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La vestale
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E-book250 pagine3 ore

La vestale

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Info su questo ebook

Guardiane del Fuoco Sacro del tempio di Vesta, le sacerdotesse Vestali hanno un ruolo importante nell'immaginario collettivo dell'Antica Roma. Basti ricordare che Rea Silvia, madre di Romolo e Remo, era anche lei sacerdotessa del tempio. Figure sacre e allo stesso tempo tragiche, costrette a rinunce oltremodo gravose e a regole severissime, la vita delle Vestali ha offerto negli anni innumerevoli spunti letterari. "La vestale", scritto sul tramonto del diciannovesimo secolo, si sofferma proprio sulla dimensione drammatica della vita di una di queste sacerdotesse. Andando oltre la concezione dorata di una Roma perfetta, la protagonista di questo romanzo si farà carico e portavoce di un'esistenza complicata e profondamente umana.-
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2022
ISBN9788728309780
La vestale

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    La vestale - A. Klitsche de la Grange

    La vestale

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1865, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728309780

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    I

    L’ANFITEATRO FLAVIO

    Sei bella, o Roma, bella di memorie grandiose di santi! Aggirandomi in mezzo ai tuoi ruderi la mia immaginazione si slancia nel passato e ti vedo potente regina del mondo stendere ovunque il tuo dominio. Vedo i tuoi eroi versare il sangue per la patria; odo i tuoi eloquenti oratori perorare dal Rostro ¹ le leggi senatorie, ed esclamo mestamente: « Sei bella, o Roma, sei bella e grande ». Poi stanca di ammirare la vastità del tuo impero, il coraggio civile dei tuoi cittadini, il valore dei tuoi guerrieri, volo in un’altra epoca, e ti contemplo meno grande per il dominio della forza, ma grande forse di più. Allora penso ai martiri, scendo nelle catacombe; palpitando d’emozione entro negli anfiteatri, e se il lettore vuol seguire i voli della mia fervida mente lo guiderò là, dove il popolo romano si inebriava alla vista del sangue, che tiepido e fumante innaffiava l’arena.

    Superbo di bellezza architettonica s’innalzava l’Anfiteatro Flavio, circondato dai suoi quattro portici sovrapposti; etrusco il primo, dorico il secondo, ionico il terzo ed il quarto corinzio. Fabbricato per ordine di Vespasiano non fu finito che durante l’impero di Tito; i prigionieri di Gerusalemme vi lavorarono, e le lacrime di quei miseri che nella schiavitù piangevano la patria bagnarono le pietre del colossale edificio.

    Tre ordini ascendenti come una grande scalea circondavano la vasta arena. Destinato quello vicino al suolo alla plebe, grosse funi e spranghe di ferro servivano da parapetto e nello stesso tempo proteggevano gli spettatori dalle belve, che dalle piccole porte praticate nelle pareti sottoposte irrompevano nel circo. Ornati di colonne marmoree si elevavano i gradini del secondo, sulla cui prima fila si vedeva il seggio imperiale, posto più in alto di quelli destinati alle Vestali ed ai Magistrati Curuli. Cinque file erano riservate ai Senatori, le quattordici dopo queste ai cavalieri, le altre poi alla plebe, non essendo sufficiente il prim’ordine per la moltitudine che vi accorreva. Le donne, non appartenenti alla classe patrizia, sedevano nell’ultima fila chiamata cathedra.

    Sul far della sera di una bella giornata del mese di ottobre dell’anno 96 dell’èra cristiana, il popolo romano si dirigeva verso l’Anfiteatro Flavio.

    Fin dal mattino s’erano veduti affissi ai cantoni delle strade di Roma i nomi dei gladiatori che dovevano combattere, e tra gli altri spiccava scritto a caratteri rossi, sopra una tavoletta, quello di Paride il Reziario².

    Il divertimento pubblico era dato a spese dell’Imperatore Domiziano, il quale voleva solennizzare il sesto anniversario della vittoria riportata sui Daci.

    Mentre la folla s’inoltrava schiamazzando, un vecchio dalla barba bianca usciva da un lato del tempio della Concordia, e traversava a stento la moltitudine per dirigersi verso il luogo destinato ai pubblici spettacoli. Appoggiato a un bastone nodoso procedeva ora spinto da un lato ora dall’altro, e, giunto presso l’arco trionfale di Tito, si accostò alle pareti per riposarvi un istante.

