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Un'avventura d'amore a Teheran
Un'avventura d'amore a Teheran
Un'avventura d'amore a Teheran
E-book188 pagine2 ore

Un'avventura d'amore a Teheran

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Info su questo ebook

È con una misteriosa lettera che si apre questo intricato romanzo in grado di trasportare i lettori negli angoli più esotici e minacciosi dell'Asia Centrale, dall'Afghanistan all'Iran. La lettera è indirizzata a un medico specializzato in frenologia, antenata della psichiatria. Il suo autore sostiene di avere inventato un apparecchio elettromagnetico in grado di identificare e classificare la pazzia e cerca di convincerlo a riconoscerlo come uno strumento innovativo che rivoluzionerà lo studio della mente umana...-
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2022
ISBN9788728195123
Un'avventura d'amore a Teheran

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    Anteprima del libro

    Un'avventura d'amore a Teheran - Guido da Verona

    Un'avventura d'amore a Teheran

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1928, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728195123

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Capitolo I.

    «Mio caro dottore, con tutto il rispetto che le debbo, non cerchi di eludere con ambigui sorrisi le mie precise domande. Il quesito ch’io le sottopongo può e deve risolversi con una dichiarazione molto netta: Siamo di fronte a un pazzo, a un semi-alienato, oppure ad un uomo di cervello normale?. Ecco il problema davanti al quale, anziché rispondere, lei si limita a sorridere. Ma è un sorriso, il suo, che sembra voler nascondere chissà quali sottintesi, mentre non segna che la bancarotta della scienza davanti ai fenomeni della così detta pazzia.

    Per quale scopo, mi perdoni, lei ha dunque studiato tanti anni, s’è laureato medico e specialista in frenologia, s’è formata una clientela, una clinica, una falange di discepoli che accorrono ad ascoltare il suo verbo; per quale scopo, mi perdoni, lei ha varati dalla sua cattedra universitaria dieci o dodici grossi volumi su la natura e sui fenomeni della pazzia; per quali meriti, mi domando, lei ha potuto assumere la direzione del nostro famoso manicomio di Candalaor, detto il Chiostro dei Fosforescenti, se un bel giorno, messo alle strette da uno de’ suoi reclusi, lei con tutta la sua scienza, con tutta la sua sapienza, con tanta prosopopea, con tanto sciupìo di sorrisi elusivi e reticenti, lei, dottore, non sa come rispondere ad una domanda così chiara e così netta: Decidere se costui è scientificamente un pazzo, od un uomo perfettamente sano di spirito e di mente.

    Dichiari dunque che lei stesso non ne sa nulla, caro dottore, e cambi mestiere. Faccia, per esempio, l’agente d’assicurazioni. Ecco una nuova specialità, nella quale son certo che lei farebbe fortuna. Lanci un nuovo tipo d’assicurazione, molto necessaria, e finora esclusa dal ramo infortuni e vita: l’assicurazione contro la pazzia. Pensi che mestiere lucroso!… Non v’è uomo il quale possa credersi ben sicuro di non avere qualche ramo di pazzia, sopra tutto quando cade in mano degli alienisti. E gli alienisti, come lei m’insegna, son brava gente che s’intendon di tutto: di belle donne, di cavalli, d’automobili, di coltivazione degli asparagi e di riporti in Borsa, ma non hanno la benchè minima idea di quello che dovrebb’essere la materia prima del loro mestiere: cioè la pazzia.

    Non si offenda e non mi guardi male, caro dottore. Ho molta fiducia in lei; mi vado sempre più affezionando a lei, come al benevolo tiranno di questo aristocratico reclusorio; la considero un uomo afflitto dalla manìa di guarire i pazzi, e, nel medesimo tempo, il più perfetto fra gli albergatori. Forse il mio caso le servirà per scrivere il più profondo libro su la pazzia che mai sia stato scritto. E quando avrà infine pubblicato questo capodopera, lei diverrà, non ne dùbiti, per insigni servigi resi alla scienza, senatore del Regno.

