Memorie di un giovane fantasma
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Info su questo ebook
L'AUTRICE
Stefania De Prai Sidoretti nasce a Roma.
Travolta dagli occhi chiari di un giovane biondo, va a vivere con lui sulle pendici boscose di un monte da cui si vede il lago di Bracciano.
Qui costruiscono la casa dei loro sogni, davanti a una quercia plurisecolare.
Ha due figli, una femmina e un maschio, che vivono un’infanzia sfrenata tra la natura, circondati da cani, gatti e galline.
Si laurea in Storia dell’Arte Medievale e Moderna; è stata Curatore Storico dell’Arte presso la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma e responsabile di un Archivio fotografico.
Ama scrivere historical romance ambientati in periodi particolari e originali.
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Anteprima del libro
Memorie di un giovane fantasma - Stefania De Prai Sidoretti
Collana Milos
Stefania De Prai Sidoretti
Memorie di un
giovane fantasma
Pubblicato da ©Pubme |Collana Milos
Prima edizione Montag 2009
Seconda edizione Pubme gennaio 2024
|Memorie di un giovane fantasma | Stefania De Prai
Sidoretti| Tutti i diritti riservati
ISBN:
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia degli autori. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.
Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente autorizzato dall’autore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941
NESSUNO
Io ero.
Sì, indubbiamente l’inizio delle memorie di un fantasma par mio non poteva che iniziare così.
Io ero... Nessuno. Sul serio, proprio nessuno.
Secoli fa un puntiglioso dotto, un erudito i cui libri ormai prendono la polvere negli scaffali più alti delle biblioteche, di quelli neppure visitati dai topi più affamati, annotò nelle sue Cronache cittadine:
Oggi, 21 aprile 1513, Natale della nostra alma città di Roma, al primo chiarore del mattino, alcuni massi si sono staccati dallo stemma posto sull’arco dell’antica e gloriosa porta Flaminia, precipitando al suolo con gran fragore e spavento. Per fortuna nessuno passava in quel momento, solo il garzone di un fornaio
.
Capite? Nessuno. Io per quel vile scribacchino ero nessuno. Era morto nessuno! Un niente, padrone di nulla. Ero solo un poveraccio, dunque, per quel inchiostratore gaglioffo non contavo. E non contavo né da vivo né da morto.
Eppure, sarebbe logico che anche l’ultimo dei pezzenti, una volta trasformato in uno spirito dovrebbe valere almeno più di dieci granduchi in perfetta salute.
Invece - accidenti! - diventato fantasma, ecco che negli anni a divenire altri dottissimi cronisti cominciarono a favoleggiare sulla mia presenza presso la Porta Flaminia, descrivendomi come l’anima inquieta di un nobile cavaliere o di un galante aristocratico.
Che rabbia! Sempre così: tutti pensano che i fantasmi siano blasonati guerrieri, dame titolate o illustri prelati.
E invece, no! Tra noi c’è di tutto, ma tutte le volte che qualcuno ci vede, o crede di vederci, e ci sente, o crede di sentirci, ecco che subito comincia ad arrovellarsi per darci una qualche nobile discendenza.
Come se soltanto chi ha, anzi aveva, il sangue blu nelle vene possa godere dell’inquietante onore di trasformarsi in spettro.
A quanto pare, per i mortali, la povertà e i pezzenti non sono cose da annoverare tra gli spiriti.
Protesto su questo pregiudizio, su questo sopruso che ci perseguita pure oltre le barriere del tempo e dello spazio.
Già ero stato ignorato da vivo, pure da morto queste ingiustizie!
Tant’è, scusate lo sfogo, ma anche i nessuno nel loro piccolo s’arrabbiano.
Procediamo per ordine.
Vita breve e in compenso pure tribolata, la mia.
Riecco la protesta. Ha ragione Lazzaro: col mio spirito dovrei veramente mettermi nel sindacato Spettri & Affini, e addirittura ambire a un posto dirigenziale.
Scusate di nuovo, ma come scoprirete leggendo queste mie memorie, al sottoscritto di sfortune n’erano capitate tante. Ma così tante, che potevo essere additato come esempio del perfetto iellato.
Prima sventura.
Ero un trovatello, un figlio di nessuno, appunto. Mai
saputo chi fossero stati i miei genitori, neanche ora.
Altro pregiudizio da sfatare sui fantasmi: chi l’ha detto che i morti sanno tutto? Certe cose, come in vita, si vengono a sapere, altre no.
D’altronde se la vita è un mistero, la morte lo è ancora
di più.
