e, soprattutto, qual è l’arrivo.
Se solo qualcuno gridasse: Pronti, partenza, Via!
.
E pensare che un tempo era semplice. Tutto prestabilito, tutto già confezionato:
Neonato. Bambino. Adolescente. Uomo. Sposo. Padre. Nonno. Anziano.
Oggi no. Oggi tutto è reversibile:
Neonato. Bambino. Adolescente. Adolescente. Adolescente. Uomo. Sposo. Adolescente. Padre. Sposo. Anziano. Bambino. Uomo. Nonno. Neonato. Adolescente…
Liberi, liberi siamo noi. Ma liberi da che cosa?
E poi: sai che fortuna essere liberi,
essere passibili di libertà che sembrano infinite e non sapere cosa mettersi mai dove andare a ballare a chi telefonare.
Allora ci si rifugia nel passato, in ciò che è stato, in quello che non c’è
. Rivuoi la scelta, rivuoi il controllo. Rivoglio le mie ali nere, il mio mantello.
Ma, il ricordo, si sa, trasfigura la realtà, la verità se ne sta sulle stelle più lontane e ci rimane.
Mia nonna più semplicemente avrebbe detto: chini guarda sempre arrieti nun camina e si camina s’arrozzola!
(Chi guarda sempre indietro non cammina e se cammina inciampa!)
E allora Cosa Manca a questo nostro presente?
Un conto in banca?
Un amore che non torna o che peggio non c’è stato mai?
Essere padre o essere figlio?
Spiccare il volo o sdraiarsi sul divano a spiare le vite degli altri?
Cosa ti manca cosa non hai, cos’è che insegui se non lo sai, se la tua corsa finisse qui…forse sarebbe meglio così?
Si può dare, ma anche dire di più.
La mia risposta, come spesso accade, la lascio ad un cartone.
Ieri è storia, domani è un mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente.
Cosa Manca
La pioggia del ritorno
Introduzione autobiografica
Conobbi Wilma alla fine di un’estate senza infamia e senza lode. Avevo da poco compiuto sedici anni.
Ero un ragazzo spontaneo ma ragionatore. Laconico ma vivace. Mi interrogavo insistentemente su cosa e chi mi attorniava ma mai su nulla di troppo lontano, di troppo esistenziale. Sapevo stare al mondo.
Wilma poteva avere trenta, quaranta, forse cinquant’anni. Era difficile intuirlo.
Irruppe su quel molo a rompere la quiete della darsena a bordo di una stramba bici dotata di un rintronante motore a scoppio. Da una manopola penzolava un secchio turchese da cui fuoriusciva una canna da pesca nera in carbonio e tra i piedi, invece, stringeva un retino verde in procinto di cadere per terra.
Spense il trambusto e il molo smise di vibrare, mise sul cavalletto e, rollandosi del tabacco, si avvicinò a passi lenti e minacciosi. Poi si fermò a pochi passi da me a gambe divaricate fissandomi in cagnesco come a voler provocare una mia reazione che, ovviamente, non ottenne.
Perciò si avvicinò ancora, trascinando pigramente i suoi zoccoli che riecheggiarono sopra e sotto al molo.
– E tu? – la voce rauca e nasale.
Restai in silenzio ad osservare il suo cespuglietto di capelli arruffati e neri con qualche filo bianco disomogeneo sopra un naso aquilino e un costume da bagno intero che discordava completamente con la sua attrezzatura ed il suo mezzo, la rendeva goffa.
Lasciò passare un istante di silenzio intervallato dal guizzo di un cefalo proprio alle mie spalle. Poi guardando con diffidenza ciò che avevo in mano aggiunse:
– Sei uno scrittore?
Una domanda che, a pensarci oggi, fa rabbrividire.
Ma partiamo dal principio.
Quel primo giorno di settembre, mi decisi finalmente a ristabilire un contatto fisico con quel compendio impolverato che da ferragosto in poi sembrava mandarmi occhiatacce per intimarmi che, a breve, avrei dovuto fare i conti con l’esame di Olivio Barnacchi che mia madre erroneamente si ostinava a chiamare esame di riparazione di Storia ignorando che, nell’epoca della vanità, i nomi delle materie sono ormai sostituiti dai nomi di chi le insegna.
Dopo una delle consuete e fiacche colazioni-pranzo estive sovrastate dalla voce del telegiornale che annunciava imminenti e strutturali riforme cui solo mio padre riusciva a dare morbosa retta, come in ogni finale d’estate mamma e nonna Cecca, stendendo le braccia, iniziarono a sfiorarsi i palmi delle mani per piegare e custodire lenzuola, tovaglie, copridivani, teli ancora salati e a disadornare mensole e tavolini della casa al mare, gradatamente, un po’ alla volta, un bustone al giorno, per alleviare il trauma al passaggio autunnale e il severo impatto del ritorno in città.
