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Nostalgia dell’inferno
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E-book207 pagine3 ore

Nostalgia dell’inferno

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Info su questo ebook

Il tempo è una sorta di artigiano che con le sue grandi mani plasma i ricordi. Ci sono luoghi, profumi e atmosfere che ci richiamano alla mente pensieri, emozioni e paure che per tanto tempo avevamo sedimentato dentro di noi e basta un attimo, una circostanza o una fotografia a riportarci alla memoria il nostro passato. In queste pagine il narratore è come se fosse il tempo, perché in occasione di un funerale il protagonista ritorna con la mente e il cuore alla sua infanzia, agli amici degli anni Ottanta, al primo appuntamento con Cristina, alle vie del quartiere di Valmelaina dove tra i vicoli si intrecciavano e volavano via pensieri e riflessioni, in una sorta di coreografia in cui nel cielo sventolavano gli abiti appesi ad asciugare e il silenzio vigilava sui tetti delle case. E così una fotografia può contenere non solo la storia di quattro amici ritratti nella loro indimenticabile vacanza a Madrid, le loro disavventure, le paure, le ferite e le storie personali legate anche a quelle del nostro Paese, ma può ritrarre la Vita stessa che non è un viaggio in sentieri pianeggianti su pianure sconfinate, ma spesso è un percorso in salita anche se in quello che sembrava essere l’inferno oggi si può sentire il profumo dei giorni felici.

Pietro Fusco è nato nel 1974 a Roma. Fino al 1979, anno in cui è rientrato nella sua città natale, ha vissuto in Piemonte, dove il padre era emigrato per lavoro. Nel 1981, si è trasferito a Valmelaina, quartiere della periferia nord-est della capitale, dove ha conosciuto la ragazza che è diventata sua moglie e con la quale ha avuto due splendidi figli. Dopo il diploma di perito industriale ha iniziato subito a lavorare continuando anche i suoi studi da autodidatta approfondendo la storia di Roma dagli anni Settanta ad oggi. Nel 2009 ha fondato e presieduto, insieme alla moglie, un Comitato di Quartiere e un’Associazione Culturale con cui, insieme a un gruppo di persone, ha intrapreso numerose battaglie e iniziative per la valorizzazione del territorio e per la tutela delle persone diversamente abili, realizzando anche una web radio. Nelle scuole di Roma incontra i ragazzi e le ragazze, condividendo con loro i suoi studi e la passione della conoscenza per il territorio.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2023
ISBN9788830690691
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    Anteprima del libro

    Nostalgia dell’inferno - Pietro Fusco

    Nuove Voci – Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima.

    (Trad. Ginevra Bompiani)

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    A mio padre.

    Questo è l’ultimo abbraccio che non ho potuto darti, spero che ti raggiunga, ovunque tu sia.

    A mia moglie e ai miei figli, per il continuo incoraggiamento, e senza i quali nulla avrebbe senso.

    Prologo

    Al mio arrivo, il piazzale della chiesa del S.S. Redentore è già piena di gente; è un tiepido pomeriggio di fine gennaio, il sole illumina e riscalda le strade e i palazzi di quello che sento ancora come il mio quartiere.

    Tante cose sono cambiate da quando sono andato via quasi venti anni fa, ma tante altre sono rimaste uguali, una di queste è la chiesa del S.S. Redentore che, avvolta da un’aurea divina che sembra preservarla dall’erosione del tempo, dalla base di quella che una volta era la collina di via Scarpanto sembra vegliare sul quartiere con sguardo severo, ma rassicurante.

    Proprio la collina di via Scarpanto, uno dei luoghi più importanti della mia infanzia, non esiste più. Al suo posto la stazione della metropolitana che, in nome del progresso, come una specie di mostro mitologico, ha invaso il quartiere ed ora si presenta come una struttura nuova e moderna circondata dal degrado di un quartiere che ha ormai cento anni.

