Blanky - Sour Candy
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Info su questo ebook
In seguito alla tragica morte della figlia piccola, Steve Brannigan fatica a rimettere insieme i pezzi. Separato dalla moglie, che si rifiuta di vivere nella casa dove è successo l’impensabile, e incapace di lavorare, cerca sollievo in una sequenza infinita di vecchie sit-com e nel bourbon.
Finché, una notte, sente un rumore dalla cameretta che era della figlia, una stanza ormai spoglia di qualsiasi cosa la identificasse come sua… a parte la copertina affettuosamente chiamata Blanky.
Blanky, vecchia e logora, con il suo obsoleto patchwork di coniglietti cuciti malamente, e i cui bottoni neri paiono tanti occhi che sembrano fissare chi li guarda…
Blanky, acquistata da uno strano signore anziano a un banchetto di antiquariato che vendeva “Abittini Bebè” scontati.
La presenza di Blanky nella cameretta della figlia morta non preannuncia altro che un incubo ineffabile, che minaccia di spegnere quel poco di luce ancora rimasta nel mondo infranto di Steve.
La figlioletta amava così tanto Blanky… Steve aveva seppellito la copertina insieme a lei.
Sour Candy
A un primo sguardo, Phil Pendleton e suo figlio Adam sono un padre e un figlio come tanti, non diversi dagli altri. Fanno passeggiate insieme al parco, visitano fiere, musei e zoo e mangiano davanti al lago. Si potrebbe dire che il padre è un po’ troppo accomodante, vista la mancanza di disciplina quando il bambino perde le staffe in pubblico. Si potrebbe dire che vizia suo figlio, concedendogli di mangiare caramelle quando gli pare e di andare a letto agli orari che preferisce. Si potrebbe anche dire che tanta indulgenza comincia a pesargli, visto il modo in cui la sua salute è peggiorata.
Quello che nessuno sa è che Phil è un prigioniero, e che fino a un incontro fortuito in un negozio, avvenuto poche settimane prima, non aveva mai visto il bambino in vita sua.
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Anteprima del libro
Blanky - Sour Candy - Kealan Patrick Burke
Blanky - Sour Candy
Kelan Patrick Burke
Traduzione di
Raffaella Arnaldi
Nua Edizioni
Indice
BLANKY
Citazione
Premessa
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
SOUR CANDY
Premessa
1. L’urlo
2. Collisione
3. Acquisizione
4. Possesso
5. Alterazione
6. Discussione
7. Pazienza
8. Fuga
9. Prigione
10. Sacrificio
11. Mora
12. Parto
L’autore
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.
Blanky – Sour Candy - Copyright © 2021 Nua Edizioni – un marchio Triskell Edizioni
Copyright © 2017 Blanky
– Copyright © 2015 Sour Candy
di Kealan Patrick Burke
Progetto grafico: Barbara Cinelli e Laura Di Berardino
Prodotto in Italia
Prima edizione – giugno 2021
Edizione Ebook: 978-88-31399-43-2
Edizione cartacea: 978-88-31399-40-1
Vellum flower icon Creato con Vellum
BLANKY
In memoria di Cooper Gordon
Riposa in pace, amico mio
«Chiunque può sopportare un dolore tranne chi ce l’ha.»
William Shakespeare, Molto rumore per nulla
Premessa
Non riuscite a immaginare come deve essere perdere un figlio, dite.
Lasciate che vi faciliti il compito.
È l’inizio della fine del vostro mondo.
Immaginate che la cosa per voi più importante venga cancellata dalla vostra vita. Per me si trattava di Robin, mia figlia. Era poco più che neonata, neanche abbastanza grande da essere considerata un essere umano fatto e finito. Non aveva ancora una reale personalità. Semplicemente mangiava, faceva la cacca e dormiva. A volte tubava, a volte farfugliava, a volte rideva. Aveva un tenue odore di latte e baby talco. La amavo. Era la cosa più speciale del mondo, anche quando dovevo essere al lavoro alle otto e lei mi svegliava alle sei per il biberon o il cambio del pannolino. Persino quando i lunghi cicli di urla a tarda notte rischiavano di rendermi furioso. Persino quando non sapevo come calmarla e la testa mi faceva così male da convincermi che mi sarei unito al suo pianto.
