The dark side of Cesare Cremonini
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Anteprima del libro
The dark side of Cesare Cremonini - Michele Monina
MICHELE MONINA
The dark side of Cesare Cremonini
Anche quando poi saremo stanchi, e siamo sempre stanchi, cara Marina, e cari Lucia, Tommaso, Francesco e Chiara,
troveremo il modo di navigare nel buio. Lo abbiamo trovato sempre.
Prefazione
Abbiamo fatto giusto in tempo a capire che la storia da raccontare era tutto, che come raccontare era fondamentale per il buon esito di qualsiasi azione, o per dirla meglio, di qualsiasi impresa, non necessariamente intendendo con questo termine qualcosa di eroico o avventuroso, magari solo qualcosa che ha che fare con gli imprenditori. Abbiamo, cioè, appena imparato a ritenere familiare una faccenda come lo storytelling – avete appunto presente la faccenda del come raccontare le storie, story-telling, un modo cool, che poi sarebbe figo, per dire narrazione – che ecco che lo storytelling è passato di moda.
Intendiamoci, il raccontare storie non tramonterà mai, dalla Bibbia a Omero, passando per Don Chisciotte, è evidente a tutti che chi sa raccontare storie ha ottime possibilità di rimanere nel tempo, di venir ricordato, ma oggi, proprio in questo momento, non è tanto raccontare le storie lo sport da praticare, il padel filosofico, quanto piuttosto il costruire una marca. Sì, mettete pure da parte, in stand-by, per proseguire sulla china dell’anglismo, lo storytelling: lo zeitgeist è tutto per la brand identity.
Uno
L’uomo che visse due volte.
Foste in una sala cinematografica, stareste per assistere a un film con questo titolo, L’uomo che visse due volte. I singoli ingredienti della ricetta ben riconoscibili sul piatto, come dovrebbe capitare in ogni piatto ben cucinato. Quindi una buona dose di mistero, perché è a Vertigo di Hitchcock che il titolo farebbe riferimento, quel tipo di mistero capace di tenerci incollati allo schermo, il fiato sospeso, la tentazione continua di guardarci alle spalle. Un po’ di riferimenti a un passato passato, di quelli che hanno già vissuto tutta una serie di revival, e che da tempo viene annoverato nel calderone del classico
. Quel fascino, che non passa mai di moda, di facce come quelle di James Stewart e Kim Novak, rassicuranti, certo, senza tempo, ma in qualche modo inarrivabili, quel giusto mix di divismo e eleganza che noi contemporanei degli influencer e di TikTok faticheremmo anche solo a ipotizzare. Luci, certo, ma anche ombre, le scritte scintillanti sulla collina di Hollywood e i tetti ostici di una San Francisco assai distante dalla prossima epopea del Flower Power.
L’uomo che visse due volte, quindi.
Perché queste pagine, questo film, stavamo dicendo, racconta, o meglio, racconterà, la storia di un uomo che in effetti due volte ha vissuto, e chissà quante altre ancora.
Dire che un libro, usciamo di metafora, racconti qualcosa è un falso storico. Come di chi crede alle verità autobiografica delle canzoni. Non è il libro che vi racconterà dell’uomo che visse due volte, ma sarà proprio lui, l’uomo che visse due volte, a farlo, e a farlo attraverso la mia voce, che delle sue due vite sarò interprete nella stessa maniera in cui Mina ha cantato le canzoni di Lucio Battisti.
Un album di cover, questo sarebbero le pagine che state affrontando se spostassimo l’orizzonte ottico nel mondo della discografia, e nel caso specifico, va detto, finiremmo in un territorio assai più spaventoso di quanto il maestro Hitchcock non sia mai riuscito a mettere su pellicola, fantasmi, zombie, morti più o meno farfuglianti attraverso versi gutturali e deambulanti in maniera alquanto traballante, le braccia alzate, come ben coreografato da Michael Jackson in Thriller. Un album di cover con l’autore delle canzoni coverizzate – so che mi sto inerpicando per un sentiero tortuoso, il burrone su di un lato, il rischio di scivolare giù che si fa a ogni passo sempre più certezza – presente in studio con me, lì a fare i cori, tanti cori, troppi cori, a suonare, a dare indicazioni, dietro il banco del mixer, in sala regia, ovunque.
Esco da questo pertugio nel quale mi sono andato a infilare di mia spontanea volontà, manco fosse una panic room mentre i ladri mi sono entrati in casa; solo che per qualche istante ho voluto prendere una scorciatoia, quella che pensavo mi avrebbe portato dritto dritto a spiegarvi come Monina canterà Cremonini, ovviamente sbagliando mira. Le scorciatoie, in questo libro, sono bandite, sia messo agli atti.
Torniamo a L’uomo che visse due volte, ancora una volta. Su assi più solide, che non ci faranno correre il rischio di cadere a breve nel vuoto, sprofondati in cantina.
Perché L’uomo che visse due volte?
