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Bel-Ami
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E-book461 pagine6 ore

Bel-Ami

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Info su questo ebook

Con un saggio di Carlo Bo
Traduzione di Maria Pia Tosti Croce
Edizione integrale

«Bel-Ami sono io», diceva Maupassant con qualche ironia, echeggiando la celebre frase di Flaubert su madame Bovary. Ma quale sarà mai il punto di contatto tra lo scrittore di fama e questo Georges Duroy, giovane arrivista, cinico e privo di scrupoli al punto da farsi scrivere gli articoli dalla moglie dell’amico? Forse una indefinita inquietudine, un tormento esistenziale, la stessa energica ambizione, oltre al dato esteriore immediato di un fascino a cui le donne non resistono. In una Parigi popolata da affari e scandali in egual misura, alla fine Duroy risulta un vincitore, come a dire che il successo arride a chi lo insegue senza guardare in faccia a nessuno. Recentissima la riduzione cinematografica di questo capolavoro con Robert Pattinson nei panni del protagonista e, tra gli altri, Christina Ricci, Uma Thurman e Kristin Scott Thomas.

«…procedeva arrogantemente nella via affollata, urtando spalle, spingendo la gente per non uscire di rotta. Portava un cilindro piuttosto sfatto appena inclinato sull’orecchio, e batteva i tacchi sul selciato. Sembrava sempre in atto di sfidare qualcuno, i passanti, le case, la città intera…»


Guy de Maupassant

nacque nel 1850 presso il Castello di Miromesnil, vicino a Dieppe, in Francia. Compiuti gli studi a Yvetot e poi a Rouen, si arruolò come volontario nella guerra franco-prussiana. Gustave Flaubert lo prese sotto la sua protezione, accompagnandone i primi passi nel giornalismo e in letteratura: esordì nel 1880 con la novella Palla di sego. Incoraggiato dal successo della sua prima opera trascorse gli anni tra il 1880 e il 1891 in una produzione incessante e torrenziale: otto romanzi, più di trecento racconti, cronache, poesie, opere teatrali, diari di viaggio. Dopo una lunga malattia che ne compromise anche la lucidità, morì a Parigi nel 1893.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854129399
Autore

Guy de Maupassant

Guy de Maupassant was a French writer and poet considered to be one of the pioneers of the modern short story whose best-known works include "Boule de Suif," "Mother Sauvage," and "The Necklace." De Maupassant was heavily influenced by his mother, a divorcée who raised her sons on her own, and whose own love of the written word inspired his passion for writing. While studying poetry in Rouen, de Maupassant made the acquaintance of Gustave Flaubert, who became a supporter and life-long influence for the author. De Maupassant died in 1893 after being committed to an asylum in Paris.

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    Anteprima del libro

    Bel-Ami - Guy de Maupassant

    e-classici.png

    278

    Titolo originale: Bel-Ami

    Traduzione di Maria Pia Tosti Croce

    Prima edizione ebook: marzo 2011

    © 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-2939-9

    www.newtoncompton.com

    Guy de Maupassant

    Bel-Ami

    Con un saggio di Carlo Bo

    Edizione integrale

    OMINO-2.png

    Newton Compton editori

    Maupassant romanziere

    Raramente viene spontaneo come nel caso di Maupassant parlare di natura, di narratore nato e di trovare ogni volta una precisa conferma della formula nella lettura. Anzi, bisognerebbe dire che tali conferme suggeriscono ogni volta nuove soluzioni e altri modi di verificare, arricchendole, le proprie impressioni. Da questo punto di vista, l’interesse del lettore si confonde in misura ragguardevole con un sentimento di ammirazione, quasi si trattasse di uno spettacolo o di una prova straordinaria. Per questo il caso è rimasto unico e l’esempio di Maupassant ha potuto dare in Francia e, più che in Francia, in tutto il mondo dove si raccontano delle storie, dei frutti così clamorosi e duraturi. Tanto per fare un esempio, se ci mettiamo a individuare le prime ragioni della grande narrativa americana di questo secolo, ecco che fra i primi nomi troviamo quello di Maupassant e, più precisamente, l’immagine del Maupassant scrittore di racconti e di novelle. Senonché, fatta questa prima e insuperabile osservazione, il lettore responsabile si trova costretto a riproporsi un altro problema e cioè: perché Maupassant è apparso subito così dotato naturalmente? In che modo è riuscito a perfezionare il dono originale e a consumarlo in una forma che è diventata una specie di categoria per rapidità, intensità e evidenza delle soluzioni? In altre parole, quel lettore si trova a dibattere dentro di sé il problema dell’arte maupassaniana. Restiamo sui romanzi, punto delle ultime soluzioni, in qualche modo l’epilogo della sua straordinaria vicenda d’inventore e di creatore.