La amavo.
In una sera di pioggia l’ho messa a letto, e quando mi sono svegliato al mattino era morta.
È stato l’inizio della fine del mio mondo.
Quel che sto per raccontare è il resto.
1
Mi erano serviti solo quarant’anni per imparare come si riattacca un bottone a un cappotto, ed era servita la morte di mia figlia per capire che era una cosa necessaria. Senza quei bottoni le asole si sarebbero allargate, il tessuto sfrangiato, e il cappotto avrebbe finito per spaccarsi sul suo appendino come un vampiro esposto alla luce del sole. E una volta accaduto, che cosa avrebbe impedito che succedesse lo stesso a me? Mi sentivo spesso così i primi tempi, come fossi sospeso su un gancio nel buio, in attesa di andare in brandelli.
Perciò, tre mesi dopo la morte di Robin tutti i bottoni allentati o mancanti erano stati riportati alla solidità di quando erano nuovi. In alcuni casi non si muovevano di un centimetro, come se li avessi incollati. Inevitabilmente questo mi causava qualche difficoltà, ma sapevo che li avrei strappati giusto per avere la scusa di ricucirli. Era un rito, uno dei pochi che mi tenevano stabile, per quanto potesse apparire sciocco.
Il giorno che trovai la coperta ero solo, vagavo per la casa come un fantasma.
La solitudine mi aveva spinto a prendere il cellulare e iniziare la procedura, ancora poco familiare, di digitare il numero di mia moglie per qualcosa di diverso dal chiedere a che ora sarebbe tornata a casa. Ma non sarebbe tornata a casa, e a ogni giorno che passava lontana da me sentivo farsi più esili le possibilità di riconciliazione. Presto sarebbe diventata, come nostra figlia perduta, un ricordo confinato a una cornice o ai miei sogni febbrili. Entrambe sarebbero esistite solo per farmi male in virtù della loro intoccabilità.
La linea telefonica ronzò, e mi immaginai il segnale sparato nella distanza che ci separava, scagliato da un ripetitore all’altro, nelle falangi di alberi nodosi, sopra le mura di pietra intorno alla casa dei suoi genitori, attraversando poi l’acciaio, la plastica e il vetro del suo telefono, il cui display mostrava una foto di me in cui sorridevo come, sospettavo, non avrei mai più fatto: spensierato, amato, vivo. Sulla foto, invece della scritta MARITINO, ora probabilmente compariva solo STEPHEN.
Mi chiesi se fosse uno di quei giorni in cui si sentiva obbligata a rispondere, e provai sollievo quando il segnale di linea terminò e sentii la sua voce, che immediatamente mi provocò le farfalle nello stomaco.
«Ciao,» rispose Lexi.
«Ciao. Come stai?»
Esiste una domanda più assurda da fare a una persona in lutto? Come stai? Stai ancora a frignare perché la cosa più preziosa della tua vita è stata spazzata via? Ancora lotti contro i pensieri suicidi solo perché preferiresti essere morta che vivere senza la tua bambina?
«Be’, sai,» rispose, perché sì, sapevo. Quel che non sapevo era perché avessi chiamato, o cosa avessimo ancora da dirci, ma mi sembrava essenziale non lasciare infittire il silenzio, per paura di annegarci entrambi.
«Come stanno i tuoi?» chiesi.
«Abbastanza bene, tutto considerato. Ti salutano.»
Visto che il mio rapporto con i suoi non era mai stato ideale ne dubitavo fortemente, ma era gentile da parte sua dirlo. «Salutameli.»
«E tu come te la cavi?»
«Okay, suppongo. Mi manchi.»
Non rispose. Sapevo che non lo avrebbe fatto, ma ci avevo sperato.
«Ho qualche chance di convincerti a passare, giusto per… sai… parlare?»
«Non sono sicura di essere pronta, Stephen.»
Vi fermate mai a considerare quanto di rado la persona amata pronuncia il vostro nome nel quotidiano? Noi usavamo sempre qualche vezzeggiativo, come tesoro
o amore
, o persino i più originali dolce passerotta
o topolone
. L’unica circostanza in cui era diverso erano le discussioni, quando la stranezza di venire chiamati per nome non lasciava dubbi sul fatto di essere nei guai.