    Quando poi le mancasse un titolo decisivo per pretendere all’elezione fra i patres conscripti, sono qua io, dottore, ad offrirle gratuitamente il dono d’una mia grande invenzione. L’insigne servigio che lei renderà alla scienza della terapia mentale sarà quello di aver inventato un apparecchio — non importa se l’inventore sarò stato io — un perfetto apparecchio elettromeccanico, basato sul principio del campo magnetico rotativo, col quale sarà possibile verificare, in modo che non sussistano più dubbi, se un uomo il quale ragioni od agisca in maniera diversa dal comune sia veramente un pazzo, oppure un uomo che la folla dei mediocri non riesce a comprendere.

    Questo apparecchio è semplice come l’uovo di Colombo. Da qualche tempo impiego tutti i miei ozi a perfezidnare, nel campo della pratica, questa sorprendente invenzione, che, nel campo della teoria, può dirsi ormai risoluta.

    I primi esperimenti eseguiti sul piccolo foxterrier della nostra bella direttrice spirituale, Maria Clara, mi dànno piena soddisfazione. Ma poichè la gloria non m’interessa, nè sento alcun bisogno di tramandarmi ai posteri come inventore, (e poiché d’altronde le invenzioni degli uomini di genio sono spesso presentate al pubblico da scaltri ed abilissimi defraudatori che non riescon nemmeno a comprenderle), io, dottore, quando sarò ben sicuro della mia scoperta, mi farò un dovere di cederla integralmente a lei, perchè divenga senatore del Regno. La differenza è questa, caro dottore: lei venderebbe la pelle di tutti i suoi reclusi per entrare alla Camera Alta; se invece nominassero senatore me, ne avrei lo stesso piacere che a divenire membro d’un club di canottieri.

    Le intelligenze mediocri, mio caro dottore, sono costrette a seguire, nei lor ragionamenti, l’ordine logico. Se non si attaccano al filo d’Arianna del procedimento logico, vanno a finire con sperdersi nei labirinti del pensiero. In base dunque alla logica, lei mi domanderà com’è possibile che l’inventore d’un apparecchio per verificare la pazzia senta il bisogno di chiedere al suo medico, (nel quale poi non ha tutta la fiducia che meriterebbe), s’egli lo giudica un pazzo, oppure un uomo sano di mente.

    Lei non ha ché rispondermi: Faccia la prova con il suo apparecchio .

    Ed è giusto. Ragionando a base di logica, può sembrare che lei abbia ragione. Il mio apparecchio di fatti segna la pazzia, come un termometro segna la febbre. Ma gli uomini, rispetto alla pazzia, si comportano come gli animali rispetto alla febbre. Trentanove gradi sono febbre alta per un uomo; non lo sono affatto per un cavallo. Ora il mio apparecchio segna per così dire il grado della temperatura cerebrale, ma non mi dà il mezzo di sapere quale sia la linea della normalità rispetto ai singoli individui; poiché, se tutti i corpi umani posson giungere a sviluppare press’a poco lo stesso numero di calorìe, ogni cervello invece sviluppa un numero di vibrazioni infinitamente diverso, e il grado che può segnare «pazzia furiosa» per uno de’ suoi dementi è invece molto al disotto della normalità per un altro, che può trovarsi nella camicia di forza, o a piede libero. Voglio dire che il diapason della cerebralità, la scala che misura la potenza dell’organo pensante, è soggettiva e diversa da uomo ad uomo; in mancanza d’un livello medio, le sue variazioni possono estendersi da zero all’infinito. Io dunque registro col mio apparecchio il numero di volts che si sviluppano da un dato organo pensante, ma non posso dire quale numero di volts questo cervello dovrebbe sviluppare normalmente, poichè tale numero varia in modo infinito da individuo a individuo.