    Nel febbraio 1883 esce sul «Gil Blas», uno dei giornali a cui collabora, la prima puntata del romanzo di Maupassant: Una vita, vero atto di nascita della sua carriera di scrittore.

    Egli è già conosciuto per i suoi racconti e per le sue poesie, ma se è vero che appare nell’universo letterario «come una meteora», secondo l’espressione di Zola, è pur vero che rappresenta un raro esempio di scrittore che ha tratto dal suo lavoro fama e ricchezza, dimostrando una rara abilità nel lanciare la sua opera e nel non farsi mai imbrogliare dagli editori che l’hanno pubblicata.

    I romanzi di Maupassant, sei in dieci anni, escludendo le cinquanta pagine de L’Angelus, interrotto dalla sua morte, hanno spesso suscitato scandalo, scatenando la riprovazione dei benpensanti e gli attacchi della censura. Il successo di un romanzo dipendeva allora in parte dalla sua distribuzione nelle librerie delle stazioni parigine, ma quando esce Una vita, si scatena un vero e proprio attacco della stampa contro il suo autore, che viene additato come sovvertitore della morale:

    La sfrontatezza di Maupassant

    Solleva lo sdegno delle persone per bene.

    Il vero pericolo per i viaggiatori

    Non è più il treno che deraglia,

    Ma allora, vi chiederete,

    Quale pericolo minaccia i viaggiatori?

    La vergogna che li assale

    Quando incautamente si fanno trovare con in mano Una vita!!!

    Maupassant reagisce con determinazione contro quella che giudica l’ipocrisia di una legge che vieta la libera circolazione di un’opera letteraria: «Questa tutela morale del governo, questo controllo preventivo, che permette di bloccare la vendita di un’opera dietro la segnalazione di un solo membro dell’associazione dei librai, che si attribuisce la funzione di delatore anonimo e di carceriere».

    Va però detto che i viaggiatori non devono essere rimasti troppo impressionati se nel giro di otto mesi dalla pubblicazione, il romanzo raggiunge la cifra record di 25.000 copie vendute.

    Una vita rappresenta la realizzazione di un’aspirazione artistica in cui molto del materiale usato è autobiografico, si rifà a ricordi d’infanzia, dove l’esistenza da puledro selvaggio si mescola alle bellezze naturali della Normandia e alla propria tragedia familiare. Un critico ha scritto che Una vita è l’opera del figlio tenerissimo di Laure, orfano volontario di Gustave de Maupassant, e infatti nel libro la figura materna si erge con la dolorosa maestosità di una cattedrale. Le ossessioni private di Guy sono per il momento centrate sul personaggio del visconte di Lamare:

    Il visconte s’inchinò, espresse il suo desiderio già antico di fare la conoscenza delle signore, e prese a conversare con disinvoltura, da raffinato uomo di mondo. Il suo bel viso era di quelli che fanno sognare le donne, mentre riescono sgradevoli agli uomini. I capelli neri e ricci incorniciavano una fronte liscia e abbronzata; e le sopracciglia grandi, così perfette da parere artificiali, rendevano teneri e profondi i suoi occhi scuri, il cui bianco aveva una leggera sfumatura azzurrina […]. Il fascino languido di quegli occhi dava l’illusione di una profondità di pensiero, e rendeva importanti le minime parole.

    E quando il padre della giovane protagonista del romanzo, Jeanne, gli chiede notizie sulle famiglie dei dintorni:

    Il signor di Lamare rispose: «Oh, non c’è molta nobiltà nel circondario», con lo stesso tono con cui avrebbe dichiarato che lungo la costa si trovavano pochi conigli.

    La tensione emotiva nel rappresentare con lucidità l’ambiguità e l’egoismo di colui che infrange tutti i sogni di Jeanne, trova sollievo nella descrizione della natura, che fa da contrappunto alla triste realtà dei sentimenti. Accanto al tema dell’attesa della propria porzione di felicità, s’inserisce la figura del bastardo, che ancora una volta oscura la figura del padre. Il bastardo diventa nelle parole del pio curato una sorta di fatalità sociale:

    «Cosa volete? Sono tutte così in paese. È una tristezza; ma non ci si può far nulla, e bisogna essere indulgenti di fronte alle debolezze della natura. Non si sposano mai se prima non sono incinte, mai, signora.» E aggiunse, con un sorriso: «Sembrerebbe un costume locale […]. Vedete, signore, la vostra cameriera ha fatto come le altre».

    Per Jeanne, che vede infrangersi tutti i suoi sogni di donna e di moglie, di fronte ai continui e crudeli tradimenti del marito, la maternità rappresenta l’unica ricompensa alla sua vita mancata, e il figlio scrittore rivive insieme a lei sulla pagina l’emozione di un ricordo indelebile.