«Ci penserai almeno?»
Impiegò molto per rispondere. «Certo.»
«È solo che mi sento perso, in questa casa, senza di te.»
«Sono sorpresa che stai ancora lì,» rispose, con appena una traccia di amarezza e l’implicito sottinteso che sarei dovuto fuggire dalla scena del crimine come aveva fatto lei; ma a differenza sua, io non avevo altri posti dove andare.
«Questa è casa, Lexi. Casa nostra.»
«No invece. È la casa dove è morta nostra figlia, e non potrà essere mai altro.»
«Non dire così. Possiamo…»
«Guarda, non mi va di fare questa conversazione con te al momento.»
«Né mai.»
«Cosa?»
«Niente. Parla un po’ con me, va bene? Solo per un pochino.»
«Devo andare.»
«Amore…»
«Riguardati, Stephen, okay?»
Stephen. Avrei potuto benissimo essere uno dei suoi colleghi dell’ufficio che chiamava per verificare un rapporto di spese mensili.
«Lex.»
Ed eccomi seduto da solo sul divano, il telefono in mano e le lacrime agli occhi, le pareti gialle spogliate del loro colore dalla mancanza di luce, dato che le tende erano chiuse. L’unico rumore esistente era il battito che mi rimbombava nelle orecchie. Mi tremavano le mani, allora le unii e strinsi i denti per resistere al nero muro di dolore che montava dietro i miei occhi. Non poteva essere tutto. Non poteva essere la fine. Avevo bisogno di luce. Di speranza. Avevo bisogno di aiuto, ma non c’era nessuno da chiamare. Eravamo sempre stati io e Lexi, e per un po’ Robin, e adesso se n’erano andate e io ero solo.
Ma non c’era tempo per l’autocommiserazione.
Con la vista appannata, controllai l’ora sul telefono. La giornata non era finita e neanche io. Risoluto, per quanto scosso, mi alzai e andai al guardaroba, indossai il cappotto con i suoi bottoni confortevolmente sistemati e mi buttai fuori nel luminoso pomeriggio autunnale, con l’intento di scrollarmi di dosso camminando il tedio dell’isolamento, la paura della vita in cui mi ero trovato brutalmente catapultato. Dopotutto, se ero in grado di sistemare un vecchio cappotto di sicuro avrei potuto trovare un modo per ricucire me stesso.
* * *
Camminai lungo le strade scivolose di pioggia fingendo di avere uno scopo, il mio passo sicuro un espediente per illudermi di avere un posto dove andare. Quando stai affondando, preoccuparsi della direzione è inutile. Quindi perseverai, lo sguardo fisso sull’acciottolato che luccicava grigio sotto una vivida coltre di foglie morte. Le macchine transitavano sciaguattando nelle pozzanghere. Figure scure passavano di fretta, senza il peso dell’assenza di destinazione, tutte gomiti e impazienza. Io ero un fantasma nelle vetrine dei negozi, che sbiadiva a mano a mano che il giorno moriva. Pingui zucche sui gradini osservavano il mio passaggio con la gioia negli occhi vuoti. Il tempo avrebbe ristretto anche loro.
Alla fine mi resi conto che a ben vedere il mio percorso era stato prestabilito. Il cielo, una tavolozza in toni carbone di nubi vorticanti e strisce di luce smorta, gettava una coltre sui cumuli verdi sormontati da croci che mi si paravano davanti. L’entrata del cimitero, un alto arco di pietra con parole in latino che non capivo, era opportunamente gotica, così come la recinzione di ferro battuto messa per tenere fuori la gente su cui i siti funerari esercitavano un’attrattiva notturna strana e non sempre benevola.
Per lunghissimo tempo, abbastanza lungo perché la mia stessa ombra si distanziasse da me, fissai il cancello come fosse chissà quale portale mistico di un regno che non potevo comprendere, ma l’unica cosa che mi sconcertava era il fatto reale che, per quanto indirettamente, avevo piazzato qualcuno là dentro. Sepolte sotto due metri di terriccio c’erano le piccole ossa di mia figlia, una nuova vita spenta e celata sottoterra. La mia bambina. Robin. Arrivata e subito svanita per sempre.
