La porta di ferro. Writing life.
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Anteprima del libro
La porta di ferro. Writing life. - Bernardino Proietti Vantaggi
info@youcanprint.it
In principio (quasi) il niente
Non c’erano i computer, neanche nei pensieri più immaginosi. Nel paese invece c’erano già le chat, le newsletter ed a volte, malignamente, anche incontri Tinder.
A gruppi di 10-15, in strada, in ogni strada, soprattutto di sera, gli adulti sedevano per parlare di temi che, con inimmaginabile improvvisazione, sorgevano spontanei sfociando spesso in discussioni e in divagazioni infinite, in allusioni sessuali più o meno velate. Poi quando l’aria si faceva più frizzante e qualche folata muoveva i lembi dei vestiti ancora leggeri dell’estate, il racconto di qualche arcano legato al paese o alle campagne e giurato come verace, faceva rabbrividire i presenti; lupi mannari, apparizioni e sparizioni, strane morti e fantasmi conseguenti, accompagnavano le serate. Le donne intanto seguivano occupate con i rammendi, le maglie ai ferri e magari al culmine della narrazione sbagliavano un punto per un soprassalto e riprendevano nervosamente il lavoro…
Noi bambini eravamo le e-mail Dinuccio fai una corsa da Maria de Ferdinando e digli che domattina passo alle 7. Che m’aspettasse
In quelle newsletter ognuno aveva il suo nickname.
Gigino de Sivirietto, Beccoroscio, Brigante, El secco, Mosciarella e tutti si riconoscevano in quel nomignolo, in quell’etichetta che li avrebbe accompagnati per tutta la vita quasi facendo dimenticare il loro vero nome. Successivamente, come tacito lascito, come eredità genetica, avrebbe accompagnato nel tempo anche figli e nipoti.
Per noi e-mail le strade per raggiungere l’obbiettivo erano tante, dai vicoli, alla breve tangenziale intorno al paese, ma prevaleva sempre la più lunga, perché quel portare notizie a destra ed a manca, si trasformava in mille giochi inventati al momento, nel ripetere le parti più paurose dei racconti, nell’intravvedere nell’ombra personaggi misteriosi che ci inseguivano e ci costringevano a corse affannose.
Le signore si affacciavano alle finestre chiamando a viva voce le amiche, le whatsappine, e così si aprivano varie persiane ed iniziavano lunghe conversazioni improvvisate, che invariabilmente iniziavano con Oh, ha visto coso…
I decoder non esistevano, le parabole erano quelle della domenica in chiesa. I televisori sporadici e con il sapore del miracolo: ancora ci si avvicinava allo schermo per vedere se dall’alto si riusciva a vedere più sotto o più di lato o qualche uomo più malizioso, per vedere dal basso sotto qualche gonna che appariva ballando.
A Cannara conoscevamo solo due televisori. Uno al bar Paoli, il locale più importante, serioso, tutto in legno. La tv si trovava in una stanzetta in fondo, posta in alto, in una specie di altarino circondato da una decina di sedie. L’altro era al circolo dei signori, così era stato in passato, gli era rimasto solo il nome, ora era divenuto un normale circolo popolare. Vi si accedeva passando sotto un arco in penombra e salendo una scala di pietra che a noi, nell’ansia della risposta sembrava senza fine. Andavamo incoraggiandoci l’un l’altro con leggere spinte ed esitanti chiedevamo se ci facevano vedere la tv dei ragazzi, programma con cui iniziava lo scarso palinsesto televisivo, alle 17,30.
Tutto dipendeva dall’umore dell’adulto ed allora le puntate saltate erano più di quelle viste, ma ci eravamo abituati a quei frequenti no e già non ci importava, Giovanna, la nonna del corsaro nero, uscendo dalla sala buia del televisore, ci accompagnava, le sue avventure divenivano nostre e le puntate mancanti avevano un seguito nelle strade del paese.
Per sapere se c’era un amico si andava fino alla casa ed il suonare il campanello o, più spesso il colpire con le nocche la porta mentre si gridava il nome cercato, era il nostro telefonino.
