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Il libro del mio sogno errante
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E-book315 pagine3 ore

Il libro del mio sogno errante

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Info su questo ebook

Con questa antologia dal respiro autobiografico, Guido Da Verona spalanca al lettore le porte del suo mondo interiore. Le vicende si alternano in forma di racconti in prosa e novelle in versi, che regalano una prospettiva globale della vita dello scrittore: gli amori, i viaggi, gli incontri più significativi. In uno dei racconti riesce persino a narrare il giorno della propria morte, inevitabile epilogo di ogni esistenza, uno dei capitoli più interessanti di questo gioiellino della letteratura.-
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2022
ISBN9788728195161
Il libro del mio sogno errante

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    Il libro del mio sogno errante - Guido da Verona

    Il libro del mio sogno errante

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1919, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728195161

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    AI NOMADI, CHE MALATI SONO DI LONTANANZA, DI MUSICA E D’ESILIO

    "GHIRLANDE A BLUETTE„

    Il paese che diede gloria al divino Pietro Aretino, la terra di Giovanni Boccaccio, dove l’Ariosto cantò liberamente, ove crebbe la semenza latina del genio di Rabelais e di Brantôme, va oggi sferzando e bollando per ragioni di salute pubblica una mia povera creatura bionda, la quale non fece altro che danzare: Mimi Bluette.

    Pochi anni or sono Alfredo Oriani scriveva, senza punto badare alla salute pubblica, il suo romanzo: « Al di là »; verso quel tempo Olindo Guerrini rimava «Postuma» e «Le Rime di Argia Sbolenfi ».

    Maestro non solo di bellezza, ma di forza e d’intramontabile gloria, il maraviglioso Gabriele d’Annunzio cantava con violenza e con splendore ogni più rosso fuoco della carne, scriveva con ellenica purità le apologie del parricidio e dell’incesto, esaminava l’amore traverso donne piene di colpa fino alla gola, e regalava e regalava tanta musica di bellezza da confondere in un miserabile gracidare di rospi le urla de’ suoi defenestratori.

    I giovani, quelli cui spetta cesellare lo stile del bel Novecento, pare si diano pochissimo pensiero d’infliggere alle Muse novecentesche la cintura di castità, ed in riviste che sorgono a centinaia, ne’ lor volumi gloriosi di temerità, seguono liberamente il proprio dio senza badare neanche per sogno a quella scaltra malata immaginaria che si chiama la Salute Pubblica.

    In tutte le vetrine d’ltalia si espone tranquillamente il « Satyricon »; le poesie dell’abate Casti le ha qualsiasi rivenditore ambulante; anche i libri del Marchese De Sade non sono difficili a trovarsi; chiunque insomma desideri alleviare i propri fastidi giornalieri con il sollazzo di letture amatorie non ha che varcare la soglia del primo negozio da libraio: vi troverà tutto quanto gli occorre, in istile antico, moderno e futurista.

    Ma ora bisognerebbe conoscere cosa mai, nel secolo ventesimo, convenga intendere per buona moralità.

    Non mi sento il coraggio d’affrontare io stesso, in così delicata materia, il peso d’una definizione. Per buona ventura c’è a tal proposito una storica lettera di Gustave Flaubert a Guy de Maupassant, la quale risolve per sempre il dibattuto problema della moralità nell’arte.

    Nessuno dimentica certo che « Madame Bovary », forse la più viva creatura femminile fra quante la letteratura possiede, fu trascinata per i capelli davanti alle Assise parigine, accusata di « oltraggio ai costumi, alla morale pubblica ed alla morale religiosa ». 1 buoni giudici di Etampes congiuravano la medesima sorte contro i «Versi» dell’autore di « Bel Ami », e Flaubert gli scriveva in tal frangente una lettera che mi sembra definitiva. — Ne stralcio alcuni periodi.

    «… Costoro ti risponderanno che la tua poesia rivela « tendenze oscene ». Con la teoria delle tendenze si va ben lungi, e bisognerebbe intenderci su questo argomento: « la moralità nell’arte ».

    Ciò che è bello è morale: — ecco tutto, secondo me. La poesia, come il sole, mette oro sul letame. Tanto peggio per quelli che non lo vedono.

    Tu hai trattato un luogo comune alla perfezione; dunque meriti elogi anzichè meritare l’ammenda o la prigione. « Tutto lo spirito d’un autore — dice La Bruyère — consiste nel ben definire e ben dipingere ». Tu hai ben definito e ben dipinto: che mai si vuole di più?