    Nel 1885 Maupassant pubblica Bel Ami, il romanzo che racconta la vita avventurosa e alquanto cinica di Georges Duroy e la sua ascesa sociale in una Parigi dominata dai comitati d’affari e dagli scandali, soffocati da una stampa compiacente. «Bel-Ami sono io», dice Maupassant, parafrasando Flaubert e il suo «madame Bovary sono io»; per un verso la fauna di giornalisti, donnine allegre e uomini senza scrupoli del romanzo assomiglia a quell’altra fauna più primitiva della Grenouillère, e anche la fortuna di Duroy con le donne è molto vicina a quella del suo autore, ma se Duroy si fa scrivere i suoi articoli dalla signora Forestier, la moglie dell’amico che lo introduce nel mondo della carta stampata, perché non sa scrivere, Maupassant di certo non ne segue le tracce. E allora è una battuta, quella di Guy? Il suo solito desiderio di sfidare l’opinione pubblica gemellandosi ad un personaggio assai discutibile? Può darsi, ma c’è qualcosa di indefinito che lega i due uomini, ed è la rappresentazione di un tormento, di un’inquietudine che l’immagine dello specchio pare sottolineare: «Osservando a lungo la mia immagine allo specchio, ho a volte l’impressione di perdere la nozione dell’io… Se questa sensazione durasse un minuto di più, diventerei pazzo», e Maupassant è un uomo nel pieno del suo vigore fisico come Duroy, che diventa nel romanzo il testimone involontario di quella ossessione nel momento in cui si reca a trovare Forestier, il suo ex commilitone che lo farà entrare al giornale:

    Era un poco seccato, intimidito, a disagio. Per la prima volta in vita sua portava un abito da società e l’insieme del suo abbigliamento lo preoccupava. Lo sentiva assolutamente difettoso, dagli stivaletti che non erano di coppale, anche se abbastanza fini poiché era fanatico delle scarpe, alla camicia da quattro franchi e cinquanta […] il cui sparato troppo sottile già si stava rompendo […].

    I pantaloni, un po’ troppo larghi, non modellavano bene la gamba, sembravano torcersi intorno al polpaccio e avevano quell’aria sciatta degli abiti occasionali che ricoprono i corpi come per caso […].

    Saliva gli scalini lentamente, col cuore che gli batteva, l’animo ansioso […], improvvisamente scorse di fronte a lui un signore elegantissimo che lo guardava. Erano così vicini l’uno all’altro che Duroy fece un passo indietro, poi si fermò stupefatto: era lui stesso, riflesso da un alto specchio verticale […].

    E fa i primi approcci con il mondo della politica:

    «Può darsi. Nel regno dei ciechi ogni guercio è re. Ma, credetemi, è tutta gente mediocre perché hanno la testa chiusa fra due muri, i soldi e la politica. Sono rozzi, mio caro, non ci puoi parlare di niente; di niente di ciò che amiamo. La loro intelligenza viaggia a filo della melma, o a filo degli scarichi, come la Senna ad Asnières […]».

    Alla fine, però, Duroy risulta il vincitore della partita, come dire che il successo arride a chi di scrupoli proprio non ne ha.

    Maupassant, per curarsi dei disturbi che sempre più di frequente gli rendono difficile lavorare, si reca spesso in luoghi di cure termali dove incontra gente di tutti i tipi e di tutte le classi sociali e si rende conto che il più delle volte il paziente è circondato da medici incompetenti e che la cura dell’acqua è un pretesto per far soldi, come è dimostrato dall’articolo pubblicato sul «Gaulois», in cui riassume i criteri di costruzione di una moderna stazione di cura:

    In ogni stazione termale nata su qualunque fiume d’acqua tiepida scoperto da un contadino, la storia è sempre la stessa. Prima viene la vendita del terreno da parte del contadino, poi la creazione di una società con un capitale fasullo di alcuni milioni, poi la costruzione miracolosa di uno stabilimento con quei fondi inventati, l’assunzione di un medico col titolo di medico ispettore, la comparsa del primo malato, infine l’eterna, sublime commedia che lega il malato al medico.