L’alimentare di Remo era un locale stretto e lunghissimo. La nonna mi mandava a comprare 50 grammi di concentrato di pomodoro che l’uomo, grande, alto con occhialini che ai miei occhi lo facevano sembrare un medico più che un droghiere, estraeva da quel grande barattolo di latta; intanto delle barre di cioccolata al taglio, quasi sempre irraggiungibile, mi osservavano.
Raramente, con il resto, anche perché il denaro era sempre preciso, riuscivo ad avere una caramella da una lira di uno dei barattoli di vetro. Generalmente Dice la nonna se lo può segnare!
era la frase che accompagnava l’acquisto.
Gli odori che emanavano quei barattoli di latta aperti, al mio piccolo e sensibile naso sembravano ancora più intensi e sono rimasti per sempre nell’olfatto della memoria.
Il nonno pur senza un pollice, che aveva perso lavorando nell’unica fabbrica del paese, ora impagliava abilissimo le sedie con il giunco che andava a raccogliere nei fossati, nei piccoli canali di campagna caricando il piccolo motorino all’inverosimile ed intrecciandolo successivamente in cordoncini dopo averlo fatto seccare a lungo, lui era un Amazon Prime, ma anche il lattaio lo era.
Ogni sera Domenico, un ometto minuto, arrivava caricato del grande contenitore sul retro della bicicletta con il latte ancora caldo di mungitura, puntualissimo, porta per porta dove era accolto con un pentolino di varie misure a seconda dell’estensione della famiglia.
La grande lavatrice comune era la rapida corrente del fiume che in quel luogo lambiva le pietre allisciate per l’uso poste in fila sul basso argine a cui si accedeva da una lunga, consumata scala di pietra. Le donne inginocchiate una accanto all’altra, sbattevano con violenza i panni nell’acqua per sciacquarli per poi strizzarli con quanta forza avevano, ognuna sul proprio sito, comunicando intanto i post del paese alle loro amiche, il gossip, che si sarebbe così divulgato rapidamente, oppure quando qualcuna iniziava le strofe di una qualche canzonetta, non di rado maliziosa, tutte ne seguivano la play list.
La play station era forse più semplice ma non meno ricca di fantasia e giochi, tra l’altro comprendeva già Fifa 1965 con i pomeriggi passati a giocarci le figurine Panini ed a discutere sulla bravura di qualche giocatore o sulle figurine introvabili. Naturalmente questo aumentava a dismisura la voglia di una partita di calcio ed in questo eravamo più ricchi di oggi, avevamo 10 stadi, non solo uno, ogni piazza diveniva uno stadio senza le tante auto e le proibizioni alquanto morbide del vigile Pietro.
Ma al nostro gruppetto non erano bastati tutti quei campi da gioco. Nel corso delle nostre passeggiate serali, notando un campo abbandonato vicino alla ripa rialzata del fiume che, evidentemente ci ricordava una tribuna, decidemmo di appropriarcene per trasformarlo nel nostro stadio ufficiale. Così lavorando per quasi tutto il periodo delle vacanze, a forza di falci e coltelli, a forza di tagli e graffi su tutto il corpo, riuscimmo a portare a termine il progetto con tanto di marcatura, alquanto approssimata, ma tracciata su quasi tutto il contorno.
Quel primo torneo organizzato aveva il sapore dell’allora coppa dei campioni.
All’avvicinarsi del natale, le vecchiette, di nascosto, al passaggio di qualche bambino gettavano in aria alcune caramelle, gridando che erano le caramelle lanciate da San Nicolò, dalla Madonna o da Gesù Bambino a seconda del periodo e noi bambini, anche grandicelli, ci tuffavano per prendere quelle delizie sacre che cadevano e mangiandole ci sembravano buonissime, di un altro mondo, anche se erano di menta, le meno apprezzate ed intanto guardavamo verso il cielo nella speranza di vedere qualche movimento misterioso.
