SANTA CATERINA. Il mio rione (italiano - Inglese)
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Un’obiezione, questa, che avrebbe una certa validità se i “personaggi” e gli avvenimenti, che si individuano nel rione S. Caterina, non avessero dimensioni tali da poter trovare anche altrove una propria collocazione, essendo – a proposito delle figure umane – degli esseri che mi pare siano dotati di grande sensibilità, umanità e saggezza.
Un discorso quindi, che nasce nel rione, ma che va al di là dello stesso per potere avere un nesso e un’apertura verso un mondo che prende lo spunto da fatto di ieri, ma che è proiettato in avanti per recuperare e riportare valori e significati che appartengono sì al passato, ma anche al presente e, perché no?, al futuro. In quella logica della continuità che è tipica della storia di ogni uomo e dell’umanità intera.
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Anteprima del libro
SANTA CATERINA. Il mio rione (italiano - Inglese) - Fortunato aloi
fiaba.
Premessa
Ho deciso, dopo aver parecchio riflettuto su questo mio curioso intendimento, di dare alle stampe il presente volumetto di racconti. È un fatto, questo, per me insolito, non essendomi mai, prima d’ora, cimentato con un genere
di lavoro che ho sempre considerato lontano mille miglia dai miei interessi d’ordine culturale o professionale.
Ho temuto e temo ancora – devo confessarlo – di non avere né la forma mentis né il taglio espositivo di chi con questa materia ha familiarità. E per queste ragioni, pur avendo da tempo nel cassetto tanti fogli dattiloscritti con un certo numero di racconti, non mi decidevo a tirarli fuori. Adesso, però, ho preso il coraggio – come si dice – con tutte e due le mani – ed ho, facendo una forzatura a me stesso, scelto tra i tanti racconti quelli che ho ritenuto potessero, in qualche modo, essere accettati. Perché l’ho fatto? Per appagare una forma di vanità? Non so se, a livello inconscio, abbia giocato la componente
vanità.
Una cosa però, in coscienza, so: ho voluto dare alle stampe questi racconti per un duplice ordine di motivi: in primo luogo, per un debito di riconoscenza verso il mio rione, S. Caterina, cui io debbo molto sul piano affettivo e parecchio sul terreno di ciò che io – poco o molto – sono riuscito politicamente a fare; in secondo luogo (ed il legame col primo motivo non manca), per la doverosa esigenza di recuperare figure, episodi e vicende di un passato – legato a me e al mio rione – che non potevano né dovevano disperdersi.
Un recupero di memoria storica
potrebbe questo mio tentativo essere definito. Certo, ciò potrebbe essere vero se non mi aspettassi la critica o, peggio, l’accusa di usare impropriamente l’espressione memoria storica
, trattandosi di fatti e di figure legate, in fondo, alla realtà riduttivamente territoriale di un rione.
Un’obiezione, questa, che avrebbe una certa validità se i personaggi
e gli avvenimenti, che si individuano nel rione S. Caterina, non avessero dimensioni tali da poter trovare anche altrove una propria collocazione, essendo – a proposito delle figure umane – degli esseri che mi pare siano dotati di grande sensibilità, umanità e saggezza.
Un discorso quindi, che nasce nel rione, ma che va al di là dello stesso per potere avere un nesso e un’apertura verso un mondo che prende lo spunto da fatto di ieri, ma che è proiettato in avanti per recuperare e riportare valori e significati che appartengono sì al passato, ma anche al presente e, perché no?, al futuro. In quella logica della continuità che è tipica della storia di ogni uomo e dell’umanità intera.
F. Aloi
Introduzione
Fortunato, anzi Natino, Aloi: un nome, un personaggio che tutti noi ben conosciamo, perché, fin da giovane, ha sempre fatto parte integrante della nostra vita cittadina, delle sue manifestazioni culturali, e si è fatto carico dei suoi problemi politici e sociali.
Docente di valore, politico e sindacalista impegnato, valido giornalista e scrittore, è autore di numerose pubblicazioni storico-filosofiche e politiche; ma S. Caterina, il mio rione
, è un libro tutto nuovo, un testo narrativo che nessuno era in grado di prevedere e che è risultato una piacevole, riuscitissima sorpresa.