Be’, ve lo spiegassi tutto qui e ora, converrete con me, ci troveremmo a breve a dover scrivere la parola fine sulla pagina schermo, lasciando spazio ai titoli di coda. Ma non essendo in realtà un thriller, un giallo o come diavolo volete chiamare quelle storie nelle quali si tende a svelare solo all’ultimo il colpevole di un qualche crimine – crimini da queste parti non ce ne saranno – posso tranquillamente dichiarare sin da subito che l’essere stato il leader della più importante popband italiana, quei Lùnapop che, a cavallo tra i due millenni, assesteranno quello che a oggi è l’ultimo grande colpo della discografia italiana, con un milione e seicentomila copie vendute di Squérez, in barba ai tanti colleghi sulla carta più forti usciti nello stesso periodo, aver mandato tutto a puttane, con la leggerezza dei diciotto, diciannove anni, tanti ne aveva all’epoca nella quale i Lùnapop esordirono e anche all’epoca nella quale implosero, avventura di pochi mesi, e essere riuscito, a fatica, negli anni, a ricostruirsi un pubblico, un successo, stavolta anche con una credibilità unanimemente riconosciutagli, leggi alla voce plauso della critica
, è senza ombra di dubbio la transustanziazione di quell’essere un uomo vissuto due volte.
E stavolta, i quarant’anni compiuti giusto qualche tempo fa, mentre tutti eravamo chiusi nelle nostre case in lockdown, ostaggi della pandemia da Covid-19 – qualche tempo fa
mentre queste parole prendono vita dentro lo schermo di un pc, non necessariamente qualche tempo fa
mentre voi le state leggendo, ché i libri, come le canzoni, hanno il pregio di poter rimanere nel tempo, e magari voi state leggendo queste stesse parole in un altro tempo, e l’utilizzo della seconda persona plurale la si legga come un impeto di ottimismo, sia chiaro, tra qualche anno, quando la pandemia sarà solo un lontano ricordo, lontanissimo, ci si augura – e stavolta, dicevamo, quindi, i quarant’anni compiuti da poco, usare la parola uomo ha sicuramente più senso che applicarla asetticamente al Cesare Cremonini adolescente, quello coi capelli colorati, la faccia da schiaffi, sempre in fregola, che con Qualcosa di grande andava a prendersi il Festivalbar, esattamente ventidue anni fa, ventidue anni fa mentre le parole prendono eccetera eccetera… facciamo che da ora in poi non devo star sempre qui a specificare quel che vado facendo, entrando e uscendo dalla scrittura, esercizio anche interessante, ma che in un libro nel quale mi ritrovo a dar voce a chi per altro con la voce ci campa, e con la scrittura, direi che possiamo anche limitare al minimo indispensabile certi giochetti metatestuali.
Ricordo perfettamente che il giorno della finale, all’Arena di Verona – c’era già Andrea Salvetti come direttore artistico, non ho mai conosciuto suo padre Vittorio, una leggenda, e presentavano Alessia Marcuzzi con Fiorello, che già erano Alessia Marcuzzi e Firoello – ho toccato il culo a Mietta. Era una cosa che facevamo sempre, toccare il culo alle ragazze che avevamo intorno, non so neanche se adesso si può raccontare così, pensando di rimanere impuniti, tanto ormai la mia prima shitstorm sui social me la sono fatta, per la faccenda della battuta sul fatto che chiamo la mia donna delle pulizie Emilia per il solo fatto di amare la mia terra, l’Emilia, appunto, complice il fatto che io la paghi, una battuta che mi ha scatenato addosso le ire di chiunque, una roba incredibile che mai avrei creduto, perché mia piace giocare con certi paradossi. Comunque coi Lùnapop era così, ci volevamo divertire, eravamo cinque ragazzi di successo, io ero anche il cantante, culi da toccare ce n’erano, e alla finale di Festivalbar c’era Mietta che era, lo è ancora, una donna incredibilmente bella. Mi sono trovato davanti quel culo e non sono riuscito a trattenermi, ho allungato la mano e l’ho toccato. Lei ci ha riso su, eravamo ragazzini, lei è più grande di noi, ha capito il senso di quel gesto, credo. Toccherebbe chiederglielo.
Mi fermo.
Avete in mente questa scena?
Mietta, non più la Mietta ragazzina coi capelli cotonati, bellissima, che cantava vestita in maniera classica Vattene amore in compagnia di un Amedeo Minghi improvvisamente assurto al ruolo di maestro
, il cappotto appoggiato sulle spalle, una coda bassa a tenere insieme i capelli sale e pepe, ma una Mietta un po’ più grande, sempre bellissima, sensuale, lei, Mietta, sorta di Malena, parlo del personaggio del film di Tornatore, non della pornostar pugliese ancora lì da venire, Malena di Tornatore, prima che Malena di Tornatore esistesse, roba di settimane, perché il film di Tornatore con Monica Bellucci arriverà in sala a ottobre di quello stesso anno. Mietta, mora, formosa, bella, bellissima. Mietta che, siamo a settembre del 2000, da qualche tempo ha intrapreso una sua strada che porta in territorio completamente diverso rispetto quello minghiano, e proprio in quel 2000, sempre quell’anno lì, ha presentato a Sanremo un brano che si intitola Fare l’amore. Pensateci, Vattene amore, zac, Fare l’amore: una mano sul culo, secondo le sensibilità di allora, non fa scandalo.
