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Il pezzo mancante
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E-book507 pagine8 ore

Il pezzo mancante

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Info su questo ebook

Tra le foreste di Monte Malóne, non lontano da Chiusola, vi è una radura adatta alla ricezione dei lanci chiamata Ca’ Menage. Verso la metà di luglio del 1944 vi si era accampato il battaglione “Picelli” della “Garibaldi” parmense. Unico reparto rimasto operativo di un’eterogenea ma efficiente organizzazione militare composta da patrioti emiliani e liguri. La Divisione Nuova Italia aveva sostenuto,  contro ingenti forze tedesche, una durissima battaglia campale per la difesa dei “Territori Liberi” del Taro e del Ceno.  Questa “enclave” di grande importanza strategica si era ridotta, dopo gli aspri combattimenti, ad alcune zone boscose della montagna ligure. I reduci della più formidabile battaglia mai sostenuta da reparti volontari italiani vissero qui i momenti più difficili di tutta la loro avventura partigiana. Il battaglione fu circondato da forze “amiche”, disarmato e infine sciolto.  Nello stesso giorno, 21 luglio 1944, il loro comandante “Facio” venne invitato ad una riunione nella vicina frazione di “Casa Rocchino” per discutere, con i capi del C.V.L. spezzìno, la ripartizione delle armi aviolanciate dagli Alleati. Poco prima era giunto sul posto, proveniente da Compiàno, anche il colonnello “Lucidi”, capo delle brigate autonome dell’Alta Val di Taro. Lucidi fu minacciato d’arresto da un sedicente capitano Fred del SIS britannico (ma si trattava di un impostore). Il comandante del Battaglione “Picelli” fu passato per le armi. Il libro, frutto di una ricerca oltre decennale, chiarisce , con l’ausilio di documenti inediti, le motivazioni e la dinamica dei drammatici eventi succedutisi nel contesto di una competizione senza esclusione di colpi tra servizi segreti statunitensi e britannici per il controllo delle formazioni partigiane.

Massimo Salsi vive a Parma, sua città natale. Cresciuto in una famiglia passata attraverso le drammatiche vicende della Resistenza si impegna giovanissimo nell’attività politica. Dal 1972 agli anni Novanta aderisce al PCI. Diviene poi uno dei promotori cittadini del movimento contro la guerra. Ex funzionario della Pubblica Amministrazione, ora in pensione, si dedica da sempre alla ricerca storiografica e alla scrittura.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2022
ISBN9788830663114
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    Anteprima del libro

    Il pezzo mancante - Massimo Salsi

    PROLOGO

    L’agguato avvenne in una giornata di luglio all’uscita dal palazzo Dosi Magnavacca. Gli aggressori erano tutti vecchie conoscenze di Salvatore. Quando li ebbe addosso cercò di divincolarsi ma ormai era troppo tardi. La canna di una pistola premuta contro la schiena lo costrinse a entrare nell’auto che lo trasportò alla periferia di Pontremoli. Giunti a destinazione i quattro ex partigiani del Picelli lo legarono a un albero. Tutto lasciava presagire un processo sommario, molto simile a quelli che fino a pochi mesi prima si svolgevano in montagna e di cui Salvatore era esperto. Un breve interrogatorio, le accuse miste ad insulti, l’irrevocabile sentenza, la disperata supplica, una raffica di mitra e via! Questa volta Salvatore era l’imputato. L’interrogatorio fu subito iniziato da un ragazzo di 20 anni che si faceva chiamare Mirko. Era stato un fedele compagno di Facio fino ad un avvenimento che li aveva allontanati. Dopo l’uccisione a tradimento del Comandante aveva abbandonato la Garibaldi per entrare nel Gufo nero, una squadra messa assieme dal capitano Mike Lees del n.1 Special Force.

    – Salvatore! Mentre frustavamo le scarpe su e giù per i monti eri sempre nei nostri pensieri. Eravamo impazienti che la guerra finisse perché quelli di noi che sarebbero sopravvissuti ti avrebbero cercato. E non saresti più stato protetto da nessuno.

    – Cosa volete da me?

    – Non lo immagini?

    – Ho fatto il mio dovere di comunista. Ho seguito le direttive del CLNAI. Non avevo nulla di personale contro Facio. La sua morte è stata un maledetto incidente!

    – Anche la schioppettata nel bosco che solo di poco ha mancato il bersaglio è stato un incidente? Sei un incorreggibile bugiardo!

    – Il capitano Fred voleva arrestare il colonnello Lucidi. Poi è arrivato Facio e si è messo in mezzo. Credo che Alda vi abbia raccontato tutto.

    – Facile scaricare le colpe sugli altri! specie su chi non può più rispondere! Ma tu sei responsabile come e più di lui. Hai iniziato a complottare con quella gente molto prima del suo arrivo.

    – Se per quella gente intendi gli azionisti, ti rispondo che intrattenere rapporti con i componenti del CLN era un dovere del commissario politico.

    – Sappiamo che hai mentito quando dicesti di essere fuggito dal carcere di Parma. Spiegaci per quale motivo sei stato rilasciato! Avevi promesso di farci acchiappare uno a uno?

    – No! No! frena! è una bestialità! In montagna non potevo rivelare i particolari. Avrei messo a rischio la rete cospirativa. Ma il colonnello Fontana ne fu informato. Sono stato liberato, certo! …dal dott. Molinari. Il capo dell’Ovra del Nord Emilia.

    – Quindi ammetti di essere un fascista?

    – No! assolutamente no! È stato Molinari a passare con noi, col Servizio segreto partigiano, il SIP. Se non ci credi chiedilo ai compagni di Parma. A Ilio o a Marini. Io sono un antifascista e un comunista di vecchia data! Per non finire in galera ho dovuto emigrare in Francia. A Parigi ho diretto il sindacato dei lavoratori italiani. Ho partecipato alla Guerra di Spagna e, quando il PCI, dopo il patto Ribbentrop-Molotov, si è disintegrato, sono stato arrestato e internato al Vernet. Al momento dell’espulsione dalla Francia i fascisti mi hanno spedito al confino.