    Ma il « soggetto!… » — obbietterà Prudhomme; — « il soggetto, signore! ». Due amanti, una lavandaia, la riva del fiume!… Bisognava trattare tutto ciò con maggiore delicatezza, in un modo più fino, e qua e là dar loro qualche buona staffilata, beninteso con la dovuta eleganza, e far pervenire verso la fine un venerabile ecclesiastico od un buon dottore, i quali si ponessero a sciorinare una bella conferenza sui pericoli dell’amore. In una parola, quella vostra favola spinge « alla congiunzione dei sessi ».

    — Prima di tutto essa non vi spinge! E quando poi così fosse, dov’è il delitto nel predicare il culto della donna? Ma io per di più nulla predico; i miei poveri amanti non commetton neanche un adulterio; sono liberi l’uno e l’altra, senza impegni con nessuno. Ah… tu avrai un bel dibatterti! Il grande partito dell’ordine troverà sempre argomenti. Rassegnati!

    Oppure denunziagli (affinchè li sopprima) tutti i classici greci e romani senza eccezione, da Aristofane fino al buon Orazio ed al tenero Virgilio; in séguito, tra gli stranieri, Shakespeare, Goethe, Byron, Cervantes; fra noi Rabelais, dal quale han preso nascita le lettere francesi, poi Chateaubriand, il capolavoro del quale si aggira intorno ad un incesto; e poi Molière (vedere il furore di Bossuet contro Molière), e il grande Corneille — (il suo Théodore ha per argomento la prostituzione), e papà La Fontaine e Voltaire e Jean Jacques!… e Les Contes des Fées di Perrault!… E di cosa poi si tratta in « Peaud’Ane »? Dove si svolge il quarto atto di Le Roi s’amuse, ecc.? Dopo di che bisognerà sopprimere i libri di storia, che insudiciano l’immaginazione.

    Ah! triplici…

    E tu siederai, amico mio, sul banco dei ladri; e tu udrai un tale leggere i tuoi versi (non senza errori di prosodia), e rileggerli, appoggiando su certe parole alle quali darà un senso perfido; ne ripeterà alcuna parecchie volte, come il cittadino Pinard: — « Il polpaccio, Signori, il polpaccio!…».

    E mentre il tuo avvocato ti farà segno di contenerti (poichè una parola ti può perdere), sentirai dietro di te, vagamente, tutta la gendarmeria, tutto l’esercito, tutta la forza pubblica, che peserà sul tuo cervello d’un peso incalcolabile. Allora ti salirà al cuore un odio che nemmeno sospetti, con premeditazioni di vendetta, sùbito soffocate dall’orgoglio.

    Ma, ancora una volta, non è possibile! tu non sarai sottoposto a processo! v’è malinteso! v’è errore! non saprei cosa… Il Guardasigilli interverrà. Non siamo più a’ bei giorni della Restaurazione! Eppure, chissà?… La terra non è senza limiti, ma la sciocchezza umana è infinita.

    Ti abbraccio.

    Il tuo vecchio

    Gustave Flaubert »

    Questa lettera dovrebbero assai meditare i dottori, i chierici e le balie asciutte, al senno de’ quali è spesso tra noi affidato il giudicare di moralità e di lettere. Oggi un gran vento d’impostura soffia per tutta la penisola; si vuol dissimulare il vizio ed il mal costume sotto i comodi veli d’una falsa prudhommerie. Quando tutto il colore del secolo, i suoi gusti, la sua maniera di vivere, gli abiti che la gente porta, i discorsi che la gente fa, son lungi le mille miglia da quell’ascetismo e purezza di costumi che in verità renderebbero molto noioso il mondo, ecco il gesuitismo ufficiale che aggredisce armato fino ai denti chiunque, non amico dei sottintesi ma pittor fedele de’ suoi tempi, rappresenta gli uomini con amore di verità. 1 giornali che per mesi e mesi dedicarono intere facciate ai processi Murri e Paternò, gridano l’ostracismo ai libri dove appena si riflette una mitigata ombra di queste buie tragedie nazionali, e quelle medesime colonne, ove i satiri, gli incestuosi, le avvelenatrici, trovano compiacenti biografi, si offuscano di furibondo pudore se un romanzo di costumi ardisce — o licenza imperdonabile! — raccontare il caso d’una vergine che ha perduta la sua verginità.