    I palazzi tra i quali ho trascorso la mia giovinezza, infatti, sembrano più vecchi e stanchi, proprio come le persone che ho riconosciuto appena sono sceso dalla macchina, ma per noi quei fabbricati hanno sempre avuto un’anima, tanto che i nostri nonni gli avevano dato persino un nome: c’è il Cicca Bu, di cui nessuno mi ha mai spiegato il motivo di questo buffo soprannome, che sarebbe quell’ agglomerato di case e cortili che costeggia la chiesa dal lato sinistro. Poi ci sono i Palazzoni, oppure Stalingrado, che sarebbe quell’enorme comprensorio posto di fronte alla ex collina di via Scarpanto e che ha avuto queste denominazioni, un po’ per la sua imponenza, ma soprattutto per la sua storia, dato che il Duce lo fece costruire per tenere sotto controllo i suoi oppositori e per questo diventò una fucina di antifascisti tale da guadagnarsi il soprannome di Stalingrado. E poi ci sono le Case Nuove che tutto erano, tranne nuove, ma erano chiamate così semplicemente perché erano state costruite dopo Stalingrado, che, proprio per questo motivo, si guadagnò l’ulteriore appellativo di Case Vecchie.

    Ed è proprio all’interno delle Case Nuove che mio padre è morto improvvisamente.

    Quando scendo dalla macchina tutte le persone, che fino a quel momento erano intente a parlare tra di loro, si voltano verso di me e vengono a salutarmi, ma nella mia testa mille pensieri si affollano e i saluti della gente, seppur sinceri, sembrano scivolarmi addosso non procurandomi nessuna emozione.

    Anche la cerimonia scorre veloce, il sacerdote parla, elogia le qualità di una persona che non ha mai conosciuto seguendo, probabilmente, i suggerimenti di qualche abitante del quartiere, ma io ho lo sguardo fisso sulla foto di mio padre e non ascolto niente di ciò che dice, dato che le sue parole entrano nella mia testa come filtrate da un tampone che non mi permette di ascoltarle chiaramente.

    All’uscita della bara le persone sciamano via e l’assottigliarsi della folla fa emergere la figura di tre individui che fino a quel momento si sono tenuti in disparte. Mentre vengono verso di me, sento il cuore sobbalzare e per un attimo scompare quell’alone di indifferenza verso ciò che mi circonda, e, forse per la prima volta dall’inizio del funerale, un pensiero lucido spazza via tutto ciò che fino a quel momento aveva intasato la mia testa: «L’ultimo miracolo di mio padre è stato quello di riunire quelli che una volta tutta Valmelaina chiamava I Fratelli».

    Capitolo 1

    Con il trascorrere degli anni i ricordi della mia infanzia si sono un po’ offuscati, ma c’è un episodio, che ricordo perfettamente, e che ha segnato l’inizio della mia storia con Alberto, Paolo e Cristina.

    Avevamo tutti la stessa età ed eravamo cresciuti insieme tra i cortili polverosi di Valmelaina e Tufello; eravamo praticamente inseparabili e per tutti gli abitanti del quartiere eravamo i Fratelli.

    Era il 1980, fino a quel momento la nostra vita procedeva tranquilla tra partite di pallone nelle strade del quartiere, a quel tempo quasi prive di automobili, gare di caccia all’uomo armati di cerbottane, e le immancabili figurine panini.

    Pruzzo, Conti, Di Bartolomei, erano quelle più ricercate, ed eravamo disposti a tutto pur di ottenerle, tanto che spesso finivamo a darcele di santa ragione solo per sottrarcele a vicenda.

    Era il pieno degli anni di piombo, un’epoca difficile per l’Italia e per Roma, ma gli anni ’70 erano stati soprattutto il periodo della nostra spensieratezza; gli attentati, le sparatorie e le tante storie che si intrecciavano per le strade della nostra città, per noi erano solo immagini sbiadite viste distrattamente durante i telegiornali della sera.