    Le vibrazioni che il mio apparecchio registra vanno per ora da zero a 9891: questa è la scala massima cui possono elevarsi per ora le mie registrazioni. Prendiamo un numero a caso: 3900. Questo numero di vibrazioni può essere pazzia furiosa in un cervello di potenza infima, come può essere al disotto assai della linea di normalità nel cervello del genio. Io dunque registro i gradi della pazzia: — ma per sapere se questa è pazzia, bisognerebbe che potessi anche misurare la potenza media e normale di ogni singolo intelletto.

    Questa valutazione, che per ora non mi riesce di fare in modo scientifico, debbo dunque ricavarla empiricamente, anzi arbitrariamente, come del resto usano fare gli alienisti. Lei comprende fino a che punto questa valutazione, del tutto soggettiva, sia suscettibile d’errori. Ma comprenderà ancora meglio che,.se posso con una certa approssimazione d’esattezza fare questa valutazione su l’intelligenza altrui, mi trovo nella più assoluta impossibilità di fare gli stessi calcoli su la mia. Un uomo non vede mai il proprio cervello, come non vede mai il suo vero volto, per quanto si guardi nello specchio.

    Ecco perchè m’interessa di raccogliere le opinioni altrui sul mio stato mentale, allo scopo di trarne una media; ed ecco perchè domando a lei — a lei che si picca di studi alienistici — se mi considera un individuo fuori dalla normalità, oppure un uomo sano di mente.

    Lei si limita a sorridere, con grande mio dispetto…, ma io le ricordo il vecchio proverbio latino: risus abundat….

    Le rivelazioni alle quali dà luogo il mio apparecchio sono sorprendenti. S’immagini, caro dottore, che, dopo aver preso in esame il cervello del fox-terrier di Maria Clara, ho registrato vibrazioni 6011, e dopo aver controllato il mio proprio, non ottenni che vibrazioni 5055.

    Qual è dunque il rapporto esatto fra la potenza del mio cervello e quello del fox-terrier di Maria Clara?…».

    Capitolo II.

    Questo libro di lunga strada non può confondersi con quelli che si leggono, come suol dirsi, d’un fiato. I narratori che raccontano: «Il giorno 11 d’aprile 1927 è accaduto questo; il giorno 5 maggio 1928 (anniversario della più brutta canzone che mai fu scritta per contaminare la gloria di Napoleone Bonaparte) è accaduto quest’altro: l’anno seguente, alla tal data, si verificò il tale incidente; quattro mesi appresso vedemmo succedere questo e quest’altro avvenimento….» ubbidiscono senza dubbio alla famigerata consecutio temporum; ma, in luogo di rappresentare le cose e gli uomini, come le cose avvengono e come gli uomini sono, in verità non fanno altro che una triste e fredda cronaca a base di calendario.

    Narrare vuol dire semplicemente, nel buon senso della parola, sviluppare una quantità di piccoli films, presi dal vero, lungo le mille strade che un uomo percorre attraverso la vita. Questi films, per grazia del cielo, non sono concatenati e numerizzati: uno, due, tre…. Se poi lo fossero, mancherebbero di senso comune. Nel breve lasso di pochi secondi una mente che sta rievocando chissà quale episodio avvenuto dieci anni prima nella città proibita di Pechino, d’un tratto, e senza saper come, si vede apparire dinanzi agli occhi la chiusura della Borsa di iersera; o, mentre sta facendo il calcolo di quello che ha guadagnato e perduto nelle ultime ventiquattr’ore, ecco che gli passa davanti agli occhi il miserabile cadavere del suo cane grigio-perla, caduto fuori bordo, in una tempesta presso le isole Faröer, cinque anni prima, sette anni prima, non si sa più…. e mentre si rivedon gli occhi della povera bestia disperata che nuota invano tra i marosi per raggiungere lo steamer fuggente, finchè un’ondata più alta, nell’oscurità, lo sommerge, ecco la canzone d’una bella amante seduta al pianoforte, in una casa piena di fiori, che non si sa più quale sia, ecco il funerale d’un vecchissimo negro dalla barba mosaica, portato ignudo e rigido su le spalle de’ suoi figli, ecco il quadro d’autore, venuto a galla fra i cenci e le vecchie cornici, nella botteguccia d’un antiquario di Lodz, e che si ebbe il torto di abbandonare, anziché prenderlo, forse perchè sembrò troppo lieve il prezzo che l’ebreucolo ne chiedeva….