È una raccolta di 20 racconti «un recupero di memoria storica», come l’autore stesso ama definirlo, se pensiamo che la storia non è costruita solo dai grandi
personaggi, ma anche dagli umili e dalle masse; è una retrospettiva di episodi e di figure appartenenti ad un passato non molto lontano, che si inquadrano inizialmente in un territorio rionale, ma hanno poi la capacità di dilatare il proprio spazio vitale, fino a diventare universali nel loro significato umano.
Il libro si ambienta storicamente nel secondo dopoguerra e logisticamente appunto a S. Caterina, dove vediamo la vita scorrere, con tutti i limiti del rione, con la lentezza di un tempo; ed è la vita quotidiana che profuma di memoria nostalgica, di giovinezza innocente, di malinconia soave di rimpianto mai sterile.
Le vicende appaiono lontane, quasi fuori dal tempo, e contemporaneamente attuali, come le piccole cose di ogni giorno; e da questa semplicità traspare una filosofia di vita, che è quella del buon senso popolare, ma che è contemporaneamente, e forse inconsciamente, un riflesso della universalità del πάντα ρέει (tutto scorre) (v. racconto ’U cuginu
).
Qualche volta la realtà confina con la credenza popolare, con la superstizione, con la fantasia, (’U fuddittu
, ’U gnuri e le catene
), perché l’uomo è eternamente fanciullo, ed ha bisogno di credere anche in ciò che non vede, che non comprende, ma che stimola la sua immaginazione.
I personaggi sono in genere tratti dal mondo degli umili, un mondo di lavoro, spesso di sofferenza, ma non direi un mondo di vinti
, perché la loro dignità di vita, la loro saggezza, li pone, pur vivendo essi in un contesto socio-culturale modesto, su un piano di superiorità umana, che forse non ci si aspetterebbe di trovare in uno spaccato di uomini semplici. Sono figure tipiche, tradizionali a quei tempi: l’emigrante, l’artigiano, il venditore ambulante, il luppinaro, il sellaio, il biciclettaro.
E, accanto a questa carrellata di personaggi, c’è sempre, dichiaratamente presente o meno, l’autore che segue il filo del discorso, e che, con la sua presenza-latenza, costituisce il motivo unitario della raccolta.
I protagonisti sono spesso anziani, rispettati appunto per la loro esperienza, e stabiliscono con i ragazzi quei rapporti di consuetudine che potevano esistere solo in un mondo di sapore patriarcale. E l’autore raffronta quel mondo con le consuetudine di oggi, e lascia trasparire spesso il suo convincimento che molti aspetti del passato erano più validi e positivi dei corrispondenti odierni.
Le figure emergono dall’oceano dei ricordi, vivono la loro breve esistenza nel limitato arco di un racconto, e scompaiono, spesso misteriosamente (vedi l’Americano
, il vecchio Michele
, Ninu ’ru cafè
, Manuzza
, ’U cuginu
, Feba
). Da qui deriva talvolta un sapore quasi di fiaba alla narrazione; altre volte la narrazione assume invece un tono didattico, quasi di deamicisiana memoria, quando i personaggi testimoniano, con le parole e col comportamento, antiche ed eterne verità, come l’amicizia del vecchio Michele, la grazia pudica di Elena, l’ingenuità di Saro, l’audacia di Nonno Fortunato, la lealtà di Manuzza, la bontà di don Peppino.
I personaggi sono psicologicamente molto semplici, ma presentano inaspettate punte di sensibilità più mediata e riflessa; e in piena corrispondenza di semplicità, si snoda la narrazione, in cui i moduli sintattici sono lineari, e il lessico, chiaro, accoglie qualche voce dialettale, per rispondere pienamente al mondo da cui scaturisce; ma il nostro autore si lascia talvolta prendere la mano dalla sua estrazione umanistica e cede alla tentazione di qualche allusione colta, storica, letteraria, filosofica.
Ai limiti tra la realtà e il mito, tra la cronaca e la narrazione fantastica, il libro di Fortunato Aloi, che rivela sempre alle sue spalle tutte le precedenti esperienze di vita cittadina e di quartiere, apre allo scrittore nuovi spazi culturali, che egli non mancherà certo di percorrere più ampiamente.
Teresa Malavenda Madera
L’Americano
Nella città di Reggio, subito dopo la guerra, nella zona del Porto, a lambire quasi la battigia, una piccola misteriosa abitazione.