Quel giorno fu uno dei tanti in cui al mio arrochito «vado al mare» fece seguito uno dei tanti e gratuiti «stai attento» di mia madre, come se la strada che porta al mare fosse un dedalo infestato di insidie, trappole, animali feroci, sabbie mobili e carboni ardenti.
Eppure, chi lo avrebbe mai detto, di quel «stai attento» di quel preciso giorno ne risento ancora perfettamente il suono. Riesco a riprodurlo nitidamente nella mia mente ogni volta che voglio. Così come ricordo ancora i colori e l’aria appiccicosa di quello che sembrava essere uno dei soliti giorni afosi e deserti di fine estate e poi ogni gesto, ogni movimento di quando con la bocca ancora infracidita dal succo del cocomero sollevai da terra la mia mountain bike promettendomi di montarci un nuovo cavalletto al più presto e sotto la canicola mi diressi lentamente verso il sentiero del mare dove per Caso, qualora qualcuno ancora creda al Caso, avrei incontrato Wilma.
Ora, dacché mondo è mondo, uno sbarbatello di sedici anni che pedala lungo la via ombreggiata del mare con un compendio di Storia in borsa non può che detenere la stessa oggettiva credibilità di quando va ad Amsterdam per visitare i musei, di quando gli investono il cane il giorno prima dell’interrogazione a scuola o di quando ha dimenticato di obliterare il biglietto dell’autobus proprio il giorno in cui c’è il controllore a bordo.
Eppure ricordo chiaramente come la strana, sfiorente e distensiva atmosfera di quei giorni suscitò in me il giusto equilibrio tra stimolo e malinconia per riuscire a studiare, di provarci, tutt’al più di cedere alla tentazione di un ultimo tuffo dopo appena due o tre pagine, ma mai e poi mai avrei pensato di incontrare la persona che avrebbe dirottato il senso dei miei giorni e di accorgermene solo oggi, amaramente, casualmente, undici lunghi anni dopo.
Quell’anno, io e i miei amici, il debito in Storia ce l’avevamo tutti. Risultato di quando, poco astutamente, nel mese di aprile, nell’ultimo giorno della nostra gita a Pisa, rubammo i lacci delle scarpe che il professor Olivio Barnacchi aveva lasciato fuori dalla sua porta e li usammo per legare Cataldino, perenne vittima dei nostri scherzi, alla trabacca del letto imbavagliandolo, imbrattandolo di rossetto e lasciandolo in mutande per poi incriminare implicitamente il professor Barnacchi dell’accaduto al cospetto della preside, sghignazzando con quel pungente tono d’ironia e buon umore che dopo i trent’anni vengono sempre e indistinguibilmente recepiti come cafonaggine o villania.
Se ci ripenso, nonostante la trasgressività della burla, continuo a credere oggi come allora che quella di Barnacchi fu una vendetta piuttosto dispotica, vigliacca, degna del suo personaggio, uno di quei professori-dinosauro allergici alla pensione che solo perché insegnano l’inconfutabilità della Storia sono convinti che gli alunni debbano vestirsi come vestivano loro, comportarsi come si comportavano loro e che il programma scolastico, il metodo, gli strumenti d’insegnamento debbano restare gli stessi di quando tra i banchi c’erano loro.
L’epilogo fu, alla fine di quella estate, che tra i complici di quella marachella, un paio si rinchiusero in casa per ore ed ore a fissare a bocca aperta un ventilatore stridente mentre sparpagliava fogli e appunti qua e là per la stanza e un altro paio, invece, a proprio rischio e pericolo, non rinunciarono agli ultimi stravacchi pomeridiani sotto l’ombrellone e alle ultime tiepide nuotate al tramonto fino a che non sarebbe sopraggiunta quella che mia nonna chiamava a’chiuvuta ira ricota
, la pioggia del ritorno, ovvero l’immancabile temporale di fine estate che funge da richiamo per le famiglie che, da quel momento, si vedono costrette al ritorno nelle rispettive città e che, qualora non arrivasse, quell’acquazzone, comporterebbe un traumatico e problematico distacco dal mare.
Del resto, il mare in questione è un mare piuttosto speciale. Speciale non semplicemente ed egoisticamente perché è quello da cui io provengo. Speciale per gli occhi di chiunque lo guardi e lo tocchi. Speciale per la sua storia.
