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Il male del fiore
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E-book420 pagine5 ore

Il male del fiore

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Info su questo ebook

Roma, anno 1990. 
Andrea e Lorenzo, due ragazzi rimasti orfani in tenera età, si incontrano per caso su un tram e scoprono di avere delle affinità elettive. Poco a poco i due ragazzi si accorgono che le radici di questo feeling reciproco sono molto remote.
Dopo averla conosciuta, Lorenzo comincia a fare strani sogni e al risveglio sente sempre il profumo della bellissima Andrea nella stanza, alimentando dubbi tra visioni oniriche e realtà. Cominciano a vivere giorni felici e spensierati, e inevitabilmente esplode l’amore.
Ma l’esoterismo entra nelle loro vite quando Klaus, il tutore dall’aria diabolica della giovane e ricca Andrea, comincia ad aiutare Lorenzo nella ricerca disperata della ragazza scomparsa all’improvviso nel nulla.
Viaggi nel passato, incontri virtuali con artisti di altre epoche ed arcane pratiche occulte, antichi grimori ed incunaboli trafugati nella Biblioteca Vaticana aiuteranno i protagonisti a ricordare tutto il loro incredibile e sorprendente passato ed a riscoprire quale sia la loro vera identità e il loro scopo su questa Terra.

Alberto d’Auria è nato a Napoli il 06/08/69 e si è laureato in Scienze Politiche alla L.U.I.S.S. Guido Carli di Roma. Dopo aver trascorso circa diciotto anni nella sua amata Cuba ha ripreso a vivere stabilmente a Napoli, dove lavora attualmente come ghost writer. Ha pubblicato in passato con il suo nome Enigma, Fantasmi romantici e Pegaso e la Morte.
 
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2022
ISBN9788830662551
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    Anteprima del libro

    Il male del fiore - Alberto d’Auria

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PROLOGO¹

    Da qualche parte.

    Sconfitto.

    Ho lottato coraggiosamente con i miei compagni, ma alla fine abbiamo perduto. La punizione che ci hanno inflitto è terribile, ma inevitabile per chi come noi ha osato troppo.

    Personalmente non sono rassegnato, né afflitto oltre una certa misura, ma in questa fatale, interminabile e infernale attesa ho meditato a lungo sulla vita che conducevo allora e su quella che conduco adesso, e sono giunto all’inevitabile conclusione che mi manca qualcosa, o sarebbe più giusto dire... mi è sempre mancato qualcosa.

    Se prima ero troppo distratto da altre passioni accecanti, pericolose, ora che ho avuto più tempo per ragionare mi sono accorto che è arrivato il momento di agire. Ho aspettato per così tanto tempo che non posso più indugiare. Devo cominciare, ora. E mi dedicherò alla ricerca di quel che bramo con tutte le mie forze, fino a quando non riuscirò a trovare ciò che desidero, dovesse costarmi l’eternità, dovesse essere l’unica mia ragione di vita. Io giuro che stavolta non ne uscirò sconfitto.

    È tempo di andare. Ho preparato tutto con cura, cercando di non coinvolgere nessuno nel mio piano. Se fallirò, stavolta lo farò da solo.

    La mia ricerca comincia... è buio... è tutto così buio qui... non riesco a vedere nulla.

    Ma ecco! Ecco che finalmente scorgo una piccola sorgente di luce in lontananza! Devo mettere da parte i miei timori e affrontare quella luce, devo uscire, è difficile, ma ce la devo fare.

    Comincio ad avere paura. Che mi succede? Ce la devo fare, non devo esitare, ce la devo fare! Quello che cerco è troppo importante per me, non posso avere timore di affrontare quella luce. Forse perché la luce in ogni sua manifestazione ha sempre esercitato un’influenza particolare sulla mia persona, sul mio nome, sulla mia storia.

    Ma stavolta no, è quasi fatta, non posso tirarmi indietro proprio adesso che sono così vicino!

    Il ricordo della sconfitta subita, che ha segnato per sempre la mia esistenza, infonde nella mia anima dannata quella dose supplementare di motivazione.

    Oh sì... sì, ce l’ho fatta! Sono uscito alla luce. Ma sono così piccolo, nudo e indifeso...

    Mi viene da piangere.