    Il giorno che gli anni di piombo hanno fatto prepotentemente irruzione nel nostro quartiere e nelle nostre vite per noi era un giorno come un altro: eravamo seduti sui muretti decidendo come trascorrere il pomeriggio, ci trastullavamo prendendoci un po’ in giro e commentando il meraviglioso gol messo a segno da Pruzzo nell’ultima giornata di campionato, quando il rumore delle sirene della polizia catturò la nostra attenzione.

    Sembrava che le volanti stessero circondando completamente il nostro quartiere, come in una sorta di invasione; le persone scappavano a destra e sinistra, apparentemente senza una meta precisa, come se fuggissero da qualcosa o da qualcuno.

    Paolo, da sempre il più sfacciato e curioso di tutti noi, senza pensarci due volte, afferrò un passante per il braccio: «Ao’, che è successo?» – gli chiese, mentre stava correndo – quasi facendolo cadere. «Hanno sparato a Valerio!» – rispose il giovane, divincolandosi dalla presa senza interrompere la corsa e senza nemmeno guardarlo in faccia.

    Valerio per noi era il figlio del titolare del negozio di alimentari di via Val Melaina, ma era un ragazzo come noi e nessuno poteva credere al fatto che fosse morto ammazzato.

    Incuriositi, più dal sapere chi fosse lo sventurato, che non dal caos generato da quell’ assassinio, decidemmo di seguire la massa ed arrivammo a via Monte Bianco. Al nostro arrivo la scena che ci si presentò era surreale: ragazzi che manifestavano ad alta voce trattenuti da un cordone di polizia in assetto antisommossa, a terra ogni sorta di rifiuto gettato, probabilmente, contro i poliziotti e a pochi metri un piccolo rogo ancora acceso e controllato a vista dai poliziotti stessi.

    Tutto intorno una folla di curiosi ad osservare distrattamente quella che sembrava essere la scena di un film: «Cosa sta succedendo?» – chiese Cristina ad un signore intento a scrutare gli avvenimenti – «hanno sparato ad un ragazzo che frequentava i centri sociali» – rispose il tizio, senza neanche voltarsi per non perdersi neanche un secondo della vicenda – «pare che appartenesse ai giovani di Autonomia Operaia» – concluse, senza mai guardare in faccia la ragazza.

    Alberto mi guardò con un’espressione mista tra il dubbio e la preoccupazione ed io ricambiai lo sguardo senza proferire parola. Fu Paolo a rompere quell’attimo di tensione: «Che palle! n’artra ora de rotture ar telegiornale». «Sei un deficiente!» – tuonò Cristina guardandolo in cagnesco – «un ragazzo è morto e l’unica cosa che sai dire è questa stronzata!».

    Cristina, animata da un livore che non gli avevo mai visto prima, specie nei confronti di uno di noi, cercò di aggredire Paolo, che dal canto suo, probabilmente sorpreso per quella reazione che a noi tutti sembrò esagerata, fece cadere la cosa.

    Lui e Alberto si allontanarono, mentre io rimasi a via Monte Bianco, un po’ per capire bene cosa fosse successo al ragazzo, ma soprattutto per comprendere cosa aveva scatenato quella reazione da parte di Cristina.

    Nel frattempo l’aria si era fatta ancora più pesante: la folla spingeva per entrare a casa del povero Valerio e la Polizia faceva sempre più fatica a contenerla; mi misi a cercare Cristina e con mia grande sorpresa la trovai mischiata ai ragazzi che cercavano di fare irruzione: «Cosa fai?» – le chiesi con una voce che, probabilmente, tradiva tutto il mio stupore – «non lo vedi?» – rispose lei, quasi senza guardarmi in faccia.