Un mare vecchio come tutti i mari, sì, ma trattasi di acqua e terra che per lunghi secoli ha rappresentato la più gloriosa colonia della Magna Grecia, centro di ozio e potere, donne e denaro, sapere e spregiudicata vita mondana.
Tutte queste cose le so grazie a Wilma, al nostro incontro su quel molo (apparentemente) abbandonato, a quegli sgoccioli d’estate, al mio furto, al Caso.
– Beh? Sei muto? Allora?
– No, non sono uno scrittore.
– Ah no? E allora cosa ci fai con fogli e penna tra le mani?
– Non scrivono solo gli scrittori – replicai io, conciso e insolente.
– Scrivi – ripeté boccheggiando nuvolette di fumo verso il cielo – anche a Fred piace tanto scrivere. Anche leggere, ma scrivere, scrivere...
Ah, a proposito, io sono Wilma, – disse con sconvolgente serietà porgendomi la sua mano fradicia di sudore e fetida di formaggio pecorino ammuffito.
Restai stordito per qualche istante. E non solo per la puzza.
Fossero qui i miei amici, sai che risate, che prese per il culo a questa tizia…pensai tra me e me, ignaro dell’importanza di quel momento.
Improvvisai una risposta conciliabile con la sua affermazione:
– Tazmania, – sussurrai, soffocando un inarrestabile principio di ghigno nella gola.
Lei si voltò nuovamente alla sua destra e fissando un punto imprecisato verso il cielo disse:
– Gran bel nome, Taz, gran-bel-nome.
Non ti ho mai visto qui a Sibari, sei un forestiero?
Ero un forestiero io? Che significava forestiero?
Abitare a trenta chilometri dalla casa al mare significava essere forestiero? Mi interrogai.
E come era possibile non aver mai notato un personaggio del genere durante tutte le mie estati? Una pescatrice rozza e senza età, col suo trabiccolo frastornante a poche pedalate da casa mia e che si crede la moglie di un cartone animato.
– Sì, sono un forestiero.
– Ecco, un altro turista riccone.
Bravo. Complimenti. A te e a tutti quegli altri che vengono, mangiano, inquinano il lago con i loro yacht giganti, bevono, ballano e alla prima ventata fredda sbattono le porte e vanno a morire ammazzati nelle loro città. Come se là il freddo non arrivasse.
Silenzio. Sole. Cefalo. Silenzio.
– Ma a te non piace la città…a te non piace, vero Taz?
Feci no col capo, tra timore e sincerità.
Mi diede le spalle, protrasse la sua canna da pesca, gettò la lenza furiosamente in acqua e ruotò a lungo il mulinello indurendo le mascelle robuste per trattenere meglio la sigaretta tra le labbra.
Con un occhio sottolineavo, con l’altro spiavo.
Incastrò la canna tra due lastre di legno del molo ed estrasse dal nulla il retino verde e un vecchio bicchiere di nutella anni ‘90 pieno di vermi il cui tappo bianco era accuratamente bucherellato.
Ne avvertii la puzza a un metro. Continuai a leggere, in silenzio, stranito, sudacchiato e incuriosito.
Si sedette sul pontile con i piedi ciondoloni e mise il retino a mollo in religioso silenzio, come se io fossi di colpo diventato invisibile, inesistente, come se avesse dimenticato di avermi visto e rivolto la parola pochi minuti prima con l’intenzione, tra l’altro, d’intimorirmi.
Con la coda dell’occhio continuai a seguire i suoi piccoli gesti come quando si lasciò solleticare sulle dita da un paio di bigattini o come quando sfregando le mani appallottolò grumi di pastura per poi gettarli attorno al suo metro d’acqua fin quando, proprio mentre la scorgevo, quando ormai era troppo tardi per fingere di osservare altrove, di colpo si voltò verso me facendo centro nel mio sguardo:
– Io non sono una pescatrice, sai, Taz?
La guardai con espressione sospesa, come predisposto a una frase successiva che aspettavo, che sapevo sarebbe arrivata, che arrivò:
– Tu pensi che io sia una pescatrice, giusto?
Col tono fiero del congiuntivo azzeccato.