    – Basta, basta… questo ce lo hai già raccontato al distaccamento, ma non ci hai mai raccontato il motivo della tua cacciata dal PCI!

    – Sono vecchie storie di nessuna importanza, in corso di chiarificazione con Gallo e gli altri compagni del Centro! Resta il fatto che in montagna rappresentavo anche loro!

    – Tutti sanno che sei bruciato. In dicembre ti hanno escluso dal Comando della IV Zona Ligure. Nemmeno loro si fidano più di te. Dicono che lavori per il movimento internazionalista, per i trotskisti. Che nel loro gergo vuol dire che te la fai con i nemici del popolo, con i capitalisti, che non hai mai condiviso i princìpi della lotta di liberazione nazionale.

    – Ma no, vi sbagliate, io appartengo alla classe operaia…

    – Taci impostore! In montagna ti atteggiavi a lord inglese anche se un vero lord - sai di chi parlo! - ti prenderebbe volentieri a calci nel sedere. Eri spudorato fino al ridicolo nel sottolineare la distanza che ti divideva dai semplici partigiani! Dopo aver preso le armi e i soldi da Lucidi sei scappato dal Boia portando il nostro distaccamento con te. Tradendo Facio e il colonnello hai compromesso tutti noi. Se non fosse stato per la fredda determinazione di Facio avrebbero creato una testa di ponte all’ingresso della galleria del Borgallo e sarebbero entrati coi panzer direttamente nel centro di Borgotaro.

    – Era in corso una discussione politica sulla costituzione del Comando Unico della IV Zona Operativa Parmense di cui dovevamo far parte anche noi. Poi venne dal Centro l’ordine di separarci e di costituire un Comando Unico solo per lo spezzino. Io ho ubbidito.

    – L’ordine comprendeva anche l’eliminazione di Facio?

    – Maledetto!

    – Al Passo del Brattello, che dovevamo presidiare per garantire la difesa di Borgotaro, ci hai obbligati ad abbandonare il campo. Non te lo perdoneremo mai! Lo hai fatto con cinica determinazione proprio durante un pesantissimo attacco nemico. Ricacciare i tedeschi dalla valle è costato caro ai compagni. Due patrioti della Julia e tre contadini della Valle del Verde sono stati massacrati.

    – Non ero io il comandante del distaccamento, era Italiano.

    – Certo, lo sappiamo, tu eri il Politico! Ma proprio per questo gli accordi per la difesa di Borgotaro li avevi presi tu e non Italiano! Quindi sei doppiamente responsabile!

    – Era un momento difficile, ammetto di aver preso una grave decisione.

    – Ci hai fatto abbandonare il posto di combattimento che ci era stato affidato e lasciare passare i tedeschi. Non mi sembra una cosa da poco! Questo si chiama tradimento. Quando ho cercato di riportare gli uomini sulla linea di battaglia, per appoggiare Facio che stava sostenendo da solo l’urto del nemico, mi hai sparato con l’intenzione di uccidere. Te lo ricordi?

    – La cosa sorprendente è che hai tradito due volte: l’8 luglio al Brattello e il 3 agosto a Zeri. Se in quella circostanza non ci fosse stato Richetto, che non era dei vostri, l’intera Divisione Liguria sarebbe stata spacciata.

    – In agosto la colpa fu tutta del Colonnello Fontana che non aveva in mano le brigate e di Tullio assente ingiustificato.

    – Ancora una volta ti proclami innocente e scarichi le colpe su Fontana. Come fosse sua la responsabilità d’aver messo assieme quella pletora di renitenti alla leva e di comandanti senza esperienza che avete definito Divisione. Come se fosse stato lui a sciogliere il Picelli, l’unica brigata in grado di tener testa ai tedeschi… A proposito di Tullio, lo stiamo cercando, sai dove si trova?

    – Cosa volete fargli?

    – Nulla, solo parlare! Lo stai ancora difendendo? Ti ricordo che è stato radiato dalle file partigiane. Adesso nel tuo nuovo ruolo di presidente dell’A.N.P.I. della Spezia, dopo averlo riabilitato per due volte, non vorrai proporlo per una medaglia al valore?

    – No, no!

    – Dicci dov’è!

    – Si è dato alla macchia, credo dalle parti del Bracco, non vi sarà difficile scovarlo. In fondo è quello che si merita.

    – Ma non è solo Tullio che ci interessa!

    – Con un colpo di mano hai fatto eliminare Facio e arrestare il colonnello inviato dal Comando Interalleato per guidare tutta la IV Zona operativa parmense. Lucidi aveva condotto le brigate alla vittoria contro i nazifascisti malgrado i boicottaggi e i tradimenti. Sei moralmente responsabile anche della sua morte. Nonostante l’uccisione di Facio abbia mandato all’aria il suo arresto lo avete disarmato e privato di ogni aiuto. La sua caduta in un’imboscata a quel punto era prevedibile. Conosci la pena prevista dalla Corte marziale per questi reati?

    – Non uccidetemi, ve ne pentireste…

    – Abbiamo una gran voglia di vendicare Facio e il Colonnello! Ma non vogliamo sporcarci col tuo sangue. Vogliamo che venga fatta giustizia… Ti offriamo una possibilità. Siamo disposti ad ammettere che hai solo eseguito degli ordini, ma se vuoi essere creduto devi raccontarci da chi venivano. Parla e ti lasceremo andare!

    – Ho già detto tutto quello che sapevo al Partito! Lasciatemi!

    – Avrai raccontato delle balle anche a loro. Ma stai attento! Loro non si lasciano prendere per i fondelli da uno come te. Quella è gente che non scherza. Ti diamo un’ultima possibilità di riabilitarti raccontando la verità. Potresti cominciare dicendo i nomi di tutti coloro che si trovavano a Casa Lorenzelli, prima dell’arrivo di Laura.

    – Fatevelo dire da B.

    – B. aveva molta fretta d’andarsene. Non voleva fare la fine che avete fatto fare a Facio, ed è saltato dalla finestra. Ci ha già detto come si sono svolti i fatti e prima di noi ha informato il Comando Alleato. Ma anche lui non sa tutto, specie le questioni politiche.