    Il narrare altrimenti equivarrebbe al costringere la fantasia nei vincoli d’un apparecchio ortopedico.

    Poi questo libro è scritto per me, per il mio solo piacere. Che altri lo leggano, e lo trovino dilettevole oppure disinteressante, a me poco importa. Ogni sua pagina è come una vela, un soffio di vento, un turbine di polvere che si alza dalla infinita strada. Non desidero e non voglio che i freddi principî dell’estetica vengano a turbare l’armonia di queste pagine, che solo governa il ritmo cadenzato dell’elica e il soffio dei fuggenti maestrali. Per me l’unità si compènetra nell’esser sempre stato io, quegli che visse e che scrisse, che passò e notò, esule da tutti i luoghi, straniero fra tutte le genti. Per me il tempo che solo conta è l’istante fugace nel quale scrivo.

    Non voglio appartenere per nessun verso al doloroso numero dei maestri di stile candidati all’immortalità, che in vita gabbano il prossimo e in morte vanno a finire — tristissima giustizia degli eventi — nei programmi di lettura per le scuole medie. A mio giudizio il libro, quand’è scritto, non ha più valore. Se non lo butto sul fuoco, ciò è solo per un senso di defezione verso me stesso. Ciò è solo perchè bisogna pur vivere, bisogna pur nutrirsi di pane e di sale; ma sopra tutto perchè l’uomo più coraggiosamente nemico di sè stesso diviene sempre, anch’egli, per qualche ora del giorno, l’istrione stolido e mediocre che ama le sue vane opere, o che almeno sente la vile necessità di farle conoscere al prossimo.

    Il mio vero ideale, quando mi accingo a scrivere, sarebbe quello di avere un braciere d’aromati accesi a fianco della scrivania, e di gettare il foglio su la brage odorosa man mano ch’esso è tutto vergato di righe nere. Il fumo de’ miei sogni avrebbe lo stesso valore, mi darebbe la stessa estasi, di quello delle mie sigarette. Senonchè, dietro l’uscio della stanza ove scrivo, c’è la vita che batte con le sue nocche indiscrete; la vita mi presenta le sue fatture, con tanto di marche da bollo, chiede la soffice biada per i miei lucenti corsieri, manda i suoi fattorini all’incasso, perfino dei raggi di sole che la primavera mi fa godere; le belle donne richiedono abiti succinti e profumi costosi, il motore che mi avventa nella polvere delle strade ingoia benzina….

    Per ciò questi orribili fogli, anzichè sul braciere, vanno a finire — prima dal tipografo — poi, con grande mio sconforto, nella vetrina del libraio.

    Capitolo III.

    Dovevo io suicidarmi perchè il mio cane grigio-perla, comperato a Tuprani, era caduto fuori bordo, nel furore della tempesta?

    Evidentemente no. Mi fossi pur gettato a mare per tentare di salvarlo, sarei miseramente perito con lui tra quella burrasca in cui le ondate superavano l’altezza d’una casa di cinque piani. Però lo vidi morire, e questo fu tra i più disperati dolori della mia vita. Tale ricordo è ancora la spina più acuta che forse porto infissa nel cuore. Il mio cane grigio-perla mi era più caro che la luce de’ miei occhi. Da quattro anni egli era sempre con me, in ogni luogo, in ogni ora. Sapeva le mie tristezze, divideva le mie gioie, era la mia fedele ombra.

    Come avvenne ch’egli cadesse fuori bordo? Non riesco

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