    1 Tutti i disegni del romanzo, copertina compresa, sono stati realizzati da Giulia Vergara.

    LIBRO PRIMO

    L’innocenza

    "Ille meos primus qui me sibi iunxit, amores

    abstulit, ille habeat secum, servetque sepulchro"

    ("Colui che per primo mi legò possiede il mio amore,

    per sempre lo mantenga nella tomba")

    ENEIDE, IV Canto

    CAPITOLO 1

    Roma, 1990. Sul tram.

    Via via… Vieni via con me. Entri in questo amore buio…

    Stavo ascoltando già da un bel po’ quella canzone di Paolo Conte, quando su quel 19 sgangherato salì la donna che avrebbe cambiato la mia vita.

    Era una calda e tersa giornata primaverile. Il profumo dell’aria impregnava il tram semivuoto che imboccava viale Regina Margherita, con i suoi numerosi fiorai che esponevano orgogliosamente le loro creazioni.

    Il walkman Sony WM-22 continuava a macinare musica per le mie fantasie e le mie meccaniche abitudini. Il sole riflesso sul finestrino, che ballava rumorosamente per la cattiva manutenzione, mi aveva accecato per qualche istante proprio mentre il conducente, frenando dolcemente, azionava l’apertura delle porte. Sembrava il classico segnale premonitore.

    Le note del pianoforte incalzavano. Paolo Conte dava il meglio di sé, raccontando storie d’amore mai vissute, ma troppo belle per non poter essere vere un giorno.

    Una signora seduta davanti a me si voltò e mi guardò, quasi disgustata, quando in uno sfogo autentico e liberatorio proruppi in una buffa risata che squarciò la monotonia dello stridere delle ruote metalliche che solcavano l’asfalto caldo.

    Mica ero improvvisamente impazzito... imitavo solo a modo mio la risata del cantautore astigiano che un attimo prima aveva concluso il refrain, trasportato da ricordi evocati in fa minore.

    Per puro spirito di contraddizione avevo profanato la malinconia che ispirava la sua rauca e amara risata, con la mia, scoppiata in un tono che di mesto aveva soltanto lo sguardo ammonitore della signora davanti a me, dagli occhi saettanti e gonfi di perbenismo.

    Le porte si richiusero velocemente e il tram ripartì e fu solo quando nell’aria sentii un profumo diverso che mi accorsi della presenza di un nuovo passeggero.

    L’avrei riconosciuto tra mille... l’Eau d’Hadrien di Annick Goutal... sì, sicuramente era quello, lo ricordavo bene perché era la fragranza fresca, delicata e vorticosa di una mia ex. Non so nemmeno io il motivo per cui non mi girai subito per catturare con lo sguardo la nuova ospite di quel giorno tradotto in arancione.

    Che sciocco, forse pensavo che da lì a qualche secondo si sarebbe posata sulla mia spalla la mano graziosa e minuta di colei che aveva riempito le mie giornate e il mio cuore per qualche tempo.

    Io non mi giro, pensavo nell’attesa, "adesso mi raggiunge e mi accarezza i capelli come faceva un tempo".

    Ma quella carezza non arrivava mai. Forse in cuor mio lo sapevo e lo sapevano i miei occhi serrati, traditi dall’emozione di quel momento, vissuta all’improvviso e scomparsa in un attimo, cancellata da un’ombra e dallo stridulo rumore di quel maledetto richiamo di ricordi.

    Stavolta la signora non si girò a guardarmi, a guardare i miei occhi che al riaprirsi liberarono una lacrima che lentamente si fece strada lungo il mio viso.

    Quando giunse all’angolo delle mie labbra decisi di assaporare fino in fondo l’amaro calice della memoria. Com’era aspro il sapore di quell’assenzio... troppo diverso dai dolci ricordi affiorati a causa di uno stupido profumo.

    Il rituale era compiuto. Almeno per oggi avevo gustato fino in fondo l’acre essenza della vita e delle piccole ferite che ogni tanto infliggeva.

    La canzone era finita, l’allegria interrotta. Il nastro della cassetta non girava più e il rumore dello scatto finale quasi mi fece sobbalzare, proiettandomi di nuovo nella realtà.

    Fu proprio in quel momento che, serio più che mai, voltai lentamente lo sguardo. Lei era una fila indietro, alla mia destra. E da quel momento avevo deciso che noi due eravamo gli unici passeggeri di quel 19, anche se fosse stato affollato.