    – Come avete fatto a convincere Facio a cadere in trappola?

    – Abbiamo mandato Luciano!

    All’improvviso Mirko, stanco della piega che stava prendendo l’interrogatorio, aveva impugnato la pistola e l’aveva puntata alla fronte di Salvatore. L’ex commissario politico del Comando Unico spezzino, già con la bava alla bocca, aveva fatto appello alle forze residue, sfoderando le sue doti di retore autodidatta. Ne venne fuori una tragicomica difesa. In un accavallarsi sconnesso di accuse e nomi venivano coinvolti il capitano Fred, Marcello, Italiano, Luciano, Vittorio, Tullio, Alda. Era una chiamata di correo generalizzata. Un unico nome non era mai stato pronunciato. Quello più atteso. Mirko, dopo aver ascoltato in silenzio gli sproloqui di Salvatore, aveva lasciato tracimare la rabbia gridandogli in faccia:

    – Ora basta! Voglio sentirti parlare di Nello! Del compagno Nello!

    Salvatore si era improvvisamente zittito. Un silenzio, carico di tensione, aveva invaso il luogo. Come se anche gli elementi della natura fossero rimasti impressionati dalla richiesta. Non un frinire di cicale, non un canto d’uccello, non un soffio di brezza. Solo la lampadina, appesa al soffitto del portico, mossa forse dalla voce di Mirko, oscillava emettendo un sinistro tintinnio. Salvatore aveva cominciato a tossire come se un boccone gli fosse andato di traverso, il colore del viso era passato dal paonazzo al verdognolo, per ridiventare bianco come un lenzuolo, poi aveva cominciato a tremare come se avesse le convulsioni.

    Mirko allora, mosso dal disgusto, per far cessare quella orribile visione aveva scarrellato la Browning producendo il tipico clak! clak!

    Ma fu una mossa sbagliata perché Salvatore, che aveva esperienza di queste cose, sapeva che chi minaccia non spara e lentamente riacquistò lucidità e coraggio.

    – Non conosco il suo vero nome. So che è un pezzo grosso del partito, molto più in alto di Marcello. Anche Lett voleva verificare la sua vera identità per denunciarlo al controspionaggio inglese e ha mandato Laura a Imola.

    – Non ti servirà a nulla coprirlo, ti conviene piuttosto parlare. Tanto se non ti ammazziamo noi per farti parlare ti ammazzano loro per farti tacere! Dicci se l’hai conosciuto nell’emigrazione o al confino.

    – Prima d’incontrarlo a Pontremoli non l’avevo mai visto! Mostrandomi le credenziali del Partito si è presentato con il nome di Nello Scotti. E non lo conosco tuttora! Chiedetelo all’Avvocato, lui può testimoniare.

    – Stai bluffando.

    – No, lui stesso ve lo confermerà.

    – Ma l’Avvocato non è qua e domani sarà troppo tardi.

    – No l’Avvocato è in paese, l’ho visto questa mattina in piazza, andava a pranzo dal Dottore. Cercàtelo a casa sua.

    A questo punto Mirko ebbe un attimo di esitazione, poi esclamò:

    – D’accordo, ti concediamo un avvocato per la difesa! Mori vai tu a cercarlo a casa del Dottore e se c’è portalo qui subito. Digli di fare in fretta, perché se tarda può darsi che si perda la sentenza.

    La rabbia controllata di Mirko e degli altri ex compagni di Facio non si era attenuata, anzi sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro ponendo termine alla farsa. Era trascorsa non più di un’ora quando i tre ex partigiani del Picelli sentirono in lontananza il rombo dell’auto con a bordo l’Avvocato.

    L’Avvocato scende dall’auto e subito si precipita con la sua atletica baldanza verso Mirko con l’intenzione di disarmarlo, ma è immediatamente bloccato da C. che gli punta lo Sten al petto.

    – Siete impazziti, volete forse rovinarvi per questo individuo.

    – Sei stato convocato come testimone. Salvatore dice di non conoscere il vero nome di Nello, tu cosa ci puoi dire?

    – Non posso e non voglio garantire sulla buonafede di Salvatore. So che Nello era un inviato del PCI, molto più in alto di Marcello al quale dava ordini. È stato presente in zona saltuariamente già da marzo. Usava i documenti contraffatti di un certo Colombati, un medico bolognese, che prima di mettersi al sicuro glieli aveva consegnati. Era accompagnato dalla moglie. Riforniva di farmaci i partigiani. A Pontremoli era in contatto con uno dei vostri, Vassallo. Potete chiedere a lui. Si muoveva sempre sotto la protezione dei GAP. L’ho intravvisto un paio di volte, durante le trattative per la costituzione della Divisione Liguria. Prima di partecipare all’incontro con Lett aveva visto in separata sede Balbi e Miro del Comando ligure. Con loro aveva deciso la separazione della IV Zona spezzina da quella parmense, con la formula del Comando di Divisione. Dopo il rastrellamento del 3 agosto si è dileguato e non mi risulta si sia più fatto vedere. Evidentemente la sua missione era conclusa!

    I quattro ex partigiani del Picelli lo ascoltavano senza proferire parola.

    – Dovete stare calmi e fermi. Il Governo Militare Alleato si occuperà del caso. Ufficialmente non possiamo sollevare polveroni. Non è utile mostrarci divisi di fronte agli Alleati. I panni sporchi vanno lavati in casa. Tu Mirko non commettere fesserie. Non credo che lo Special Force approverebbe quello che stai facendo. L’OSS certamente no. Questa storia ha rappresentato il momento di massima tensione tra gli Alleati, poi le questioni si sono appianate. E al momento nessuno ha voglia di rinvangare le vecchie faccende.

    – Vuoi dire che questo individuo dobbiamo rimandarlo a casa, dimenticare il male che ha fatto ai nostri compagni e alla nostra causa? Per cosa abbiamo combattuto? Per consegnare l’Italia in mano a personaggi di tale fatta?