    Nondimeno i « Versi » del Maupassant e la divina peccatrice Bovary, che invano alla gloria contesero i divertenti giudici della Senna, oggi son divenuti lettura per signorine di buona famiglia.

    Souvent la chaleur d’un beau jour

    fait rêver fillette à l’amour…

    Nè io dispero pace, dopo l’ira e l’assalto che mi dànno.

    Per qualche libro gettato verso la folla, caldo e gonfio della mia tumultuosa gioventù, ormai da ogni canto d’Italia si levano rétori a folgorarmi. Il mio tranquillo nome, che non ha cercato e non desidera la gloria, è fatto segno a lapidazioni accanite. Non v’è oscuro gazzettiere — il più lontano che sia possibile dalla dignità di tener cronaca letteraria — il quale si senta pago innanzi d’avermi scoccato la sua freccia, inflitta la sua punzecchiatura. « L’Eco della Stampa », organo il quale provvede alla cattiva digestione de’ letterati, mi reca ogni giorno fasci di questi velenosi ritagli, dai quali talvolta si produce in me, che pure sono un modesto, il legittimo orgoglio d’aver meritata una così vasta battaglia.

    Fra tanto infuriare di critiche, alle quali manca talvolta persino il pregio della più elementare lealtà, un solo addebito mi è profondamente penoso e mi costringe ad uscire dal silenzio nel quale patii sorridendo I’ingiuria di questa lapidazione.

    L’addebito che taluno mi fa è quello d’essere un mercante, un iniquo mercante d’afrodisiaci, un romanzatore da femmine di piacere.

    A quest’accusa infatti non sopportabile — cioè quella d’essere un mercante — solo risponderò che io nacqui con largo bene di fortuna; se coraggiosamente ne dilapidai gran parte, pur non mi tocca il bisogno di scrivere ricette da coito nè misturare unguenti da erezione al prezzo davvero trascurabile di un franco circa per giovamento arrecato.

    Volessi far ciò di proposito, saprei, vi giuro, mettere in frégola tutta quanta la Monarchia.

    Non è spogliando femmine d’inchiostro nè cantando in ritmo bilingue il pellegrinaggio di Mimi Bluette, ch’io penserei — nel secolo dei repentini miliardari — camminare all’assalto della ricchezza.

    Checchè ne dicano i miei così acerbi flagellatori, l’ultimo pensiero che mi guida nello scrivere un libro è precisamente quello del suo lucro.

    Mi sentivo nato per le vie dell’alto mare, per il sole delle terre distanti, per la gioia di tutti i pericoli, di tutte le passioni che fanno splendere la vita; potevo gettare in un canto questi odiosi e fastidiosi vocabolari, non credere ai vani paradisi che stanno in fondo al calamaio, non logorare i miei nervi stanchi, per lunghe ore notturne, sotto una pallida lampada, contro le amare scrivanie… La natura mi aveva reso atto a vivere con poesia là dove cantano le pazze orchestre, a cavalcare gloriosi purisangue, a scuotere con la mia mano arida il tirso dionisiaco della vita. E questo feci, sin quando mi parve d’aver bene compreso il cuore degli uomini, l’errore che c’è nel mondo, la musica della distanza infinita…

    Invece voi mi chiamate, signori, un volgare mercante.

    Bene, sia. E’ giusto prendere in esame tutte le accuse, mettere la propria coscienza sul banco dei giudici come un vile corpo di reato.

    Volendo pur ammettere che la moralità sia fine dell’arte, — la qual cosa non è — (ciò che è bello è morale, dice Flaubert; — tutto lo spirito d’un autore consiste nel ben definire e ben dipingere, dice La Bruyère;) — pur volendo ammettere che questi grandi conoscitori dell’arte abbiano potuto prendere abbaglio, — vediamo con serenità in cosa e fino a che punto i miei libri siano davvero immorali.

    Nell’Amore che torna, un romanzo scritto a vent’anni, credo di non aver leso nè la divinità nè l’ordine sociale; — perciò parliamone appena di volo.