    Non guardava verso di me, quindi fu più facile osservarla senza che se ne accorgesse.

    Occhi verdi magnetici, capelli corvini come la notte, lunghi, lisci, splendenti, che con la loro armoniosa profusione incorniciavano il viso di un ovale pressoché perfetto. Soprattutto questo ammirai di lei, che nascondeva le sue forme ben rifinite in un vestito leggero di alta sartoria.

    A prima vista era dotata di un’apparenza poco comune che non poteva sfuggire neanche al più severo dei critici. C’era qualcosa di particolare nel suo sguardo: sembrava perdersi nel vuoto, in un’altra dimensione che, a giudicare dallo splendore delle sue pupille, era senza dubbio migliore della nostra.

    Finalmente si accorse di me, perché con calma e con estrema dolcezza si ravviò i capelli e ricambiò il mio sguardo, fissandomi per un momento con un fare impenetrabile e distaccato, ma con un sorriso appena accennato sulle labbra.

    Una sensazione mai vissuta si impadronì della mia mente e anche il mio cuore sussultò. Stavo guardando negli occhi il prototipo della bellezza che tanti pittori ottocenteschi come Waterhouse o Rossetti avevano cercato di rappresentare sulle loro tele, una bellezza intrisa d’amore e dolore, passione, eleganza, estasi, inquietudine.

    Mi venne in mente come per magia un componimento non molto celebrato del maestro dell’amor sensuale della parola. Non potei fare a meno di alzarmi e come un automa, irrigidito e goffo nei movimenti, mi avvicinai verso il mio paradiso da affrontare. Giunto ormai vicino e con lo sguardo immerso e calamitato nel suo, sussurrai a mezza voce:

    «Ne la bocca era il sorriso

    fulgidissimo e crudele

    che il divino Leonardo

    perseguì ne le sue tele.

    Quel sorriso tristamente

    combattea con la dolcezza

    de’ lunghi occhi e dava un fascino

    sovrumano a la bellezza de le teste feminili

    che il gran Vinci amava. Un fiore

    doloroso era la bocca...»

    I pochi altri passeggeri non fecero molto caso alla mia improvvisata, a Roma se ne vedevano di pazzi in giro... ma a me in fondo cosa importava? Ero stato attratto inevitabilmente dalla sua presenza, costretto ad agire impulsivamente, sollecitato da una forza misteriosa e incantevole. Lei, che mi aveva ascoltato assorta e per nulla stupita dal mio comportamento, quando ebbi finito di pronunciare l’ultimo verso, decise di sollevarmi dall’imbarazzo e cominciò a parlare.

    «D’Annunzio... penso si riferisca alla Gioconda, giusto? Ma non credo di meritare tanto».

    «Beh io credo invece di sì. E perdoni la mia banalità, ma mi sembra di conoscerla da sempre, mi sembra di averla vista in qualche galleria d’arte in giro... in qualche dipinto dei miei pittori preferiti. Ma siamo giovani e anche se tutto questo può sembrare un po’ irreale, possiamo darci del tu? Non mi riesce troppo a lungo sostenere la parte del cavaliere rispettoso», ammisi grattandomi la testa con fare scanzonato.

    «Niente è irreale...» mi rispose senza tradire alcuna emozione. Dalla mia posizione eretta potevo scorgere ancora meglio l’armonia delle sue incantevoli proporzioni e il viso incorniciato da un’aura di mistero che rendeva la sua persona affascinante.

    «Niente è irreale – mi ripeté – neanche i sogni degli uomini.»

    La sua affermazione mi lasciò per un attimo perplesso, ma poi non ci badai più e continuai a parlare, trasportato quasi da un’emozione infantile.

    «Lo so che può apparire scortese, e di questo me ne scuso, ma prima di chiederti come ti chiami, mi piacerebbe sapere quanti anni hai».

    La mia curiosità era dovuta al fatto che nonostante l’avvenenza tipicamente giovanile del suo corpo e la freschezza del suo viso, colorito e vivace come la primavera, sembrava conservare nei suoi occhi, a detta di molti, fedeli specchi dell’anima, ferite che solo il tempo poteva aver generato.