    – La guerra è finita e il Governo Militare Alleato non permetterà l’ulteriore protrarsi di vendette individuali o di rese dei conti. Tullio comunque è sulla lista nera e gli conviene restare alla macchia. Ma anche così non riuscirà a impedire che venga fatta giustizia. Ormai i banditi come lui hanno i giorni contati. Saremo noi stessi, investiti delle funzioni di polizia, a consegnarli alla giustizia dei tribunali, quelli veri non quelli del popolo. Per quanto riguarda Salvatore vi consiglio di non compromettervi con un atto di giustizia sommaria. Facio apparteneva alla Garibaldi Parmense. Il tribunale competente per processare i suoi fucilatori è quello di Parma. Ora che lo avete preso consegnatelo a quella Corte d’Assise Straordinaria. Se a Parma non sapranno fare giustizia vedremo poi il da farsi.

    – Questo è dunque il tuo pensiero?

    – Sì! è il mio pensiero ma anche quello del Governo Militare Alleato. Conosco troppo bene Gordon per dubitarne.

    – Questo traditore non può farla franca, noi abbiamo giurato vendetta sulla tomba di Facio. Salvatore deve pagare per quello che ha fatto. Se lo lasciamo libero troverà qualche valido appoggio tra i politicanti di mestiere e andrà a occupare una poltrona di responsabilità, mentre chi ha veramente combattuto contro i Nazifascisti finirà a mendicare un pezzo di pane o dovrà spezzarsi la schiena nell’emigrazione. Portiamolo da Laura! Sarà lei a decidere se dobbiamo giustiziarlo subito o affidarci al verdetto di Parma.¹


    1 La ricostruzione dei dialoghi svoltisi durante il sequestro di Salvatore è frutto di fantasia. Reali invece sono i riferimenti a persone e fatti citati nel dialogo.