Comunque sia, i miei genitori dovevano essere stati di
sicuro dei poveracci.
Chi altri poteva in una fredda notte d’un lungo inverno di fame e carestia, abbandonarmi alla ruota degli esposti dell’Ospizio di S. Spirito di Roma? Sapete, quella che ha pure accanto una buca con inciso a belle lettere:
ELEMOSINE PER LI POVERI
PROIETTI NELLO SPEDALE
Li poveri, capite, e proietti, cioè gettati. E devo pure ringraziare quella Pia istituzione, che noi disgraziati prima eravamo proiettati sì, ma nel Tevere.
Che la leggenda racconta che il papa Innocenzo III fondò il brefotrofio dopo che aveva visto dal fiume i pescatori tirare fuori con reti, non pesci ma morticini.
Va be’, non divaghiamo troppo. Soltanto toglietevi dalla mente zuccherate storie di bimbi rapiti dalla culla, di principi perduti o similari: quelle cose accadono solo nei romanzi.
La cruda realtà fu che io ero avvolto in miseri stracci e non in trine e merletti a riprova del mio alto lignaggio.
Così, i solleciti e pii religiosi del brefotrofio, accorsi dallo scampanellio che effettuava il marchingegno nel girare, furono avvertiti che un altro figlio di morti di fame era stato abbandonato alla loro pietà.
Dopo avermi recuperato, mi tatuarono sotto il tallone sinistro la doppia croce del loro ordine per distinguermi in sempiterno dai nati perbene. In seguito mi battezzarono per poi appiopparmi il nome del santo che correva quel giorno.
Era tanto pomposo e complicato che me lo sono persino dimenticato.
D’altronde nessuno si prendeva mai la briga di usarlo. Per la balia pagata dai religiosi per allattarmi ero il piccolo
- con l’aggiunta di quell’altro
- per distinguermi bene da suo figlio. In seguito, quando era allegra, divenni Ranocchietto.
Che dire di lei? Mi campò fino ai quattro anni, e ancora non mi capacito su come riuscii a raggiungere tale glorioso traguardo. Poppavo solo dopo che il mio fratello di latte aveva fatto il suo bel ruttino e, quando finalmente m’attaccavo al suo seno, dovevo accontentarmi di quello che c’era rimasto.
Stessa storia quando, svezzato, si passò alle zuppe. Avevo solo il fondo della pentola, e annacquato per giunta.
La capisco però: lei e la sua famiglia erano soltanto dei contadini di una tenuta di proprietà del Santo Ospizio. Povera gente ignorante che viveva in capanne di legno e frasche, a spaccarsi tutto il santo giorno la schiena nel disboscare la macchia e metterla a coltura per i santi guadagni dell’Arcispedale.
In fondo, io per loro chi ero? Nessuno. O al massimo, una piccola opportunità di un modesto guadagno per riuscire a sbarcare il lunario.
Ritornato presso l’ospizio, abbrancato con tanti altri piccoli sventurati come me, vissi di prediche, preghiere e minestre. Ma quelle che veramente abbondavano erano le prime due.
A otto anni, infine, fui considerato abbastanza grande da badare a me stesso e dato, perché imparassi un mestiere, quale garzone a un fornaio.
Seconda disgrazia.
Il panettiere era un tipo gretto e stizzoso che mi faceva sgobbare da mane a sera come uno schiavo, cosa che in fondo praticamente ero. Neanche lui mi chiamava per nome. Nei vari casi, in ordine crescente alla sua ira, ero: Garzone! Morto di sonno!! Fannullone! Incapace!! Bestia o Somaro (a scelta), Figlio di Mignotta!!!
Cioè, come diligentemente riportavano al nostro ritrovamento i puntigliosi registri dell’ospizio dei trovatelli, filius m. ignotae, (in chiaro, figlio di madre ignota) di qui il termine: Mignotta. E se tua madre ti aveva abbandonato, probabilmente una certa ragione c’era, anche perché molti di noi, per fortuna non io, eravamo spesso infranciosati
, o sifilitici, a riprova del suo mestiere. Quello più vecchio del mondo.
E, infine, Bastardo!!!! Che vuol dire, appunto, figlio di nessuno.
Insomma, ero sempre nessuno, se non l’avete ancora capito.
Il terzo guaio, quello più grosso, enorme quanto una casa, lo ebbi morendo.
E ti credo, direte!
E no, dico io. Perché io non dovevo morire quel giorno!
Vedete l’ingiustizia?