    «Gli uomini a volte sono ancora più curiosi di noi. Ma senza la curiosità parecchie scoperte non si sarebbero potute fare. Certo che puoi darmi del tu, ho vent’anni anni e noto che anche a te non piacciono molto i formalismi...»

    «I formalismi no, soltanto le buone maniere e soltanto quando sono sincere», replicai. Con la sua risposta aveva soddisfatto sia la mia richiesta che la mia curiosità.

    «Anch’io ne ho venti, che combinazione».

    Preso dalla conversazione, ormai avviata sui binari della disinvoltura, non mi accorsi che il tram era già andato ben oltre rispetto alla mia destinazione, ma con orgoglio e soddisfazione mi resi conto che lei sembrasse gradire la mia compagnia. Del resto come avrei potuto lasciarla e dare un calcio alla fortuna che mi aveva permesso di incontrare una ragazza del genere?

    «Siamo coetanei...» cominciò prendendosi una pausa, aspettando che le dicessi il mio nome.

    «Lorenzo! - esclamai con voce sicura – mi chiamo Lorenzo, e tu?»

    «Piacere Lorenzo, io sono Andrea. Buffo, vero? Sai, mia madre e le sue origini tedesche...»

    «E perché? È un bel nome, se non lo deformano in Andreina».

    Senza accorgermene ormai mi trovavo fuori dal tram e avevo già fatto qualche passo, seguendola.

    A quel punto, allora, cercai di giustificare il mio comportamento; non volevo che si facesse idee sbagliate sul mio conto e perderla subito. Farfugliai poche parole ma le furono sufficienti per spiegarmi con un tono calmo e deciso che:

    «So distinguere le persone che vogliono conoscere qualcuno solo per portarle a letto, e tu non mi sembri appartenere a quella squallida categoria».

    A dire la verità, mi vergogno a confessarlo, la prima impressione era balzata prima alla mente che non al cuore, e non nascondo di essere rimasto attratto subito dal suo aspetto fisico, poi però già quel principio di conversazione bastò per ridimensionare il mio giudizio e le mie considerazioni. Era la prima volta che restavo così affascinato e rapito semplicemente a prima vista, eppure non avevo mai avuto problemi a conoscere tante ragazze in precedenza. La vera domanda, però, era che diavolo ci facesse una ragazza del genere, così bella ed elegante, su un tram.

    «Sai come Leonardo ottenne quel particolare sorriso dalla Gioconda? - disse cambiando del tutto il discorso – spiegò la linea della bocca sull’arco di un circolo, la circonferenza del quale toccava gli angoli estremi di entrambi gli occhi. Essere un grande pittore significa anche saperne di geometria, matematica, fisica... e ovviamente lui era un genio completo e onnisciente.»

    La guardai inebetito.

    «No, non prendermi per matta, – disse scoprendo un bellissimo sorriso – lo so perché sono appassionata delle arti figurative e anzi... stavo proprio andando alla Galleria Nazionale d’Arte Antica, a Palazzo Barberini.»

    «Non ho pensato neanche per un momento che tu lo fossi... solo che mi ha sorpreso il modo con cui l’hai detto. È quello che mi ha lasciato un po’... diciamo disorientato. Avevi un tono così professionale... e comunque, se devi andare a Palazzo Barberini perché non sei scesa qualche fermata prima per poi proseguire a piedi?»

    «Perché mi piace la tua compagnia!» esclamò lei, lasciandomi impietrito.

    Se quella risposta aveva il sapore di un’esplicita richiesta di accompagnamento, certamente non poteva trovare modo migliore... L’adulazione, in qualunque caso, è quasi sempre un’esca molto efficace per ottenere qualcosa dalle persone con una buona dose di egocentrismo.

    Eravamo quasi giunti a destinazione, quando sentii risuonare il mio nome nella semideserta via delle Quattro Fontane. Erano da poco passate le tre del pomeriggio e non mi aspettavo proprio di incontrare qualcuno di mia conoscenza a quell’ora e in quel posto.

    «Lorenzo! Ma che fine hai fatto? Sei sparito così, all’improvviso...»

    «Ti abbiamo cercato all’università ma non c’eri...», aggiunse una seconda voce alla prima.

    Erano Silvana e Marco che mi avevano riconosciuto e fermato, due amici studenti come me alla facoltà di Lettere Moderne.