    GLI UOMINI GIUSTI

    24 gennaio 1944. Un tipo magro di bassa statura dalla carnagione olivastra e gli occhi infossati, con un abito un po’ frusto ma dignitoso, attende sulla banchina della stazione di Parma l’arrivo del treno per Borgo Val di Taro. Quest’uomo dall’aspetto provato è Alceste Bertoli (Piero), un irriducibile antifascista che ha pagato a caro prezzo la sua ferrea determinazione. Ha sulle spalle una condanna alla reclusione di quattro anni pronunciata dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato e un periodo di cinque anni di confino a Ponza.² Ufficialmente fa l’operaio presso l’officina meccanica Barbieri di Parma ma lo stipendio glielo passa il partito, che lo vuole impegnato a tempo pieno nell’organizzazione della lotta partigiana. In novembre, incaricato dal segretario della Federazione provinciale del PCI Dante Gorreri, si era recato a Osacca, un remoto villaggio della montagna parmense. Aiutato da una quindicina di giovani del luogo avvicina i militari sbandati di passaggio per farli entrare nella propria formazione partigiana o alla peggio farsi consegnare le armi. Non è il primo tentativo dei comunisti parmensi di avviare la lotta armata in montagna. Il 23 settembre 1943 si era svolto un convegno clandestino a Chiesabianca, nel Piacentino, per porre le basi della guerriglia sulle montagne del Nord Emilia. Vi avevano preso parte comunisti parmensi, piacentini e diversi ufficiali di varia nazionalità ex prigionieri di guerra. Solo uno di essi, un jugoslavo ricordato col nome di Francesco era disposto ad iniziare subito la lotta. In località Settesorelle furono radunati sotto il suo comando un centinaio di ex prigionieri di varie nazionalità. Ma dopo un mese d’inattività si dovette prendere atto del sostanziale fallimento dell’esperimento. I dirigenti comunisti compresero allora che la condizione essenziale per dare vita a una lotta popolare armata sull’Appennino era la sconfitta dell’attendismo. Un atteggiamento mentale che trae origine da un’errata impostazione politica. A nulla serve una preparazione militare se questa porta all’inattività. La guerra partigiana ha le proprie regole riassumibili nel detto la guerriglia alimenta la guerriglia. L’istruzione dei combattenti deve avvenire direttamente sul campo durante l’azione. Ora questa lezione Bertoli l’aveva appresa, ma per realizzare questo nuovo programma bisognava trovare gli uomini giusti. Un mese dopo il convegno di Chiesabianca, nello stesso rustico fienile, il maestro Franco Saccani (Rodolfo), responsabile del Comitato Militare del PCI nella provincia di Parma, s’incontrò col modenese Fermo Ognibene (Alberto) e con alcuni Jugoslavi ancora nascosti nella zona. «Il baffuto, sorridente Ognibene disse che aveva pronto un gruppo di uomini decisi a incominciare subito. Alcuni giorni dopo Virginio Barbieri mandò armi e danaro.»³ Fermo Ognibene, con gli uomini al suo sèguito, raggiunse la banda di Bertoli a Osacca e ne assunse il comando. Il gruppo unificato prese il nome di distaccamento Guido Picelli. Il primo della Brigata Garibaldi Nord Emilia. Alceste ne divenne il Commissario Politico. L’impresa che si stava compiendo non era facile da diversi punti di vista. Problemi logistici, di rifornimento di ogni tipo e non ultimo la capacità di mantenere il controllo di una massa eterogenea e non politicizzata di ex militari sbandati e giovani renitenti alla leva. Come si sarebbero comportati al momento giusto? Avrebbero combattuto o sarebbero fuggiti dopo aver abbandonato le armi nelle mani del nemico? O peggio ancora, di fronte alle difficoltà sarebbero rimasti fedeli o avrebbero tradito? Erano tutti interrogativi ai quali solo il tempo avrebbe dato una risposta. Era anche fuori dubbio che, per guidare i primi ribelli sulla retta via della lotta patriottica evitando possibili scivolate nel banditismo, ci voleva il pugno di ferro e una certa dose di ferocia. Qualità quest’ultima che il vecchio Bertoli non aveva. Occorrevano giovani capaci di usare la rivoltella contro i nemici e a volte contro gli stessi partigiani se questi non rispettavano la disciplina. Così la dura logica della lotta armata popolare fece le proprie vittime, anche all’interno delle formazioni partigiane parmensi. In questa fase della Resistenza Italiana, definita da alcuni storici ribellistica, decine di spavaldi capibanda, che volevano imporsi senza aver maturato un’adeguata coscienza politica, fecero l’amara esperienza di un mondo non governato dalla legge. Caddero sia i buoni sia i cattivi, in questa specie di Far West dove contavano molto la spregiudicatezza, l’astuzia e la velocità nell’estrarre la pistola. La legge che si voleva abbattere era quella fascista, ma chi aveva là maturità e la forza di imporne una nuova, basata su principi di libertà e giustizia? Le formazioni nate in questo periodo, dall’autunno 1943 alla primavera 1944, che furono in grado di sopravvivere, ebbero anche la capacità di trasformarsi, attraverso scissioni e unificazioni, in un vero e proprio esercito popolare, fondamenta dell’Italia democratica. Furono quelle in cui uomini forti e determinati, come Fermo Ognibene, seppero prendere decisioni drastiche. Gli elementi criminali, devianti o semplicemente incapaci di comprendere la situazione furono espulsi o eliminati.⁴ Si venne così a creare una disciplina e un potere nuovo. La demarcazione tra banditi e patrioti tracciata col sangue divenne immediatamente riconoscibile. Anche il primo distaccamento partigiano dei comunisti parmensi, il Picelli, quello appunto fondato da Bertoli e Ognibene, dovette apprendere la disciplina dagli errori di alcuni suoi membri che vennero giustiziati. La lezione servì e la vigilia di Natale ad Osacca quando i ragazzi di Alceste vennero assaliti da un centinaio di fascisti diedero la dimostrazione di ciò che erano divenuti. Non una accozzaglia di banditi, come credevano i fascisti, ma la prima formazione partigiana del parmense. Giovani capaci di dare la vita per affermare i valori della libertà, della giustizia sociale e della democrazia, che sono alla base della Costituzione Repubblicana. I ragazzi di Osacca erano stati avvertiti dagli abitanti della frazione dell’arrivo dei fascisti. Potevano ritirarsi senza disonore, adducendo svariate valide motivazioni. Decisero invece di combattere scrivendo la prima pagina della Resistenza armata nel parmense. Dopo una sparatoria, nella quale i ribelli avevano dato prova di tenacia, i fascisti che non volevano rischiare la pelle, proprio il giorno di Natale, quando sulla tavola imbandita fumano gli anolini in brodo, si erano ritirati con qualche lieve ferito abbandonando una mitragliatrice. Era stato il primo scontro frontale di una banda partigiana con i repubblichini nella provincia di Parma. Alceste aveva sùbito inviato tramite staffetta la notizia a Gorreri alla trattoria dei Cavalli sulla strada per Fornovo. Poi era stata diffusa con dei volantini in tutta la città e la Gazzetta di Parma era stata costretta a dare la propria versione. Da allora le trasferte ferroviarie di Alceste avrebbero dovuto risultare più che mai sospette alla polizia che lo conosceva come un sovversivo incallito. Ma con l’occupazione tedesca qualcosa era cambiato anche negli apparati dello Stato e la polizia non era più così zelante, fingeva di non vedere o si dimenticava di controllare. I poliziotti onesti erano certamente disorientati, nella nuova situazione della Repubblica Sociale, su quale partito si dovesse prendere per essere fedeli alla Patria. Ma torniamo al Bertoli che attende il treno alla stazione di Parma. Distante da lui, mescolato al gruppo di viaggiatori in attesa del treno per Borgo Val di Taro, vi è un giovane dall’età indefinibile, magro ma robusto, coi capelli biondi freschi di barbiere. La sua parlata rivela un accento francese e nonostante sul volto e