    Tutto mi sembrava surreale, non capivo cosa c’entravamo noi con quella situazione dato che non conoscevamo il ragazzo e la politica non sapevamo neanche cosa fosse, ma il mio unico pensiero, in quel momento era di mettere in salvo Cristina: «Vieni via!» – le urlai, cercando di spingerla fuori dalla mischia – «si può sapere che cazzo vuoi?» – rispose lei, con lo sguardo animato dalla stessa ferocia con cui pochi istanti prima aveva cercato di aggredire Paolo.

    «Qua finisce male, dobbiamo andare via» – replicai, afferrandola per le braccia, cercando di spingerla fuori dal corteo. «Lasciami in pace e vattene» – rispose lei, cercando in tutti i modi di liberarsi dalla mia stretta – «voglio tornare nella mischia» – concluse, strattonandomi sempre più forte.

    Il suo sguardo tradiva rancore misto a odio, non so bene cosa le passasse per la testa in quel momento, so soltanto che se avesse avuto la possibilità, probabilmente mi avrebbe ammazzato: «Ma si può sapere che cazzo ti prende?» – le strillai, cercando di soffocare quel suo impeto di ribellione – «neanche lo conoscevi quel povero ragazzo e adesso rischi di andare in carcere, o peggio ancora di farti ammazzare».

    Dopo averle urlato con quanto fiato avevo in gola, sentii i muscoli di Cristina rilassarsi dentro le mie mani che ancora le stringevano le braccia, a quel punto cercai di allontanarla il più possibile da quel posto che si era fatto sempre più pericoloso e lei non oppose più alcuna resistenza.

    Appena girato l’angolo di via Pantelleria, Cristina si voltò verso di me: «Cosa siamo noi?» – mi chiese con uno sguardo che era diventato triste e rassegnato. «In che senso» – risposi io, non comprendendo il senso di quella domanda. «Cosa siamo noi?» – ribadì lei con un tono di voce più alto – «passiamo le nostre giornate a non fare niente e nel frattempo c’è gente che muore ammazzata per darci un futuro migliore» – i suoi occhi ora facevano trasparire un disprezzo che forse era rivolto a me, o più probabilmente a se stessa – «io mi sono stancata di questa vita, ho bisogno di lottare per qualcosa, voglio dare un senso alla mia esistenza».

    Le sue parole all’inizio mi ferirono profondamente, per me la nostra amicizia era tutto e fui intimamente deluso di scoprire che per lei non era lo stesso, ma poi capii che non era la nostra amicizia in discussione, ma era soltanto la sua vera natura che stava sbocciando, ossia la sua personalità forte e combattente, avversa alle ingiustizie, che ci aveva già dimostrato tante volte in passato e a cui noi non avevamo dato, probabilmente, il giusto peso.

    Capitolo 2

    Sapevamo già dove trovare Alberto e Paolo, ogni volta che avevamo uno screzio, oppure quando litigavamo per qualsiasi motivo, ci ritrovavamo sempre nel luogo del miracolo.

    Il luogo del miracolo non era altro che il piazzale di forma circolare che si trovava all’interno del cortile dei palazzoni. Da bambini spesso facevamo i derby di calcio tra i vari quadranti di Valmelaina e capitava di doverli giocare all’interno di quel piazzale. Un giorno un signore anziano, durante una pausa, interruppe una di quelle sanguinose partite, a cui partecipava anche Cristina, essendo dotata di grande temperamento e di un enorme talento calcistico, e ci raccontò una storia che lui aveva vissuto in prima persona: «Lo sapete che questo posto è magico?» – ci disse, sedendosi su uno dei muretti circostanti. I ragazzi del posto non gli diedero ascolto, forse perché quella storia gliel’aveva già raccontata svariate volte, ma a noi che venivamo dalle case nuove quell’affermazione incuriosì molto e ci fermammo ad ascoltare: «Nel luglio del 1943 le fortezze volanti degli Alleati bombardarono Roma» – mentre iniziava il racconto il suo sguardo era fisso nel vuoto e, nonostante stesse

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