    «Ehm... non è che sono sparito, volevo solo stare un po’ da solo, per i fatti miei. Ci sono giornate in cui mi va di fare il misantropo e voi lo sapete...» risposi con tono arrendevole.

    «Ah certo... apposta te ne vai in giro con le belle ragazze, eh?» - sentenziò Marco scrutando da capo a piedi Andrea.

    «Ahah, perché non ce la presenti?» incalzò Silvana.

    «Ah sì, scusate... lei è... An... Angela – dissi impacciato – e loro sono Silvana e Marco, miei compagni di studi nonché simpatici ficcanaso».

    Si strinsero la mano scambiando convenevoli, ma dal comportamento dei miei due amici ero convinto che volessero saperne di più.

    «È molto carina – bisbigliò Silvana, temendo che Andrea la sentisse – quando l’hai conosciuta?»

    «Adesso, sul tram», rispose Andrea prontamente, anticipando ogni mia risposta, forse credendo che avrei detto un’altra bugia, oltre a quella del suo nome cambiato.

    «E bravo il nostro don Giovanni! - sbottò in tono canzonatorio Marco – all’università fa tanto il timido e poi...»

    «E poi cosa?» chiesi seccato.

    «Niente, niente... - intervenne Silvana – andiamo Marco, non lo vedi che siamo di troppo? Lasciamoli soli, su», concluse ridacchiando mentre si allontanavano salutandoci.

    Che rompipalle! pensai dentro di me.

    «Non è carino pensare quelle cose, specialmente se si tratta di amici...», disse Andrea misurando bene le parole.

    «Cosa?»

    «E dai... te lo si legge in faccia cosa hai pensato! - rispose divertita - in fondo che ti importa? E poi, dovrei essere arrabbiata io, non tu».

    «Ah sì, scusami se gli ho detto che ti chiami Angela, è stato meglio così per evitare ulteriori spiegazioni e allungare il brodo...», mi giustificai tradendo un po’ di imbarazzo.

    «Vuoi dire che se avessi detto che mi chiamo Andrea, i tuoi amici sarebbero andati in giro a raccontare che frequenti delle ragazze strane?» rise lei.

    «Ma no, cosa stai dicendo?» provai a scusarmi, sempre più a disagio.

    «Ti credevo meno attaccato a certi stereotipi... mi hai un po’ deluso. Hai il coraggio di recitare una poesia di D’Annunzio a una perfetta sconosciuta, per giunta su un tram, e poi ti vergogni di chiamarmi col mio nome davanti ai tuoi amici... Tu mi hai rivolto la parola solo perché ti piaccio?»

    Ero diventato rosso, per non dire paonazzo, ma francamente meritavo quella giusta osservazione, mi ero comportato come un cretino.

    «Hai ragione, scusami, ho fatto proprio una brutta figura! Spero di non averti completamente deluso».

    «Dipende».

    «Da cosa?»

    «Non mi hai ancora risposto. Mi hai rivolto la parola soltanto perché ti piaccio?»

    Abbassai gli occhi fino a guardare i suoi eleganti e raffinati sandali dal tacco basso e poi di scatto li alzai, fino a incontrare i suoi, quegli splendidi smeraldi incastonati nelle orbite.

    «Sì... l’ho fatto soprattutto per questo!» confessai.

    «Bene, apprezzo la tua sincerità. No, non mi hai deluso adesso».

    Mi sentivo più sollevato e, quando feci per accompagnarla all’ingresso del palazzo in fase di ristrutturazione, lei mi fermò e, sollevandomi un braccio, mi disse a freddo:

    «No, ho bisogno di stare da sola ora. Grazie per avermi accompagnata».

    «Cos’è... un modo come un altro per dirmi che non ci vedremo più?»

    «Uh come sei drammatico! Chi l’ha detto che non ci rivedremo? E poi non è un modo come un altro, è il mio modo»... concluse con un sorriso mentre mi stringeva la mano.

    Sentii la terra sprofondare sotto i piedi. Dopo pochi secondi restai come un ebete ad ascoltare i suoi passi decisi risuonare sul selciato. Si fecero sempre più lontani.

    CAPITOLO 2

    Roma, Palazzo Barberini.