Non c’era niente da dimostrare, non ci si voleva mostrare, apparire, solamente lo scemo
del paese lo faceva. Non si ostentava niente, niente c’era da ostentare, neanche un bacio di una coppietta, al massimo e raramente qualche giovane mano nella mano. Facebook, in questo caso era realmente lontano.
Tempi d’oro, migliori? Non so, non credo. Solo tempi passati, non secoli fa, ma l’altro ieri.
Tempi che hanno iniziato a correre verso questa che sembra una vita parallela, un mondo parallelo, forse un'altra dimensione, mai entrata in contatto con quella dell’altro ieri.
Ma in fondo, per me queste sono le uniche cose rimaste, le cose più vecchie che ricordo della mia vita.
Prima c’è solo il vuoto.
In principio c’è il niente.
La mia mente ha cancellato tutto da quel novembre di tiepido autunno.
Punto d’impatto
Dopo un decennio di emigrazione, da un paio d’anni eravamo tornati al paese e da non molto vivevamo nella casa costruita grazie a tanta fatica, anni di miniera e lavoro improbo, vita di immenso sacrificio dei miei in paesi stranieri che quasi sempre ci hanno fatto sentire tali. Ma ora eravamo tornati, ed avevamo una casa. Si trovava proprio sulla strada che portava alla stazione del paese, il treno passava a cinque chilometri di distanza ma quasi sempre nel silenzio della notte si ascoltava chiaramente il suono di quel fischio profondo che aiutava a sognare. La strada era un lungo rettilineo poco illuminato; 600 metri ci separavano dal ponte sul fiume che immetteva al nucleo pieno di vita del paese; ma quei seicento metri erano una grande distanza per le mie gambe ancora corte e per le mie paure grandi, soprattutto quando tornavo di notte dopo il tramonto, ogni volta era una sfida. C’erano pochissime case con flebili luci in quel tragitto ed ogni rumore proveniente da quei campi bui e spogli erano degni del peggiore dei film horror che allora esistevano solo nei racconti ascoltati e lo spavento mi accompagnava fin quando non chiudevo la porta di casa alle mie spalle.
Il timore di quel pezzo di strada era stato presagio.
Avevo 10 anni; quella sera, dopo tanto insistere e pregare, avevo ottenuto il permesso per andare al circo, del resto non si percepivano pericoli, solo le mie vuote paure che naturalmente non raccontavo ai miei amici; i bambini si muovevano protetti da tutto il paese, dalla rete e per qualunque problema o pasticcio combinato l’sms arrivava rapidamente ai genitori e la localizzazione avveniva con le varie voci che ubicavano il bambino cercato in un’elaborazione perfetta di google map e google street.
Anche quella sera, come sempre in quei rari eventi, c’era mezzo borgo a vedere lo spettacolo, in quel caso ancor di più perché l’avvenimento era grande, il circo non era il solito spettacolo all’aperto che arrivava senza grandi pretese se non quelle di ricavare il da vivere quotidiano per i suoi artisti, questo era dotato di tendone e pista centrale con i posti a sedere tutt’intorno. Era la prima volta, gli altri spettacoli li avevamo visti seduti sulla ripa alta del fiume e noi bambini aspettavamo che l’artista iniziasse a girare con il cappello per raccogliere le offerte per scappare non avendo assolutamente niente da offrire. Quella volta avevamo dovuto pagare un biglietto per entrare.
Mentre attendevamo emozionati l’inizio dello spettacolo guardando verso il tetto del tendone quei trapezi ciondolanti e quel grande cerchio centrale, indicando i vari personaggi che si intravvedevano dietro le quinte e descrivendo tra di noi i vari numeri come se lo spettacolo fosse già avvenuto ed avessimo già visto tutto, un altoparlante, dopo un fischio acuto che ci fece gridare per l’emozione dello spettacolo imminente, richiese l’attenzione e una volta ottenuto il silenzio, inaspettatamente, pronunciò il mio nome.
Tutti gli amici tacquero istantaneamente, quasi senza respiro come se