    All’interno di una constatazione che è più economica che letteraria, Maupassant costruisce il soggetto del romanzo Mont-Oriol, portato a termine ad Antibes, dove lo scrittore si è rifugiato per trascorrere un periodo di riposo. In una storia di interesse e di sfruttamento di una sorgente termale, che l’autore ha ricavato appunto dalla sua esperienza personale e in cui la classe medica è messa alla berlina per la sua boriosa incapacità, s’inserisce una crudele storia d’amore che ricade sul tema, ossessivo, della maternità. Nel romanzo Mont-Oriol, l’amore di Paul Brétigny per Christiane de Ravenel, l’esaltazione in cui egli si getta ai suoi piedi, inebriano la giovane donna che si dà a lui senza resistenza: dopo un anno di folle passione, Christiane è incinta. Alla scoperta che Paul Brétigny ama un’altra donna, Christiane sviene:

    Christiane, quasi nuda davanti a quegli uomini, non vedeva più nulla, non sapeva più nulla, non comprendeva più nulla: soffriva così crudelmente che ogni idea era svanita dal suo cervello. Era come se le passassero nei fianchi e nella schiena, all’altezza delle anche, una lunga sega dai denti smussati che sminuzzava le ossa e i muscoli, lentamente, in modo irregolare, a intervalli, con arresti e riprese sempre più spaventose […]. Per quindici ore fu martoriata così, affranta dalla sofferenza e dalla disperazione tanto che desiderava spirare, si sforzava di morire in quegli spasimi che la torcevano. Ma dopo una convulsione più lunga e più violenta delle altre le sembrò che tutto il contenuto del suo corpo sfuggisse improvvisamente da lei! Era finita […].

    Ma se per la donna quel piccolo essere frutto dell’amore e causa della separazione diventa l’essenza stessa della vita: «Non amare che me, figlia mia!», le sussurra commossa, per l’uomo «… in preda a un disagio doloroso e crescente, torturato dal desiderio di vedere cosa viveva là dentro», non c’è più posto, egli è cancellato per sempre. L’insistenza con cui Maupassant si sofferma sul tema della maternità, che estromette la presenza del padre, e in cui la madre proietta tutte le sue speranze sul figlio appena nato, è in parte la risposta di Guy «tenerissimo figlio» al dono materno, ma gli inibisce di vedere e di rappresentare la donna:

    Non ho mai amato… In ogni creatura c’è l’essere morale e l’essere fisico, per poter amare dovrei incontrare tra questi due esseri un’armonia che non ho mai trovato. Uno dei due ha sempre la prevalenza sull’altro, a volte è l’essere morale, a volte è l’essere fisico…

    confessa non senza una sofferenza autentica a un amico.

    In Pierre e Jean, pubblicato nel 1887, ancora una volta affronta il tema del bastardo ma in modo psicologicamente originale, dando vita a un racconto inusuale e sorprendente per la sua modernità. Nella prefazione a Pierre e Jean si legge:

    Il suo scopo [del romanzo] non dev’essere quello di raccontarci una storia, di divertirci o di commuoverci, ma dev’esser quello d’obbligarci a pensare e capire il senso profondo e nascosto degli avvenimenti […] e questa visione personale del mondo egli [lo scrittore] deve cercare di comunicarcela attraverso i suoi libri […] e dovrà perciò comporre la sua opera in maniera così abile, così dissimulata, così semplice in apparenza, che sia impossibile scorgerne e indicarne il piano e scoprirne le intenzioni […]. Gli scrittori che più ammiro nascondono la psicologia nel libro, come nella realtà essa si nasconde dietro gli avvenimenti della vita […].

    Lo spunto al romanzo è dato da un’eredità inaspettata che un amico di famiglia lascia a uno dei due fratelli, a Jean, il minore, suscitando la muta disperazione di Pierre il quale giunge alla conclusione che il fratello è un figlio illegittimo; ma questa scoperta che non riguarda il protagonista si proietta sulla vicenda come un’inchiesta crudele che investe i pensieri e le reazioni dei componenti della sua famiglia, i luoghi che ama e le persone che conosce, e li avvolge come in una nebbia:

    Allora un pensiero improvviso e violento traversò l’animo di Pierre come una palla che colpisce e che strazia: «Se Maréchal m’ha conosciuto per primo e io sono stato la causa della sua intimità coi miei genitori, se ha avuto per me tante premure e m’ha voluto tanto bene, perché ha lasciato tutto a mio fratello e a me nulla?».

    Non fece altre domande e restò cupo, assorto in una meditazione che non era più fantasticheria, con un’inquietudine nuova, ancora vaga, come il germe segreto d’un nuovo male.

    Uscì presto e ricominciò a girare per le strade sepolte sotto la nebbia che rendeva la notte densa, opaca, nauseabonda […].

    In verità la madre è colpevole e se Jean perdonandola, accetta l’eredità, a Pierre non resta che abbandonare la famiglia e andare per mare:

    Un’ora dopo Pierre era sul piroscafo, disteso nel letticciolo, stretto e lungo come una bara. Vi restò un gran tempo con gli occhi aperti, pensando a tutto quello ch’era accaduto nella sua vita e soprattutto nella sua anima da due mesi in qua. A forza d’aver sofferto e aver fatto soffrire, il suo dolore aggressivo e vendicativo s’era stancato come una lama smussata […]. Si sentiva così stanco di lottare, stanco di colpire, stanco d’odiare, stanco di tutto che non ne poteva più e cercava d’immergersi nell’oblio come ci si sprofonda nel sonno.