Con il mento indicai la canna da pesca come a difendere quella legittima insinuazione che lei aveva appena messo in discussione, e fu proprio in quel momento che d’improvviso, impetuose, le vibrazioni s’impossessarono violentemente della canna e lei pronta, abile e sicura, contraendo il bicipite e dando un colpo secco verso l’alto, incurvò di colpo la canna che assunse la forma di una U al contrario e schiacciò la frizione del mulinello che iniziando a girare, produsse un leggero suono metallico svolgendo la lenza dalla bobina. La punta della canna ammattiva a destra e sinistra sempre più smaniosamente fin quando il pesce, di cui ancora non se ne conosceva la consistenza, sfinito e agonizzante, si arrese, smise di gironzolare, e lei poté quindi riavvolgere con estrema calma la lenza attorno al mulinello per issare la preda a galla.
Rapito dall’esibizione, d’istinto chiusi il libro rendendomene conto solo più tardi.
Wilma si rivolse a me con sguardo compiaciuto, particolarmente fiera di aver tirato su un’orata di almeno trecento grammi proprio nell’istante in cui affermava di non essere una pescatrice:
– Non pescano solo i pescatori.
Accennai un risolino beffato, sentendomi sciocco per essere caduto in quel tranello, ingenuo e distratto più di quella enorme orata che Wilma aveva abilmente trafitto col suo amo proprio al centro della bocca e a cui strappò le labbra con un colpo secco e sanguinoso con le sue dita appiccicaticce di scaglia e alghe per poi infilzare altri vermicelli e ripetere daccapo l’intero procedimento.
– Mi passeresti il retino, cortesemente?
Estrassi minuziosamente il retino dall’acqua e ci scagliò con forza l’enorme pesce che, incredibilmente, tornò a sguazzare senza labbra, intrappolato nel suo nuovo mare recintato.
– Nuotare è la vita mia – affermò dal nulla Wilma con un velo di malinconia, dando però un senso al suo costume da nuotatrice – un giorno vincerò la medaglia.
– La medaglia?
– Sì, la medaglia.
– Che medaglia?
– Una qualunque. Fred, piuttosto, lui sì che è un vero pescatore. È grazie a lui che me la cavo così bene con la canna. Ma lui, sai… lui non è il solito pescatore che vive di pane e pesca. Verso sera si sveglia, mangia spesso il suo pescato che io cucino per lui e dopo cena scrive, legge, cerca, sottolinea, sfoglia e spreme il cervello… avanti fino all’alba. Poi esce in barca e quando torna col sole alto ha la faccia ogni giorno più nera.
Dovresti conoscerlo, Taz, ti piacerebbe.
Restammo nel caldo silenzio a fissare l’acqua perfettamente piatta che rifletteva case, barche e facce.
Nel giro di un’ora il suo retino si riempì di spigole, orate, cefali e anguille e contemporaneamente, quando col suo occhio di lince intravide un granchio dileguarsi tra i pali algosi del molo, riuscì a catturare anche quello, imprigionandolo furbamente nel secchio dove tentava di arrampicarsi instancabilmente creando un continuo picchiettio al quale ci abituammo già dopo qualche minuto.
Così imparai che quando si pesca dal pontile è consigliabile utilizzare la canna fissa con galleggiante mentre, quando si esce a largo, quando si pesca in mare come fa il suo Fred ogni mattino, è preferibile utilizzare la canna a mulinello poiché si riesce ad arrivare molto più in profondità: è quello l’unico modo per acchiappare i tonni migliori.
M’insegnò poi la differenza tra amo ed ancoretta, tra esca vera ed esca finta, tra alta marea e bassa marea, tra pesci di lago e pesci di mare che, nel nostro caso, come non accade in nessun altro posto al mondo, convivono nella stessa identica acqua. Ed io annuivo, apprendevo, stregato dalla semplicità e la naturalezza di quei gesti primordiali e muti che avvenivano attorno a me da sempre ma a cui non avevo mai fatto caso prima di incontrare lei.
Ma non fu questa la svolta.
D’un tratto le si affrettò lo sguardo, diede un’occhiata al suo orologio in gomma nera da sub e disse:
– Debbo andare, potrebbe tornare Fred da un momento all’altro, e se rincasa e non mi trova…potrebbe preoccuparsi.
– È stato un piacere, – la congedai colpito dalla sua improvvisa fretta.
Ignorò il mio saluto.
– Il retino, per favore – mi chiese nuovamente di estrarlo come se mi considerasse particolarmente competente nello svolgere quella mansione. Rispetto a prima pesava un bel po’, lo afferrai con due mani. Lo lasciai sgocciolare per qualche secondo sul legno rovente del pontile finché, nel consegnarglielo, percepii milioni di emozionanti e lievi vibrazioni, impossibili tentativi di sguazzi nell’aria concentrate in quel banco di pesci ammassati tra la vita e la morte. E rimasi di stucco quando