Costruita in maniera strana: le frasche convivevano col cemento, e davano vita ad uno strano rapporto, come quello che, al giorno di oggi, esiste tra coniugi, che non avendo più nulla da dirsi, ma nemmeno una casa diversa dove abitare, stanno sotto lo stesso tetto.
Si tratta, avete già capito, della strana figura definita separati in casa
. In questa stessa situazione si trovavano, in quella piccola casa del porto, il cemento e le frasche. Pur non avendo nulla da dirsi, erano costretti a coabitare.
Ma chi era l’inquilino di quello strano pagliaio cementato
? Non fu facile a noi ragazzi, bambini alcuni, adolescenti altri, di allora, riuscire ad individuare lo strano occupante
di quella dimora che era quasi sempre chiusa. Bazzicavamo spesso, noi ragazzi, nella zona del porto dove era stato spianato un pezzo di terra e trasformato in un campo sportivo. Passavamo giornate intere a rincorrere la palla di cuoio o di gomma, anche se spesso il gioco veniva interrotto dall’improvviso apparire dei nostri genitori, che irrompevano – nel campo – con qualche bastone in mano
, o meglio, nascosto dietro la schiena, e fatto venire fuori a qualche metro dalle gambe e dal sedere del proprio pargolo. In questa realtà, nostra quotidiana, con frequenze assidue nell’area del porto, non poteva passare inosservata la strana misteriosa abitazione. Eravamo, dal primo istante che la scoprimmo, convinti che non potesse essere inabitata. Ci appostammo per parecchi giorni, e per diverse ore della sera, e alla fine scoprimmo che lo strano inquilino
di quell’alloggio era un vecchio di circa ottant’anni, che rientrava, all’imbrunire, con un recipiente vuoto in mano e qualche provvista in un piccolo sacco. Decidemmo di seguirlo nel suo iter quotidiano. Infatti, la mattina presto, successiva al giorno della nostra scoperta, ci nascondemmo in un punto vicino alla casa per vederlo uscire. Appena si sentì il cigolio della malferma porta, ci mettemmo, senza farci vedere, dietro le sue orme, e gli andammo dietro. Lo vedemmo addentrarsi nei meandri del porto, tra gli scogli, seguendo un ampio tratto di mare. Alla fine si collocò su un alto scoglio, in un punto, da cui, senza essere visto, dominava con lo sguardo un ampio tratto di mare. E stette lì fermo, per diverse ore, ad osservare il passaggio delle navi. Notammo che maggiore cura nell’osservazione metteva all’apparire di navi di una certa dimensione, di quelle portate a solcare gli oceani. E notavamo come questo tipo di nave lo assorbiva a tal punto da farlo quasi muovere sullo scoglio e portarlo spesso sul ciglio stesso. E quando il piroscafo scompariva all’orizzonte, si leggeva sul suo volto tanta amarezza e delusione.
E questa storia continuò per parecchio tempo.
Avremmo voluto, una volta, fermarlo per la strada o meglio per quel viottolo, ma non ce la sentimmo, anche se ci pungeva il desiderio di chiedergli il perché di questo suo quotidiano
battere lo stesso viottolo e salire lo stesso scoglio, per passare lì tutta la giornata e parte della sera.Non avemmo il coraggio di farlo, anche perché quel suo modo di fare ci incuteva soggezione e misteriosa paura
. Accadde che un giorno il vecchio
scomparve. Non si seppe più nulla di lui. Era sparito misteriosamente, come misteriosamente era spuntato nella zona del porto. La voce di quella scomparsa si sparse e giunse la polizia nella zona. Venne aperta l’abitazione. Noi ragazzi, anche se tenuti in un primo momento lontani, riuscimmo ad entrare in quella strana casa. Rovistammo anche noi tra le tante cose, oggetti e carte varie. Vedemmo su uno sbilenco tavolino una grande fotografia di una donna con tanti bambini accanto. La fotografia era stata scattata in America, una trentina di anni prima. Accanto alla foto, qualche lettera sgualcita e scolorita dal tempo. Anch’essa proveniente dall’America.
Questi particolari incominciarono a sciogliere il mistero. Il vecchio – così poi ci dissero i poliziotti – era emigrato in America, tanti anni prima. Dall’America era stato costretto a fuggire per misteriosi motivi. Ma lì aveva lasciato la sua famiglia. I suoi affetti. Tutto ciò che rendeva la sua vita quanto meno vivibile.
Ecco perché, ogni mattina, si portava sullo scoglio in attesa della nave giusta, quella che