    Maupassant sa di aver scritto un libro non facile e infatti ecco cosa scrive a un’amica: «Pierre e Jean sarà un successo letterario, ma non commerciale. Sono certo che il libro è bello… ma è crudele, e questo non lo farà vendere».

    Di ritorno dal suo terzo e ultimo viaggio in Africa, Maupassant si stabilisce a Cannes, dove lavora a un altro romanzo: «Preparo il mio romanzo lentamente e con molta difficoltà, perché tutto deve essere appena suggerito, quasi sfumato. Sarà piuttosto breve, proprio perché deve essere percepito come una visione della vita, terribile, tenera e disperata», e anche il suo stato di salute non è incoraggiante, gli occhi gli fanno male, le emicranie lo assalgono a volte con incredibile intensità, e soffre di inquietanti vuoti della mente. La vicinanza della madre, con cui discute a volte della sua opera, gli è di grande conforto; il giudizio di Laure de Maupassant è però severo sul lavoro di Guy: «Non mi piace la fine che gli hai dato. Quell’incidente si sente che è forzato!». «Ma sì, mamma! L’incidente, certo! È gratuito, imprevisto. È il caso, mamma, la fatalità, è proprio lì il senso del libro!».

    La storia è quella del pittore Olivier Bertin, un pittore alla moda, sensibile e originale, che s’innamora di una signora dell’alta società, ed è ricambiato; col passare degli anni l’uomo vede nella giovane figlia della donna amata il simbolo di un amore eterno, colei che gli ricorda un passato felice e inconsciamente se ne innamora, ma un banale incidente mette fine a un sentimento di ideale appagamento:

    E parve in effetti calmarsi un poco, soffrire meno, ricadere d’un tratto in una sorta di torpore sonnolento. Sperando che avrebbe dormito, ella tornò a sedersi accanto al letto, riprese la sua mano e attese. Non si muoveva più, il mento sul petto, la bocca semiaperta per far passare quel breve respiro che sembrava raschiargli la gola. Solo le sue dita a tratti si agitavano, avevano delle lievi scosse che la contessa percepiva fino alla radice dei capelli, che la facevano vibrare fino a urlare […]. Si alzò, piena di spavento per guardare il volto di lui.

    Era disteso, impassibile, inanimato, indifferente a qualunque miseria, di colpo pacificato dall’Eterno Oblio.

    Maupassant sembra intravedere in questo romanzo dal titolo Forte come la morte la possibilità dell’amore eterno, come un universo vietato, come confida a un amico all’uscita dell’opera nel 1889: «La mia attitudine nella vita sentimentale ha avuto il sopravvento sul mio cuore. Turbato dal mio cinismo, ha finito per tacere. E si è ritirato così profondamente in me, che la più bella delle promesse d’amore non riuscirà ad addomesticarlo».

    L’ultimo romanzo di Maupassant, pubblicato nel 1891 ha per titolo Il nostro cuore, ed è la storia di un giovane artista, André Marolle, che s’innamora di Michèle de Burne, una delle donne più ammirate del Faubourg Saint-Honoré. Maupassant non ama la società mondana, la frequenta, ma non si fa mai coinvolgere, certo la sua personalità, la sua eccentricità incuriosiscono il bel mondo parigino, che lo cerca, lo adula, se lo contende e il ritratto che egli ne fa nel libro è di una fredda, caustica comicità:

    Giungevano gli ultimi invitati: il grosso Fresnel, trafelato che s’asciugava per l’ennesima volta col fazzoletto la fronte madida di sudore, il filosofo mondano Georges de Maltry […] celebre per i suoi paradossi, l’erudizione complicata, eloquente, sempre aggiornata, incomprensibile per le ammiratrici anche le più appassionate, e ancora per gli abiti, ricercati come le sue teorie […]. Il grasso Fresnel […] ancora giovane, ma grosso, gonfio, ansimante, quasi senza barba, col capo annebbiato da una vaga peluria chiara e scompigliata […]. La marchesa, una donna forse un po’ troppo piccola, perché grassottella, di origine italiana, vivace, con gli occhi neri, così folti e invadenti che coprivano la fronte e minacciavano gli occhi […]. Il barone, uomo davvero distinto, dal petto rientrato e dalla testa grossa, non era veramente completo se non col violoncello in mano [...].