    In Colei che non si deve amare l’argomento si aggira intorno ad un incesto. La cosa non dovrebbe spaventar nessuno, poichè, dai romanzieri della Bibbia sino a quelli dell’Accademia di Francia, tutte le letterature della terra si sono impadronite senza rossore di questo argomento meditabile e capzioso. Anzi, per dire la verità, fra i numerosi libri dell’incesto, mi sembra che il mio debba ritenersi, oserei dire, morale. Morale in primo luogo perchè l’incesto non giunge a consumazione; morale ancor più nel suo spirito, perchè, lungi dall’essere questa colpa lodata, cantata, o resa efferatamente bella traverso una luce di soprannaturale fatalità, essa vi è umanamente studiata — (e credo anzi per la prima volta) — con caratteri di schietto realismo, con segni di assoluta evidenza, come un fenomeno doloroso e terribile della complicata sensualità moderna. La fanciulla — forse ricorderete — non fa che bruciarsi le ali nel traversare la grande fiamma; il giovine si ribella con tutta la sua volontà, con tutta la sua disperazione, contro il malefizio di questo amore invincibile, poi volontariamente sconta con la sua vita una colpa ch’egli ebbe — nel senso artistico — il torto grave di lasciare inconsumata. Sorvolerò su altre osservazioni meno importanti, come quella di far notare che Arrigo e Loretta eran l’uno per l’altra quasi due estranei, probabilmente figli di padre diverso, e che patirono entrambi questo peccato con un cuore puro, mentre infine l’incesto non è che un episodio nella vicenda e nella indagine di questo libro amaro.

    La Vita comincia domani rappresenta con umanità la storia di un grave delitto. Ma quivi pure non è apologia di reato. Anzi è la coscienza medesima dell’uccisore quel solo potere che non assolve il delitto di Andrea Ferento. L’uomo che credeva « di dover uccidere », l’uomo che secondo la scienza e la natura sentiva « di poter uccidere », curva in ultimo il suo grande orgoglio, la sua metafisica temerità, sotto il rimorso che tormenterebbe la più pallida coscienza borghese. Da questo buio dramma non esce che il vagito sacro di una vita incominciante, la nova innocenza del pargolo, sollevato come un puro simbolo nel chiarore dell’alba nascente. Così è la barbara e necessaria legge della vita, che trae dalla perpetua distruzione la caduca gioventù.

    Nella Donna che inventò l’amore s’incontra — cosa non del tutto immorale — una donna che ama suo marito. Vi sono, è vero, molti usurai, molti ciurmatori, qualche scena violenta ed alcuni caratteri che non son da confondere, come dice il Caddùlo, con quelli delle « fetentissime persone per bene ». Però, se non m’inganno, questi caratteri sono scolpiti con precisione, talora con forza. Il barone Don Massimo Caddùlo è un farabutto, al quale in fondo stringerei la mano. L’usuraio Passadonato è un uomo che si è fieramente accapigliato con altri uomini, e li ha vinti; ha un grossolano cuore forse un po’ romantico, e non posso trovare antipatica la sua rapace onestà. Ma la vita moderna, quella che vediamo accadere in tutte le strade, fervere in tutte le anime, non è forse una violenta furia di speculatori, un urto brutale di volontà, una spietata voglia di potenza, con frammezzo un po’ di sogno, che bisogna per forza uccidere? La morale, in questo caso, consiste nell’avere il coraggio della propria disonestà, come l’avevan l’usuraio Passadonato, il barone Don Massimo Caddùlo.

    Certo non son libri da leggere in un educandato; ma io poi mi glorio di non scrivere per le minorenni.

    « Mimi Bluette », la quale mi parve così piena di profumo da poterle dar nome « fiore del mio giardino », ha invece atterrito, non saprei dire il perchè, i giornalisti che governano l’Italia. Era una ballerina, Mimi Bluette, ed entrando a Parigi non poteva già recarsi a visitare l’immacolato senatore Béranger, o frequentare, per far carriera, i dintorni del Père Lachaise. Doveva traversare Montmartre; e questo è Montmartre, è il Montmartre che può intendere, che può conoscere, una trasparente e bionda ballerina italiana. Che i Parigini, od almeno gli studiosi, od almeno gli uomini di vero buon gusto, trovino a ridere su ciò, d’accordo!… io voglio essere il primo a riconoscere i miei torti. Ma che un arruffato correttore di bozze, un viveur da caffè con bigliardo, sbucato fuori dalla Valtellina o dal Tavoliere delle Puglie, trovi, per darsi un’aria blasée, che questo Montmartre è molto provinciale, o si accorga proprio sul serio che il mio francese pecca di mediolanità… via, mi vien voglia di rispondere con la parola del Maresciallo Cambronne!…

    La critica può dire di me quello che vuole. Non io le domando lauri, nè incensi, e nemmeno equità.