Mentre le lacrime sgorgavano e le forze minacciavano di abbandonarmi le gambe, una vecchia signora, dalle ossa e dall’espressione spietatamente contorte dall’età e da una vita difficile, si avvicinò con cautela da dietro il cancello. Mi guardò strizzando gli occhi, il sinistro perso nelle pieghe della pelle, l’altro opaco e lacrimante per il freddo. Portava un foulard e un cappotto nei colori stagionali del giallo e del rosso. «Mi ha lasciata dieci anni fa,» disse con un sorriso lieve mentre si metteva al mio fianco. Le sue parole erano fumose come la brezza. «È andato a coricarsi con la Dea del Cordoglio, come facciamo tutti alla fine.» Alzò una mano, agitò le dita contorte in un saluto e continuò il cammino strascicando i piedi.
Dopo un tempo indefinito, sentendomi ancora alla mercé dell’arco di pietra e di quelle parole latine, decisi che quel giorno non me la sentivo di entrare al cimitero, non ero pronto a inginocchiarmi davanti alla tomba di mia figlia, con la sua lapide lucida, e ripetere scuse che la brezza mi avrebbe spazzato via dalle labbra. Già vivevo nella casa dove aveva preso vita il nostro peggiore incubo. Quel giorno non riuscivo a costringermi a rivisitare il posto dove quell’incubo l’aveva portata. Quindi mi diressi verso casa, facendo una strada diversa dalla precedente per avere l’impressione di aver concluso qualcosa, ma dietro ogni angolo, nascosta nelle ombre tra le case, e nelle finestre in cui il mio viso pallido fluttuava come una maschera di Halloween, l’unica cosa che vedevo era il viso urlante di mia moglie mentre reggeva tra le braccia nostra figlia esanime. E insieme giungeva il ricordo, quel ricordo prezioso e maledetto su cui tornavo così spesso, di quell’unico beato momento in cui ero stato ignaro che Robin fosse morta. L’ignoranza pre-attimo in cui avrei potuto vivere per sempre, se avesse significato non dover mai conoscere la verità. Ma poi la cruda realtà mi aveva travolto di fronte all’espressione sul viso di Lexi, al suo urlo orripilante, angosciato, un suono che non avevo mai sentito uscirle dalla bocca. Avevo visto la manina di Robin, mi ero reso conto che era del colore sbagliato e ogni cosa aveva perso luminosità.
* * *
Al mio ritorno mi attendeva la posta: solleciti di pagamento, perlopiù, e il mio stipendio, che non aveva alcuna speranza di coprirli. La morte è costosa e, come il lutto, è improbabile allontanarla senza averla affrontata in modo diretto e ampio. Per quel giorno non ci avrei pensato. Gettai le buste sul tavolino dell’ingresso, appesi il cappotto e poi mi versai una generosa dose di whisky. Canticchiando un motivetto che non sarei riuscito a identificare neanche con una pistola alla tempia, mi piazzai sul divano davanti alla TV. Ero giunto a considerare certe vecchie sitcom come Cin Cin, WKRP in Cincinnati e M*A*S*H una specie di terapia, che mi isolava dall’isolamento, diciamo. Rimasi seduto in una stanza vuota a parte me, il divano e il tappeto che io e Lexi avevamo comprato in una riserva indiana nel Nuovo Messico. (Solo una volta tornati a casa avevamo visto l’etichetta Made in China.)
Ero a quota tre whisky e ridacchiavo in automatico ai tentativi di un McLean Stevenson ubriaco di sedurre un’infermiera, quando sentii un rumore da sopra. Mi distrasse solo vagamente, non degno di particolare interesse. La stagione stava cambiando e la casa era vecchia, sintonizzata con le alterazioni delle temperature come ossa artritiche. Ci ero cresciuto e conoscevo bene i suoi ritmi, quindi tornai al mondo sicuro dentro alla TV, mi lasciai reclutare dal personale e dai soldati del 4077° e risi delle loro bravate. Non aveva molto senso che