sulle mani porti i segni del lavoro e di una precoce maturazione il suo lessico è quello di un intellettuale. Si tratta di una nuova recluta per il distaccamento. Ma questa volta non è uno dei tanti accompagnati da Bertoli. Bensì uno dei più valorosi comandanti partigiani della Resistenza italiana. Il biondino detto il Francese alla vigilia della partenza dalla bassa mantovana per la montagna parmense si era recato nella chiesa di Cogozzo. Stava per incominciare una nuova vita e doveva essere ribattezzato dai compagni con un nuovo nome. Il 18 gennaio nella diocesi di Cremona, di cui Cogozzo è parte, si celebra un santo dal nome strano che significa fato, destìno. Un diminutivo di Bonifacio privato dell’auspicio bonus. Il nome giusto per rappresentare il suo stato d’animo in quel momento. Da quel giorno Dante Castellucci fu per sempre Facio. Dante è un veterano di guerra. Era nato il 6 agosto 1920 a Sant’Agata d’Ésaro in provincia di Cosenza. Quando la sua famiglia si trasferisce per lavoro nella Regione mineraria della Francia Nord-Pas-de-Calais ha poco più di due anni. Vi trascorre tutta l’infanzia e parte della giovinezza. Dante ama la Francia, vi compie la sua formazione. Alla scuola pubblica prende un diploma di secondaria inferiore. Ma il suo entusiasmo per la lettura e lo studio lo conduce ben oltre. Si cimenta nella scrittura e nella poesia. Dante ha estro innato per le arti. Suona stupendamente il violino. Nella pittura esplode il suo talento. A Cà del Diavolo, il casone popolare di Fenain dove risiede, dipinge muri e pareti. In Francia vive le prime esperienze amorose. Con la francese Marguerite vagheggia una vita felice. Ma nel 1939, alla vigilia della guerra, le cose divengono più difficili per gli Italiani e la famiglia è costretta a tornare al paese d’origine. Dante vede la guerra come una immane catastrofe. «Chi sa che inferno di fuoco e di sangue divamperà fra pochi giorni, poche ore, sull’Europa.» Il 14 marzo 1940, richiamato per svolgere il servizio militare, si appresta a partecipare alle operazioni contro la Francia, da lui considerata una seconda patria. Entra in crisi di coscienza. Come soldato d’artiglieria ha in animo di opporre un rifiuto all’ordine d’azionare il proprio pezzo contro la nazione che lo aveva accolto. Si confessa con l’amico Cozzitorto che gli rimprovera questa intenzione. Dante gli risponde amareggiato. «Mi dici che sono soldato d’Italia e che abbandonare il pezzo è infamia, un atto che ti sarebbe stato un’offesa e fu un’offesa alla prima lettura. Poi ho pensato che eri stato testimonio delle mie debolezze, delle mie rivolte, della mia disperazione e ti ho capito. Ma non dimenticare ormai che son soldato d’Italia, che porto una divisa sacra, come l’hanno portata i nostri padri, quelli che sono morti per un’idea; che il giuramento mi ha legato per sempre. A un uomo degno di essere chiamato uomo non gli viene neanche la pensata di fare quello che dici. Voglio essere forte e lo sarò.»⁵ L’11 giugno 1940 l’Italia entra in guerra contro la Francia e il reparto di Dante partecipa alle operazioni al Colle della Maddalena. L’8 settembre 1940, dopo la breve avventura francese, il suo reparto si trasferisce ad Acqui Terme in provincia di Alessandria. In Calabria torna solo due volte. La prima per malattia con una licenza di 60 giorni (dal 18 dicembre 1940 al 22 febbraio 1941) e la seconda per soli 15 giorni. Durante queste pause della vita militare, Dante fa amicizia con un ragazzo della sua età, Otello Sarzi Madidini. Un tipo spavaldo, che per i suoi comportamenti ribelli e per le idee dissidenti era stato condannato a 3 anni di confino nel paese di Dante. Qui aveva continuato imperturbabile nel proprio ribellismo giovanile, mietendo molti consensi tra le giovani santagatési. Scontata la condanna era ritornato presso la famiglia, una compagnia di teatranti ambulanti, che nel ’43 allestiva spettacoli tra Parma e Reggio Emilia. Poi vi fu per Dante la campagna di Russia. Venne inquadrato nel CXXIII Gruppo Obici Pesanti Campàli da 149/13 del 2º Raggruppamento d’Artiglieria del II Corpo d’Armata dell’ARMIR. Partecipa alle vicende del proprio reparto dal 22 giugno al 12 dicembre 1942. Nei giorni in cui l’Armata Rossa inizia la 2ª offensiva sul Don è colpito da una grave forma di otite all’orecchio sinistro, causata dal freddo intenso dell’inverno russo. È prima assistito nell’ospedale da campo e poi rimpatriato per essere ricoverato all’Ospedale Militare di Udine, dove giunge il 23 dicembre. Il 9 gennaio 1943 è dimesso con una licenza di 60 giorni per cure. Seguono altre due proroghe della stessa durata concesse dall’Ospedale Militare di Napoli per convalescenza. Queste due licenze Dante non le trascorre in Calabria⁶. Ottenuta la proroga del 9 marzo Dante non pensa affatto di ritornare a casa. Prende un treno per il Nord e raggiunge l’amico Otello in Emilia. Non sappiamo bene con quali progetti nella testa, ma l’incontro tra i due ha favorito la maturazione di qualcosa d’importante. Questa cosa ha certamente a che vedere con un impulso vitale e con un moto di ribellione giovanile. Aveva cominciato a manifestarsi allo stato embrionale nelle trincee del Don, poi gli era cresciuta dentro in modo incoercibile. Ciò che emerge piano piano non è una visione dottrinaria (comunista, socialista o anarchica), ma la consapevolezza, di fronte al disastro della guerra, della necessità di cambiamenti profondi in se stessi e nella società come premessa indispensabile per la salvezza dell’Italia. Nelle lettere dal fronte all’amico Cozzitorto scrive della sacralità della divisa che indossa ed in lui è certamente forte l’amore verso la Patria. Da questo modo di sentire all’impegno personale nella dura e incerta battaglia per la sconfitta del fascismo e la cacciata dei tedeschi invasori il passo è breve. Il Dante che passeggia sulla banchina della stazione ferroviaria di Parma ha già abbandonato da tempo la tavolozza dei colori e il violino per impugnare le armi. Ha già vissuto un’importante vicenda partigiana in provincia di Reggio Emilia come comandante del Gruppo Cervi, che contribuisce a costituire fin dal 22 giugno 1943.⁷ Questi antesignani, pur operando in sintonia con le direttive del Triangolo Sportivo del Nord Emilia, ossia un nucleo di comando della lotta partigiana costituito in prevalenza dal PCI, avevano incontrato gravi difficoltà di rapporto col CLNP di Reggio Emilia. Erano in tutto 12 partigiani, in maggioranza stranieri ex prigionieri di guerra. Partiti da casa Cervi intorno al 3 ottobre (20 giorni prima dell’arrivo nel parmense di Fermo Ognibene) avevano girovagato per l’Appennino reggiano compiendo varie azioni, prima di essere persuasi dai delegati del Comitato Militare Reggiano del PCI Osvaldo Poppi e Gismondo Veroni a rientrare in pianura. Subito dopo la cattura assieme a quasi tutto il gruppo nella casa della famiglia Cervi ai Campi Rossi di Campegine, avvenuta nella notte del 25 novembre 1943, Dante con tre britannici era riuscito a fuggire. Immediatamente aveva iniziato a organizzare il colpo per liberare i compagni arrestati. In questo lavoro era stato aiutato da alcuni membri del gruppo rimasti a piede libero, da Lucia Sarzi e dai comunisti di Parma. Il tentativo di liberazione, che aveva richiesto una complessa e sapiente preparazione, fu attuato da Dante Castellucci e da altri tre partigiani il giorno 24 dicembre (vigilia di Natale) 1943⁸. Ma gli agenti repubblicani che presidiavano il carcere erano stati avvertiti da una spia e l’operazione si concluse con l’arresto dei quattro partigiani penetrati nel carcere di Reggio Emilia. Questa volta erano stati presi con le armi in pugno nel corso di un’azione di guerra non convenzionale, pertanto furono condotti nella Cittadella di Parma e condannati a morte per direttissima da un tribunale militare tedesco. La fucilazione doveva