    Mi sedetti vicino all’ingresso del cancello principale su un muretto di pietra corrosa dal tempo e dall’inquinamento, dopo aver percorso a testa bassa il vialetto di ghiaia che separava i due ingressi, rimproverando un po’ me stesso, un po’ la sorte maligna che mi aveva in un primo momento illuso, facendomi incontrare una ragazza così incantevole, e poi me l’aveva sottratta impietosamente.

    Per più di mezz’ora mi misi a macinare pensieri con la testa tra le mani e le gambe penzoloni, mentre lei era dentro il museo. Alla fine, stufo delle mie indecisioni, esclamai ad alta voce:

    «Sottratto? Macché... la sorte non esiste, la sorte siamo noi!»

    Balzai giù dal muretto con l’irruenza e l’emozione di un adolescente alla prima cotta e per poco non andai a sbattere contro una signora che passava di lì e che, preso dall’ansia, non avevo proprio notato. Che strano... mi sembrava di averla già vista da qualche altra parte.

    «Questo deve essere pazzo... prima ride da solo in tram e poi manca poco che mi aggredisce!» strepitò spaventata la signora mentre mi dirigevo a lunghe falcate verso la meta dei miei pensieri.

    Il custode del museo mi urlò dietro che bisognava pagare per entrare e, pensandoci bene, mi sembrava di avergli dato più del dovuto, preso com’ero dalla foga, ma ero troppo eccitato per riuscire a pensare ad altro, e corsi a quattro le scale finché non raggiunsi il primo degli ampi saloni che ospitavano capolavori di ogni genere.

    C’erano quadri di Gustave Moreau, Henri Lehmann, Aristide Sartorio e Bartolomeo Veneto. Due cose però erano strane nel mio comportamento: la prima era che non vedevo l’ora di rivederla ma mi preoccupavo allo stesso tempo di ammirare i quadri esposti in bella evidenza, e con lo stesso desiderio. Forse, inconsciamente, lo facevo per associazione di idee, perché dentro di me avevo sempre coltivato il culto dell’Estetica, oppure mi ricordavo della sua passione per la pittura e volevo in cuor mio rispettare e condividere la gioia contemplativa ed estatica che catturava o aveva già catturato i suoi meravigliosi occhi in precedenza.

    L’altra cosa strana, che a mente serena può anche non apparire tale, era costituita dal fatto che più mi avvicinavo al salone dove si trovava lei, più rallentavo il passo, quasi non volessi farmi sentire, per timore di profanare la venerabilità di quell’atmosfera e di quell’ambiente.

    Mentre sfilavo furtivamente accanto agli ultimi dipinti che mi separavano da lei, mi vennero in mente (ancora una volta) dei versi che ben si adattavano al mio stato d’animo e che molto avevano a che a vedere con la mia precedente indecisione.

    Questa singolare malattia della psiche mi aveva attanagliato in passato ma non si era manifestata che allo stato embrionale e mai era divampata in questo modo. Ma avvicinandomi a lei sempre di più, sentivo che stavo per sconfiggerla una volta per sempre.

    Le ero accanto ormai.

    Guardai la profusione ordinata dei suoi capelli lunghi e scuri come l’ebano, poi mi avvicinai fino a sfiorarle un orecchio e le sussurrai dolcemente dei versi di Vincenzo Cardarelli: «Le voglie trattenute / mi stemprano in languide inedie. / E il riso spunta sulla fissità. / Amori senza connubio passano / come frutti sul ramo. / Il più frettoloso figliolo del tempo, / il Disinganno, che si nutre di sottigliezze / acerrime e conclusive, / ancora intatti li uccide / i sogni della mia indecisione».

    Lei non tradì nessuna emozione, sembrava ipnotizzata dal quadro che stava osservando con un’attenzione quasi esagerata.

    Si trattava di San Michele abbatte Satana del pittore italiano Lorenzo Lotto. A dir la verità, quella raffigurazione parossistica del Bene e del Male, impersonata dai due angeli, uno fedele a Dio e l’altro ribelle, non mi ispirava gli stessi sentimenti che quasi commuovevano Andrea.

    Cercavo di capire il motivo per cui il quadro avesse addirittura provocato la discesa di una lunga lacrima sul suo splendido viso impreziosito da un sapiente e appena accennato tocco di make-up.