    Libero da clientele, franco da ogni servitù, volontario esule da tutti gli olimpi che imperano con tanto chiasso nei templi o nelle birrerie d’Italia, è mia fierezza certa e limpida quello di non appartenere a nessuno.

    Mille altre cose nel mondo seducono la mia ridente noia, e son davvero troppo nevrastenico per andare in cerca dei vostri battimani. Io scrivo per un vizio invincibile, com’è quello di prendere la morfina, scrivo per un amore del mio sogno che nessuna vicenda muterà. A potenti gazzettieri, a patroni o distributor di prebende, non ho fino ad oggi assoldata la mia penna. E quanto a coloro che mi additano come un tristo corrompitore di gioventù, io rispondo che il solo peccato nell’arte è quello di mentire.

    La donna che va dall’ortolano, e si veste all’Unione Cooperativa, e scioglie al fedele marito, il sabato, le sue tetre mutande, non è fino a prova contraria, l’eroina ideale d’un romanzo. Le « cocottes » fatte su misura, che s’incontran nei libri timorati, spingono il lettore di buon gusto a sedurre le donne maritate. Dipingere battaglie furiose vedute ai tavolini dei caffè, non mi sembra il mezzo più adatto per incendiare l’anima nazionale…

    « Ma le idee! — gridano i critici; — dove sono i pensieri? le idee?… ».

    Credo che l’idea migliore sia quella di rappresentare la vita.

    E la vita, che io mi sappia, non è mai stata una cosa morale.

    Ora leggete con pace queste polverose reminiscenze della strada. E’ la musica del mio sogno errante che si alza e torna verso me.

    Queste pagine ho raccolte nel mio lungo andare in mezzo agli uomini; sono erba di tutte le prode, fiori di tutte le praterie.

    Quando il sole de’ miei più lontani esilii tramontava sui cinque oceani della terra, io talvolta, in solitudine, le scrivevo.

    La carta su la quale impressi da prima la lor nascente musica, mai si tinse del medesimo inchiostro e non conobbe il diligente ordine, la polvere delle immobili scrivanie. A me la diedero i fragili tavolini dei saloni di piroscafo e d’albergo, le risme dei taccuini comperati nei piccoli bazars dei porti coloniali, talvolta i soli margini dei libri, posati su le mie lunghe ginocchia, tra la fuliggine dei treni.

    Son dunque pagine che conobbero il vento, la distanza e la strada: ossia ciò che di veramente bello possiede il mondo.

    Per lunghi anni esse dormirono, ingiallirono, quasi dimenticate, coi fiori che mi diede qualche bella donna, con le monete che scordai di cambiare a qualche frontiera, con le boccette di profumo che si spezzarono in fondo alle mie valige da emigrante.

    Io le raccolsi dove nacquero, dove le cantò liberamente quello straniero che abita in me.

    Se talora mi convien rassegnarmi al goffo e ridicolo nome di poeta, non son tuttavia fra coloro, che ogniqualvolta muore un insigne artefice, oppure inciampa nel calendario qualche memorabile avvenimento, corrono con apollinea furia verso lo scanno del loro pensatoio, e così regalano alla loro infelice Nazione la seccatura di un altro capolavoro.

    A me la gloria non importa, e nulla mi sarebbe fastidioso come — fra i cretini che l’ebbero — divenirne per caso prigioniero.

    La sola cosa che a voi domando, sarebbe, o signori miei critici, quella di non chiamarmi un mercante…

    Ma infine, perchè mi dorrei? Qualsiasi cosa voi diciate di me, qualsiasi male voi pensiate farmi, avrò sempre bellezza e musica da regalarvi a piene mani.

    Settembre 1918.

    g. d. v.

    IL LIBRO DEL MIO SOGNO ERRANTE

    UNA ROSA

    Si chiamava, — oppure lo chiamavano, ciò che in fondo è la stessa cosa — Geffrey Galleani.

    Fu molto giovine durante la sua giovinezza, poi cominciò lentamente a invecchiare.

    In ciò la sua storia non è dissimile dalla storia di tutti. Si va per il mondo, e cápita, un giorno, di morire.

    Aveva gli occhi serenamente azzurri, pieni di lontano spazio, — il che fece innamorare di lui molte fanciulle.

    Questo giovine uomo, il quale portava un nome inglese ed un cognome italiano, era fra quelli che non hanno il proprio

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