avvenire all’alba del giorno dopo. Durante la notte del 25 dicembre 1943 Dante, con l’aiuto di altri prigionieri, fugge dalla Cittadella. Non abbiamo notizie della sorte dei tre compagni inglesi, che quasi certamente dovettero affrontare la fucilazione. Dopo la fuga Dante si reca ai Campi Rossi dalla famiglia che lo aveva accolto come un figlio per vari mesi. Incontra il cugino dei Cervi Massimo, le donne di casa e i bambini. Le sue condizioni sono pietose, i vestiti strappati, braccia e gambe profondamente incise dal filo spinato nella discesa dal muro della fortezza farnesiana. Non si può compromettere ulteriormente questa disgraziata famiglia. I comunisti di Campegine lo ricoverano in una casa di latitanza. Qui lo interroga Ottavo Morgotti del Comando GAP. Il giorno dopo cerca invano di rintracciare i compagni che con lui avevano partecipato al tentativo di liberazione dei detenuti. Ma a Reggio Emilia non tira un’aria buona, gli ex compagni, intimoriti dalle minacce e dalle calunnie messe in giro ad arte da alcuni elementi dell’antifascismo reggiano, lo evitano e i suoi tentativi di ricostruire quello che era stato il primo distaccamento partigiano di quella provincia sono frustrati. Il 28 dicembre Aldo Cervi con i sei fratelli e Primo Camurri sono fucilati nel poligono di tiro di Reggio Emilia. È una catastrofe, ma Dante non si piega. Si reca a Parma dove conosce da tempo alcuni recapiti clandestini del movimento partigiano. Gli sono noti per precedenti incontri organizzati da Lucia Sarzi. Anche lei, colpita da interdizione, è stata costretta ad abbandonare Reggio Emilia. Nell’Oltretorrente di Parma, antico covo di ribelli, in Borgo Maròdolo, una strada di antiche case con i muri scrostàti, sotto copertura di un laboratorio per la riparazione di biciclette vi è la sede del Triangolo sportivo (Comando militare) del Nord Emilia. Qui Dante incontra, attorniato da alcuni collaboratori, Luigi Porcari⁹, il capo dell’organizzazione clandestina. Gli narra i fatti seguiti alla sua cattura a casa Cervi. Porcari non può fare altro che costatare la veridicità del racconto di Dante. Dotato di fonti informative dirette è già stato informato su quasi tutto. Il suo Comando aveva approvato è sostenuto l’azione per liberare i Cervi. Sa anche che il CLN di Reggio Emilia l’ha condannato a morte. Una decisione sbrigativa, dettata dalla paura, per troncare con un atto draconiano l’attività di un combattente dotato di troppa intelligenza per essere un semplice esecutore. Ma la rettitudine, buonafede e statura morale del giovane militare, che Porcari chiama capitano Facio, scuotono la dura scorza dell’anziano Commissario. Non si tratta di sentimentalismo. Il capo della Resistenza armata nel Nord Emilia è un freddo ragionatore forgiato da anni e anni d’attività cospirativa. La Lotta partigiana per svilupparsi ha un estremo bisogno di uomini coraggiosi dello stampo di Dante Castellucci e non vuole privarsi di un elemento del genere per paure mascherate da cautela cospirativa. Il commissario politico del Triangolo prende una decisione che potrebbe esporlo a severe critiche da parte del CLN. Non convalida la decisione presa dai compagni di Reggio Emilia. La ritiene fondata su fatti e valutazioni false. Il frutto di una impostazione politica della lotta armata attendista. Capiremo solo in seguito quanto l’onesto Porcari avesse visto giusto anche su questo. Rimaneva la necessità di dare comunque una risposta ai compagni di Reggio Emilia. Il vecchio e scaltro militante antifascista ritiene di dover fornire una prova dell’onestà di Castellucci. Una prova al contempo dì antifascismo e di obbedienza. Qualcuno, tra i presenti vi è anche il reggiano Alcide Leonardi¹⁰, pensa che questa prova possa consistere in un’azione di stampo gappista. Porcari non è così ingenuo da pensare che questo espediente possa dimostrare alcunché. Vale molto di più il suo intuito e la sua capacità di valutare gli uomini. Ma lo ritiene sufficiente ad annullare un’accusa di tradimento totalmente infondata. A una frottola è sufficiente opporre un’altra frottola. L’obiettivo che gli viene proposto di colpire è generico, utile solo a fare sentire la presenza partigiana in città. Dante capisce e accetta. Si narra che al momento di uscire dal laboratorio gli fu consegnata una pistola carica col silenziatore. La estrasse Leonardi da sotto la giacca dietro la schiena con movimento furtivo dell’avambraccio, come per non essere visto da testimoni. «Facio – dirà poi il comandante dei GAP del Nord Emilia – meritava il rispetto che si deve ai valorosi».¹¹ Castellucci è affidato a un gappista appartenente ai vigili del fuoco di cui non ci è noto il nome. I due escono in bicicletta dal laboratorio per dirigersi verso la zona della città dove hanno sede i comandi tedeschi. Nei pressi di Piazzale Marsala individuano due militari appiedati che procedono verso la sede della Feldgendarmeria, Villa Medioli sull’altra sponda del torrente¹². Dopo uno scambio di occhiate Dante decide d’agire. L’agguato avviene poco prima dell’imbocco del Ponte Umberto I (ora Ponte Italia). Mentre il gappista pedala lentamente tenendosi a distanza per meglio controllare la situazione Dante procede verso i due militari. Prima di affiancarli estrae la pistola e fa fuoco: ne colpisce uno che si accascia al suolo, l’altro fugge verso il Comando. Il colpo lo ha solo tramortito. Dante scende dalla bicicletta, lo spoglia del cinturone con la Mauser¹³, del cappello, e della giacca. Il suo scopo non è uccidere ma procurare armi per la lotta. Questo è lo stile dell’ex comandante del Gruppo Cervi. Anche la divisa potrà tornare utile in futuro e rappresenta la prova materiale del compimento dell’azione¹⁴. È quanto basta a Porcari per fornire una giustificazione al CLNP di Reggio Emilia per avere sospeso l’eliminazione del Castellucci. Nei giorni seguenti Dante, con l’aiuto del Triangolo sportivo e di Lucia Sarzi, si nasconde nel Mantovano a Cogozzo, dove continua a operare clandestinamente anche Azio Saccani, un altro membro della formazione Cervi. A ospitarlo nella propria casa è Angelo Mori, un perseguitato politico il cui figlio Terenzio a breve diventerà partigiano nel distaccamento Picelli¹⁵. Ha scritto Terenzio Mori¹⁶: «In quel periodo mio padre era collegato al CLN di Parma e con quello di Reggio tramite Lucia Sarzi. […] Castellucci […] fuggì dal carcere e si rifugiò a Cogozzo dove rimase in attesa che mio padre, dietro pressioni della Lucia, trovasse il modo di inviarlo sulle montagne del Parmense. Il CLN di Reggio, contrariamente a quanto chiedeva la Lucia, pretendeva la consegna di Facio per fucilarlo; l’insieme delle circostanze e in particolare l’incredibile fuga destavano il sospetto che fosse una spia.» Ma fortunatamente Luigi Porcari prese la decisione giusta: «Mandammo cioè Facio in montagna, al distaccamento Picelli, facendolo accompagnare, anzi scortare, da un nostro vecchio compagno, Alceste Bertoli. Al compagno Bertoli demmo la disposizione tassativa, che doveva essere trasmessa al compagno Fermo Ognibene comandante del distaccamento, che il Facio fosse tenuto sotto stretta sorveglianza e fucilato al primo movimento sospetto. Naturalmente, al Facio non avevamo fatto alcun cenno della comunicazione di Reggio e dei sospetti che gravavano su di lui. Qualcosa riuscì però a capire, tanto che durante il tragitto da Parma a [...] Borgotaro […] ed ancor più dopo i primi giorni di permanenza al distaccamento […] si lamentò con il Bertoli dicendo che i compagni di Parma lo giudicavano male, forse per avere avuto cattive e false informazioni, e che lui avrebbe presto dimostrato che era invece degno di tutta la nostra fiducia. In realtà Facio mantenne la promessa, così che la nostra decisione apparve essere stata saggia.»¹⁷ Gli uomini giusti furono trovati e la resistenza armata in montagna ebbe inizio.