Io stavo passando sotto la porta Flaminia con la cesta del pane sulle spalle doloranti. Saltavo di qua e di là sui ciottoli della strada disseminata d’escrementi, profumato dono dei vari quadrupedi che transitavano per il luogo: pecore, somari, cavalli, cani… e spensierato fischiettavo allegro.
Eh sì, Cuor contento, il ciel l’aiuta, si dice tanto spesso a sproposito.
Fischiettavo perché il cielo era limpido e l’aria frizzava di primavera e, soprattutto, perché avevo finalmente terminato il mio giro mattutino di consegne. Mi alzavo sempre prima dell’alba per portare il pane appena sfornato ai clienti di riguardo, tra cui il comandante della guardia posta alla Porta Flaminia.
Insomma, ero del tutto ignaro quando udii uno scricchiolio sordo. Feci appena in tempo a intravedere qualcosa di scuro che cadeva dall’alto del vetusto arco, quando a un tratto mi ritrovai davanti quella signora.
Chi? Ma la Commare Secca, Morte.
Inconfondibile: bianco viso ossuto tutto ghignate, falce & mantello, ovviamente nero.
«Andiamo!» mi fece seria con voce imperiosa e cupa.
Intanto con una pietra arrotava la lunga falce fienara.
Probabilmente i massi della porta gliela avevano spuntata un poco.
Io ero confuso. Capirai, non si muore mica tutti i giorni, e quando capita difficilmente si è preparati al tragico avvenimento.
Se ci riflettete bene, noi amiamo, odiamo, ci danniamo per mille cretinate, pensando e agendo sempre come se fossimo immortali. E invece da un momento all’altro, buonanotte ai suonatori.
Per farla breve, non capivo niente. Non facevo che osservarmi le mani: sembravano strane, come traslucide e, quel che era peggio, il mio corpo non proiettava nessun’ombra, nonostante ormai ci fosse un sole da spaccare, purtroppo per me, le pietre. Poi mi vidi, cioè scorsi me stesso sotto i macigni; i piedi scalzi, sporchi per la polvere della strada, immoti. Accanto stava la gerla di giunco completamente schiacciata, e compresi l’accaduto, o meglio cercai di farlo.
Ero morto. Tac! Stecchito, e a neanche diciassette anni suonati.
Non mi capacitavo, tranne che per l’aspetto opalescente mi vedevo sempre uguale a quello di prima. Indossavo pure gli stessi abiti: un paio di braghe e un camicione di panno, tutti lisi e rattoppati perché erano dei vestiti smessi del mio generosissimo padrone. Niente scarpe, perché il tirchiaccio non s’era ancora risolto a comprarmi un paio di zoccoli nuovi in sostituzione di quelli che mi erano ormai diventati piccoli.
«Svelto, che non ho tempo da perdere, io!» sollecitava intanto, impaziente, la Trista Figura, incurante del mio sconcerto. E cacciata dal nero mantello una clessidra mi
fece vedere la sabbia che scendeva veloce e inesorabile.
«Col cavolo! Sono troppo giovane, io!» sbottai stizzito a quel punto.
Ero arrabbiato: tutti che di continuo mi trattavano con sufficienza. Tutti che mi davano ordini: prima la famiglia della balia, poi i preti del brefotrofio e, fino a poco prima, il mio padrone con i suoi clienti.
Insomma, tutti sempre a strillarti dietro: popolani, patrizi, preti e padroni.
A dirti: vai lì, corri qui, inginocchiati qua, fermo là. Fa quello e quell’altro ancora, e zitto! E poi, il sissignore, l’inchino, il baciamano, il cedere lo passo… Sì, a essere nessuno ti esponeva a tutti i dileggi.
Soprattutto da parte dei nobili e dei ricchi.
Come si divertivano quei prepotenti blasonati quando le loro carrozze, nel passare al trotto per le anguste strade della città, mi costringevano ad appiattirmi contro gli angoli perché non finissi arrotato.
Quanti schizzi di fango mi sono beccato in faccia! Tanto anch’io per loro ero considerato poco più che melma. Quanti bocconi amari sono stato costretto a inghiottire!
Ora pure la Morte mi voleva mettere in riga.
Ma, accidentaccio, non poteva dire almeno qualcosa di solenne o di gentile?
In fondo, se lei contava era perché c’eravamo noi, anzi, non c’eravamo più noi.
Che so, poteva proferire un sonetto tipo quello sentito declamare da un pittore, architetto e scultore, un fiorentino, vuoi pure scontroso e brutto quanto una bertuccia ma mirabile nell’arte