    In questo romanzo delle vane speranze, André si dichiara alla donna inaccessibile in modo imprevisto, palesando indifferenza la evita, e perciò la interessa. L’attenzione con cui Maupassant costruisce il ritratto di questa divinità irraggiungibile, rivela il desiderio di esprimere il suo ideale femminile; come in Baudelaire esso è eterno e irraggiungibile, sterile come Maya, dea della eterna illusione:

    Egli gustava in lei il sapore d’una creatura artificiale, foggiata e allenata per ammaliare. Era un raro oggetto di lusso, attraente, squisito e delicato, sul quale indugiavano gli sguardi, davanti al quale il cuore batteva e s’agitava il desiderio […] una nuova trasformazione di questo eterno femminino: un essere raffinato, di sensibilità indefinita, d’animo inquieto, agitato, irresoluto, che sembrava aver già provato tutte le droghe con cui si calmano o si eccitano i nervi.

    Ma l’amore di Michèle de Burne è causato più dall’insolito atteggiamento del giovane che da un sentimento autentico, poiché essa è incapace di amare; è un’euforia di breve durata:

    S’era domandata, sorpresa della sua freddezza involontaria, perché non l’avrebbe potuto amare come tante donne amano i loro amanti […]. La sua antica, ineguale speranza d’amore, intravista come realizzabile la sera in cui aveva deciso di donarsi […]. Ma una stanchezza la invadeva, e un’impotenza d’ingannare se stessa e d’ingannare lui più a lungo.

    E quando Marolle che confessa il suo amore, sente nella donna soltanto indifferenza, si chiede angosciato:

    Erano mai esistite, esistevano ancora donne appassionate che la commozione scuote, che soffrono, piangono […] donne che sfidano tutto perché amano, e di giorno o di notte, sorvegliate e minacciate, intrepide e palpitanti, vanno verso colui che le prende tra le braccia, folli di felicità e vicine a perdere i sensi?

    Nell’agosto 1891, Maupassant è a Ginevra per seguire una cura termale e incontra un suo amico, il dottor Cazalis: «Sa cosa c’è dentro questa borsa?», gli chiede, «le prime cinquanta cartelle del mio nuovo romanzo L’Angelus […]. Vuole che le racconti la storia?» (l’aveva iniziato nel 1890, interrompendo la stesura di un altro romanzo, L’anima estranea). E così nel salotto dello chalet del medico, Maupassant comincia a leggere:

    È la storia di una donna che sta per essere madre, e che suo marito, soldato, ha dovuto abbandonare sola nella loro casa di campagna… E una notte d’inverno, la notte di Natale. I Prussiani invadono la casa e poiché la donna tenta di opporsi, la rinchiudono in una stalla dopo averla malmenata e ferita; e sulla paglia, mentre lontano rintoccano le campane della chiesa, essa, come laggiù a Betlemme la Vergine Maria, mette al mondo un bambino. Ma quale bambino! Un bambino ferito, storpiato, una creatura che non sarà mai simile agli altri uomini… «Coraggio, amor mio», dice la madre allo storpio, «ti porterò in paesi lontani e bellissimi, ti leggerò le storie più meravigliose, e dimenticherai, e anche tu sarai felice, lo voglio, lo voglio…»

    Forse in un ultimo, disperato, tentativo di salvezza, Maupassant chiede ancora una volta, come già a Étretat, aiuto alla madre, per riudire la sua voce di allora: «Ancora uno sforzo, piccolo mio…», ma ormai è troppo tardi.

    Il romanziere non nasce soltanto sulla sponda di una stanchezza del narratore, del lettore di fatti di cronaca; no, nasce dal bisogno di trovare delle soluzioni più larghe e complete alla storia della nostra esistenza. Senonché tale allargamento non ottiene il risultato sperato, lo specchio della solitudine resta intatto anche nel nuovo mondo del romanziere. «La solitude m’emplit d’une angoisse horrible… »¹, ecco dove sta la chiave di tutto Maupassant; perché non gli sono bastati le centinaia di personaggi creati, visti e letti con rapidità fulminea per allontanare dal suo ultimo sguardo il vuoto, la caduta nel vuoto. E al contrario di quanto è stato detto, anche da spiriti critici autorevoli, il risultato finale nel vuoto non è stato mai sollecitato da Maupassant. No, nel suo affondare nel gorgo delle cose senza voce, non c’è mai traccia di partito preso: al contrario, l’ostinarsi nella vita con tutti i mezzi vuol dire che sua intenzione era rifiutare qualsiasi ripetizione meccanica del destino.