    2 Roberto Lasagni, Dizionario biografico del parmigiani. – Parma: PPS Editrice, 1999 – p.452.

    3 Dante Gorreri, Parma ’43. Un popolo in armi per conquistarsi la libertà. – Parma: Step, 1975 - p. 220.

    4 AS-PR. Fondo Casellario politico. Relazione della Questura in fascicolo Luigi Cortesi.

    5 Lettera di Dante Castellucci da Acqui Terme a Pietro Cozzitorto, 22 maggio 1940 citata in Luca Madrignani , Il caso Facio. Eroi e traditori della Resistenza. Bologna il Mulino, 2014.

    6 Il 24 aprile 1943 scrive una lettera alla madre da Campogalliano. Nel frattempo erano intercorsi altri scambi di lettere e pacchi con la famiglia.

    7 Si veda la Lettera apocrifa Ai compagni di Parma in AISREC-PR.

    8 Per un approfondimento Massimo Salsi, Le due fughe. L’indicibile storia di Dante Castellucci a Reggio Emilia. 2018 - Formato ebook in Amazon Libri.

    9 Porcari, Così si resisteva. – Parma: Guanda, 1974 – pp. 201-204.

    10 Alcide Leonardi (Luigi D’Alberto) era in quel periodo uno dei tre membri del vertice partigiano che sovrintendeva alla lotta nelle province di Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Cremona (Triangolo Sportivo Nord Emilia) e comandante dei GAP.

    11 Da un colloquio con Paolo Tomasi che aveva appreso l’episodio direttamente da Alcide Leonardi, col quale era stato in contatto ai tempi della Resistenza.

    12 All’angolo tra viale Rustici e v.le Umberto I (ora v.le Berenini). Vedi Guido Pisi, storia e doc 5 p.66.

    13 Si tratta di una pistola Mauser C96 calibro 9 vedi testimonianza Vittorino Marini in ISREPR.

    14 La mancata citazione dell’episodio tra i fatti più salienti nella relazione periodica della Militärkommandantur 1008 di Parma può significare che il militare tedesco se la sia cavata con una ferita non mortale. D’altro canto è accertato che la Mauser C96 di Facio sia stata presa in quest’occasione.

    15 Terenzio Mori, Quattordici mesi sull’Appennino in Questa gente e la Resistenza. Viadana, Casalmaggiore, Bozzolo. Documenti, testimonianze dal 1943 al 1945. A cura di Adolfo Ghinizzelli. – Viadana, 1986.

    16 Terenzio Mori, cit.

    17 Luigi Porcari, Così si resisteva, cit. p.203.

    TEMPO DI LUPI

    Dopo i fatti di Osacca era diventato difficile trovare alloggio presso altre famiglie della Val Noveglia. Bertoli e i suoi ragazzi ricorrono parecchie volte al bivacco. Vagano da una località all’altra dell’Ovest Cisa per varie settimane¹⁸. Sostano a Caboara e a Sambuceto nel comune di Compiàno, a Cavignaga e Setterone nel Bedoniese. Infine si stabiliscono a Lago Pavè, una radura nel bosco sopra Buzzò, tra la Val Taròdine e la Val Gotra. Qui inizia l’avventura di Facio nel Picelli. Tutte le vie della montagna parmense sono ricoperte di neve. L’ambiente montano in cui operano i primi partigiani è diverso da quello odierno. La viabilità molto ridotta. Poche le strade, strette e non asfaltate. Tutti gli altri percorsi sono carraie, mulattiere o sentieri. Pochi i ribelli e male armati. Sono equipaggiati con le armi e munizioni abbandonate dai soldati del Regio Esercito in fuga l’8 settembre, opportunamente accantonate dai primi volenterosi. La loro sopravvivenza dipende non tanto dal possesso di armi ma dalla distanza dei loro rifugi dai centri abitati, dalla difficoltà per le forze dell’ordine di dar loro la caccia su impervi sentieri e nelle inestricabili foreste appenniniche. Le prime basi partigiane sono quasi sempre collocate nel cuore della selva. Come ricovero utilizzano capanne di legno o di pietra,

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