Cambio di scena. Non ve ne accorgete, ma come in certe serie di Netflix, che so?, Tredici, ora ci sono le due bande nere a incorniciare lo schermo, a rendere l’inquadratura più stretta, rettangolare, distante dall’idea di teleschermo. Piccoli escamotage che tendono, i dettagli servono appunto a questo, a far passare la scena come qualcosa di più alto, cinematografico, destinato a rimanere nel tempo. Lo so, lo so, considerare la televisione una parente insipida del cinema è un errore grossolano, come di chi vuole contrapporre il pop alla classica, ma questa non è una tesi in cinematografia, e soprattutto non è veramente un film. Seguite senza fare troppe domande, affidatevi allo sguardo del regista.
Ci sono le bande scure sopra e sotto l’inquadratura, siamo al cinema.
Dovete correre con la mente in avanti, di parecchio.
Siete a bordo della vostra Delorean rossa e con l’aiuto di Doc avete inserito l’anno 2018 nel display, guardandovi bene dallo scrivere 2020, perché solo l’idea di ripetere come in un loop quei mesi, immagino, vi agghiaccia come agghiaccerebbe chiunque. Di colpo quel ragazzino lì, quello coi capelli colorati, la faccia da schiaffi, la mano sul culo di Mietta, è sopra un megapalco dello stadio Dall’Ara di Bologna.
Fermi tutti. Non alzate il ditino. Sono d’accordo con voi, sono io ad alzare subito le mani in una resa incondizionata. Ma ho una spiegazione, anche per questo. Avrei potuto citare San Siro, lo so, è considerato a ragione un punto di arrivo per chiunque faccia musica, una sorta di traguardo per molti non solo inarrivabile, ma proprio impensabile, come di chi avesse mire irraggiungibili. Ma Cesare è di Bologna, lo ha dichiarato al mondo intero già dalla sua prima hit, quella nella quale cantava la bellezza di andare in vespa per i colli bolognesi, il Dall’Ara è più adatto allo scopo che queste righe si prefiggono, o che noi prefiggiamo a queste righe.
Siamo al Dall’Ara, perciò. Su quel palco c’è lui, Cesare, quello che poche righe sopra parlava in prima persona di quando ha messo una mano sul culo a Mietta, il che potrebbe indurvi a pensare, vista l’assenza di virgolette, e visto che ora di lui si parla in terza persona, che i due autori di questo libro, Cesare e Michele, si scambino la palla, intendendo con palla la voce narrante, come Qui Quo Qua, scrivendo una frase a testa, con la differenza che nello specifico sarebbero Qui e Quo, o Qui e Qua, o Qua e Quo, insomma, ci siamo capiti, fatto che, poi giuro, o meglio giuriamo, che la smetto/iamo, non corrisponde ovviamente al vero, perché quando si scrive un libro a quattro mani non si scrive una frase a testa, almeno non è questo il caso, e non credo sia importante sapere chi ha detto cosa, nello specifico, l’importante è un po’ il risultato finale, quello che leggete, le immagini, per tornare alla metafora del film, che vi si stagliano davanti, scena dopo scena.
Eravamo su un palco dentro lo stadio Dall’Ara di Bologna. Noi sotto il palco, visto che si continua a usare la terza persona per parlare di Cesare, lui, Cesare, sul palco. È casa sua, è il suo primo concerto in quello stadio, quello della squadra per la quale tifa, quello della sua città.
Ci sono i miei genitori a vedermi, oggi.
Gente perbene, i miei genitori, mio padre un medico di famiglia con tre specializzazioni, appartenente alla borghesia bolognese, ma che mi ha sempre insegnato che non si deve mai dar sfoggio del proprio status sociale, che non si deve mai andare a far visita ai pazienti con un’auto che i pazienti non potrebbero permettersi. Mia madre un’insegnante, nata dalle parti di San Lazzaro di Savena, dove mio padre si è trasferito per lavorare, ovviamente spinto dall’amore per mia madre, e dove ho vissuto i primi anni della mia vita, oltre che buona parte delle mie estati da bambino. Una vita di campagna, quindi, di provincia nella provincia. Bologna lì, a pochi passi, ma nella quale siamo andati a vivere quando è arrivato per me e mio fratello Vittorio, due anni più di me, il tempo di andare a scuola.
Questo fatto qui, l’essere figlio di un medico di base e di una insegnante, credo, abbia influenzato non poco la mia scrittura. Non solo perché sin da piccolo ho frequentato insegnanti di musica – i miei volevano andassi al conservatorio, questo dall’attimo dopo che, dalle suore, ho esternato il desiderio di imparare a suonare il pianoforte – quanto perché quel tipo di provenienza lì, borghese, quel tipo di educazione lì,