    «Je crois à l’anéantissement définitif de chaque être qui disparaît»², un credo a cui non verrà mai meno ma che tuttavia farà scattare quelle domande che da principio si era illuso di non doversi mai porre. Anche qui uno spirito interessato potrebbe scorgere quell’eterno rapporto fra motivi estremi che ha regolato la vita dell’uomo e l’opera dello scrittore. Ricapitoliamo: alla lucidità, alla limpidità delle prime cose corrispondono la confusione e le domande angosciate della fine. E lo stesso vale per l’uomo: alla salute della giovinezza risponde la malattia totale, accettata liberamente e neppure come espiazione, termine che per lui non avrebbe alcun senso. E infine, alla coscienza piena, coraggiosa, quasi altezzosa Maupassant avrebbe sostituito il desiderio di sprofondare nel nulla, nell’indistinto della coscienza. Naturalmente senza riuscirvi; ma che peso hanno certi suoi gridi, che cosa non vogliono dire certe sue confessioni dopo la visita fatta al manicomio di Tunisi.

    Je m’en vais troublé d’une émotion confuse, plein de pitié, peut être d’envie, pour quelques-uns de ces hallucinés qui contiennent dans cette prison, ignorée d’eux, le rêve trouvé un jour, au fond de la petite pipe bourrée de quelques feuilles jaunes³.

    Guardate le date: la commedia si è tramutata in dramma nel giro di pochi anni. L’occhio limpido e allegro di Boule de suif non ha dovuto aspettare molto per intorbidirsi e scoprirsi sul fondo una inquietudine che nulla al mondo avrebbe potuto placare. Fra queste due date, l’ingresso trionfale del 1880 e la pubblicazione nel 1887 di Le Horla, documento premonitore della catastrofe, sta dunque racchiusa una delle avventure palpitanti della letteratura francese. E a prima vista si potrebbe aggiungere avventura di pochi movimenti, se non si dovesse subito dopo tener conto della purezza di queste operazioni che hanno segnato la trasformazione. Maupassant non ha avuto tempo per fare della letteratura, per servirsene: caso mai, dovremmo dire che l’occhio letterario lo ha portato a passare il limite dell’ombra e del nulla con maggiore coraggio. Allo stesso modo la straordinaria ricchezza della sua capacità di osservazione gli si è a un certo punto tramutata in peso, in causa di impaccio. Di qui la necessità di buttare tutto a mare e di considerare lo stesso lavoro letterario come zavorra, di cui sarebbe stato ingiusto e disonesto tener conto.

    Sono cose che di solito non si dicono quando si parla di Maupassant e se ne fa la storia, ma sono proprio le cose che contano e di cui non è possibile fare a meno, se non si vuole perdere quell’accento particolare che lo distingue da tutti gli altri scrittori della sua famiglia e ne fa un testimone alto di un tempo di disperazione e di negazione. Basterà accennare – sia pure molto rapidamente – che la traiettoria compiuta da Maupassant trova una maggiore comprensione e una più profonda identità in scrittori dello stesso tempo ma di tutt’altro sangue. Con la differenza che se per un Mallarmé la metamorfosi era esclusivamente interiore, per Maupassant si è trattato di una trasformazione imposta dall’esterno. Restano il peso e il significato della sua caduta, del suo modo di combattere e soprattutto del suo modo di affrontare il nulla restando fedele alla categoria del bruto. La paura non l’ha convinto a professioni che non potevano rientrare nella sua storia naturale, così come la solitudine e il vento della follia non sono mai riusciti a sottrarlo alla piena consapevolezza del suo stato di condannato a morte. La follia che per qualche momento sembra essergli apparsa come un mezzo di evasione era solo in apparenza la contraddizione della realtà, in realtà risultava come l’ultima, l’inappellabile conferma del destino. Caso mai, se si vuole scorgere un piccolo mutamento interiore bisogna ricorrere alla storia della sua voce, all’incrinamento dei suoi gridi, ma sarebbe troppo pericoloso vedere fino a che punto arrivi.

    Tanto più che l’atteggiamento non è cambiato, così come in fondo non sono mai cambiate le risposte negative che ricavava dall’interrogare la realtà. Caso mai, c’è stato un peggioramento e un aggravamento di queste soluzioni ultime: anche la verità si era incupita, era la verità che meglio si adattava al mondo che fondava il suo impero sulla corruzione, la morte, l’inevitabile annullamento.

    Guardate pure nella storia del suo tempo, andate fuori di Francia, non ci sono stati altri casi così disperati, così assoluti nella negazione. Eccezion fatta per Mallarmé che pure nell’ambito del più mero nulla, ha trovato un riscatto nel segno dell’intelligenza assoluta, nessuno ha provato nella carne come Maupassant il richiamo del vuoto, dell’inutile, della condanna immediata e legata a ogni nostro minimo gesto. Questo straordinario evocatore di stati vitali, questo creatore autentico, questo inventore letterario del senso dell’esistenza è stato paralizzato, sin dai suoi primi tentativi, dal gusto della cenere, della corruzione, del sangue che non dà vita. Beninteso, questo stato d’animo non lo ha convinto a istruire un vero processo, a chiamare in causa nessuna immagine di Dio, lo ha soltanto portato a scendere in campo contro queste ombre di carne, contro questi eterni simboli del nostro inutile viaggio sulla terra. Mondo fatto di gesti ma negato all’azione, all’idea di progresso, alla suggestione del riscatto cristiano, a un certo punto è apparso al suo cronista impassibile come il regno della follia che non si interroga, che non è evasione ma soltanto specchio deformante delle nostre illusioni.