    I volti dei due arcangeli erano pressoché identici e non potevo certo pensare che fosse rimasta spaventata dall’orribile serpente che si insinuava tra le gambe di Satana che cadeva respinto dalla spada di San Michele.

    Forse era la sindrome di Stendhal? Non riuscivo a capire e fu così che, un po’ infastidito per l’indifferenza totale dimostratami, mi girai a osservare il quadro immediatamente vicino, un ritratto di Beatrice Cenci.

    Passò qualche minuto, quando stavolta fu Andrea a solleticarmi l’orecchio con la sua voce, tanto soave quanto triste per ciò che disse:

    «La nostra azione non farà altro che separare da una forma umana uno spirito degli abissi infernali. La sua morte sarà soltanto una tetra continuazione di quel suo intimo inferno».

    «Stavolta sei tu a sorprendermi con una citazione de ‘I Cenci’ e per giunta del mio poeta preferito... Shelley. Continui a stupirmi. Finirò con l’innamorarmi di te...» sospirai ben felice del suo gesto.

    «Passeremo la vita a dedicarci poesie... - replicò lei sorridendo – quella che mi hai bisbigliato all’orecchio poco fa però non la conoscevo, mi piace».

    «Neanche io la conoscevo, prima che una mia amica me la facesse trovare sul banco, all’università».

    «Deve essere sicuramente una ragazza molto sensibile. Mi piace pensare che ci sono ancora persone che non si lasciano trasportare in modo totale dalle frenesie terrene e lasciano aperto un varco nella parte più nascosta dell’anima, dedicando a essa tutto lo spazio che merita».

    Indugiai a lungo nel suo sguardo mentre parlava, cercando di studiarla e osservarla bene. Denotava una sicurezza poco comune e allo stesso tempo una dolcezza naturale.

    Mentre ci avviavamo verso l’uscita, dopo aver dato un’ultima occhiata ai dipinti che ci spiavano dalle pareti, Andrea si aprì: «Sono piacevolmente sorpresa dalla tua ostinazione... e come donna non posso che sentirmi lusingata dal fatto che non ti sei arreso e mi hai seguito, nonostante ti abbia salutato e congedato cinque minuti fa...»

    «Mi fa piacere che tu abbia apprezzato, ma non direi che ti ho seguita subito, visto che è passata quasi un’ora...» le feci sommessamente notare.

    «Cosa?»

    «Vorresti dire che non ti sei accorta che è passata quasi un’ora e che sei rimasta davanti a quel quadro così a lungo, perdendo la cognizione del tempo?»

    «Beh, no...- rispose candidamente lei stringendosi nelle spalle ben rifinite – sai, quando vengo qui a vedere lui, mi fa sempre quest’effetto, solo che non me ne accorgo fin quando qualcuno non me lo fa notare. Fino a ora era stato il custode che si avvicinava quasi mortificato per avvertirmi, oggi l’hai fatto tu».

    Forse per la prima volta da quando l’avevo conosciuta poco prima, sentivo di aver fatto qualcosa di normale. Era successo tutto così in fretta che neanche avevo realizzato la peculiarità di quel nostro incontro. La mia introversione messa da parte, la mia indecisione assopita, la non fraintesa accettazione da parte sua del mio singolare approccio, questo comune amore per l’arte poetica e figurativa, nella sua viva essenza e per ultimo (come posso fare a meno di sottolinearlo?) nel giro di poche lancette di orologio entrambi avevamo esternato in qualche modo un sentimento forte davanti a un’emozione, nel mio caso legata a una figura importante del mio passato che aveva provocato una reazione triste nel ricordarla, dato che si trattava di un affetto perduto. E lei nel rimpiangere invece proprio il Bene perduto... come avrei capito più tardi, molto più tardi...

    Ma l’aspetto più strano era un altro. Ci eravamo conosciuti per caso da poco più di un’ora soltanto, ma da come ci comportavamo (e non posso fare a meno di rimarcare come il nostro atteggiamento fosse assolutamente naturale) sembrava che ci conoscessimo da secoli. Sentivo a pelle che ci univano tante cose, ben oltre gli aspetti già sondati fino ad allora, qualcuno più degno di me le avrebbe battezzate affinità elettive. Sentivo che entrambi eravamo pronti e disposti a consolidare la nostra conoscenza nel tempo. Questa era stata la mia impressione dopo

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