    Il lettore ha, dunque, due strade per leggere Maupassant. La prima è la più semplice, entrare nel giuoco liberamente, prendere senza domandare. La seconda è forse la più dura, ma anche quella che risponde meglio alla verità della situazione, per cui Maupassant diventa personaggio fra i personaggi e da testimone fermo, spietato assume il ruolo di vittima e si lascia trasportare dal fiume delle cose. Nel primo caso, il lettore troverà un artista esemplare pur nei suoi limiti, nel secondo avrà l’immagine di un uomo fulminato e incenerito dalla realtà. Un’immagine indimenticabile nella dolorosa storia dell’umanità.

    C

    ARLO

    B

    O

    NOTE

    ¹ «La solitudine mi riempie di orribile angoscia…»

    ² «Credo all’annullamento definitivo di ogni essere che scompare.»

    ³ «Me ne vado turbato da un’emozione confusa, pieno di pietà, o forse d’invidia, per alcuni di questi allucinati che trattengono in questa prigione, ignara d’essi, il sogno trovato un giorno in fondo alla piccola pipa riempita di foglie gialle.»

    Nota biobibliografica

    LA VITA

    Henri-René-Albert-Guy Miromesnil de Maupassant nasce a Tourville sur Arques¹ il 5 agosto 1850, da Gustave de M. – un uomo leggero, egoista, ma colto – e Laure Le Poittevin. La leggenda, abbastanza diffusa, che vorrebbe fosse figlio illegittimo di Flaubert è stata poi dimostrata come del tutto infondata; la verità è che la madre di Guy, donna di alta cultura e di fine sensibilità, era stata legata da buona amicizia, sin dall’infanzia, all’autore di Madame Bovary, il quale si interessò presto e con amore ai tentativi artistici del giovane amico.

    Nel 1856 nasce il fratello Hervé, ma la famiglia vive in un clima violento con continue scenate fra i genitori. Ciò porterà la signora Maupassant a separarsi dal marito e a rifugiarsi con i suoi due figli a Étretat.

    Dopo una giovinezza felice svoltasi quasi interamente in quella campagna normanna, che sarà poi tanto spesso l’ambiente delle novelle, e un regolare corso di studi al collegio di Yvetot e al liceo di Rouen, la disfatta del ’70 sorprende Maupassant in pieno sviluppo intellettuale, proprio alla vigilia di frequentare a Parigi la Facoltà di Diritto a cui si è iscritto nel novembre 1869, dopo aver brillantemente superato la maturità a Caen.

    Mobilitato durante la guerra franco-prussiana, Maupassant rivela insospettate attitudini alla carriera militare. Patriota, spera sin dopo la disfatta di Sedan in una riscossa dell’esercito francese.

    Congedato nel 1871, si trasferisce a Parigi e inoltra domanda per essere assunto nel Ministero della Marina e delle Colonie. Dopo lunga attesa, il 17 ottobre 1872 viene inquadrato come «avventizio non retribuito »: dovrà attendere il primo febbraio dell’anno seguente per ottenere un inquadramento regolare.

    Intanto completa la sua educazione letteraria iniziata tre anni prima con l’amorevole patrocinio del poeta Louis Bouilhet, intimo amico di Flaubert, e proseguita, alla morte di Bouilhet, con una fitta corrispondenza e frequenti visite all’autore di Madame Bovary e di L’educazione sentimentale. Flaubert inculca nel giovane allievo i concetti basilari dell’arte sua e soprattutto l’accanita ricerca del «vero» anche sotto false apparenze, con una obiettività che è tuttavia tutt’altro che insensibile agli impulsi dei sentimenti e delle passioni.

    Negli stessi anni Maupassant intensifica le pratiche sportive, dedicandosi al nuoto e soprattutto al canottaggio. Fanno parte insieme a lui dell’equipaggio della iole Á la Feuille-de-Rose quelli che rimarranno i suoi amici più fedeli: Robert Pinchon, Léon Fontaine e l’aristocratico e raffinato Albert de Joinville.

    Nel biennio 1874-75 lo scrittore comincia a veder realizzate le proprie aspirazioni, nate probabilmente in lui con la lettura di tutte le tragedie scespiriane, fatta da sua madre nel corso degli anni giovanili. Sull’ «Almanach lorrain de Pont-à-Mousson» viene pubblicato il

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