    Il suo vestito consisteva in una tunica logora e quasi del tutto nascosta dal mantello che i Romani si ponevano per ripararsi dalla pioggia, che si chiamava penula; ma neanche questo indicava opulenza, poichè era logoro come la tunica. Il pileius, portato dai vecchi o dai malati, gli copriva la testa lasciando vedere i pochi capelli bianchi che gli coronavano la nuca.

    Il suo corpo era curvo, e il volto era solcato da rughe, impresse forse più dai patimenti di una vita amara, che dall’età; però il suo aspetto severo e dignitoso contrastava coi cenci miserabili che lo coprivano, ed il suo sguardo nobile e penetrante esprimeva nel tempo stesso una dolorosa mestizia.

    Appoggiato alle pareti dell’Arco, egli stava immobile, quando fu quasi schiacciato contro il muro dalla folla che si stringeva per far largo a due lettighe, che s’inoltravano l’una dopo l’altra.

    La prima era preceduta dai Littori, le cui aste sporgenti, passavano sulle spalle di otto schiavi numidi ed i lunghi veli uniti con ghirlande di fiori e nastri di lana nascondevano la persona che vi giaceva seduta, anzi quasi coricata.

    La seconda non poteva dirsi propriamente lettiga, perchè era una di quelle sedie portatili, chiamate sella. Coperta ugualmente di veli, non l’ornavano però, nè fiori nè nastri, e le sue spranghe erano portate da quattro schiavi soltanto.

    Il vecchio sospirò, e sollevandosi sulle punte dei piedi, tese nello stesso tempo l’orecchio per udire ciò che diceva la plebe.

    — È Domizia, la sposa di Cesare, — disse un velite.

    — Paride farà oggi fortuna se può divertire Domizia Augusta, — rispose un giovane plebeo.

    Intanto il vecchio seguitava a guardare le lettighe con la più viva attenzione, e quando vide che gli schiavi per riposarsi deponevano il loro peso non lontano dall’Arco, un lampo di gioia gli rischiarò il volto. Drizzando il suo corpo curvo, tentò di sollevare la testa sopra quelle degli altri per vedere la sella.

    Gli occhi di tutti s’appuntavano verso i veli per vedere chi sedeva nell’interno della sedia portatile, ma inutilmente poichè al disotto vi era una stola di tela che impediva alla vista di penetrarvi.

    Ad un tratto i curiosi videro una mano bianca sollevare la stola; i veli si separarono, e si mostrò una donna adagiata con le spalle sui soffici cuscini di porpora, avvolta nelle pieghe abbondanti di una lunga veste chiamata stola. Il suo volto era bello ed il suo sguardo aveva una dolcezza indescrivibile. Sporgendo la testa guardò la folla con curiosità, e nel vedere il vecchio dalla penula, le sue labbra si atteggiarono ad un leggero sorriso, con la destra toccò la fronte quasi volesse porre in ordine una ciocca di capelli bruni, poi la portò al petto fingendo di riordinare le pieghe della stola, l’appoggiò sulla spalla sinistra, in seguito la fermò sulla destra. Nessuno fece attenzione a quei gesti, ma un osservatore attento avrebbe visto che il suo sguardo era fisso sul vecchio il quale contemporaneamente faceva i medesimi segni.

    Pochi momenti dopo i veli si chiusero, e la sedia portatile seguì la lettiga che si metteva di nuovo in cammino.

    — Chi è quella matrona? — chiese il velite.

    — È Flavia Domitilla, nipote di Cesare, — rispose il vecchio, e vedendo che il velite sogghignava con disprezzo, soggiunse: — Domitilla è un angelo di candore.

    — Un angelo? Vorrei sapere a quale specie di animali appartiene un angelo.

    — Gli angeli sono i geni adorati dai seguaci del Nazareno, — prese a dire un uomo della plebe tutto gonfio del suo sapere.

    — Quel vecchio cane era dunque un nazareno; se potessi acciuffarlo! — gridò il velite guardando minaccioso all’intorno.

    — Per Giove! lasciamolo andare. Non si divertirà all’Anfiteatro; per chiusa di spettacolo vedrà una sua compagna divorata dalle belve — disse il plebeo impadronendosi del braccio del velite sul quale si appoggiò.

    Mentre quei due continuavano a parlare, il vecchio giungeva innanzi alla Meta Sudaria e vi si fermò per riposarsi ancora.

    Era questa un informe masso di mediocre grandezza, circondato da un muretto di mattoni. La fontana, simile nella forma alle mete che segnavano le fine delle corse, abbelliva la prospettiva dell’Anfiteatro. Dalla sommità l’acqua cadeva con molteplici balzi sul dorso della pietra, e quindi empiva la vasca circolare sottostante. Non rappresentava soltanto ornamento pubblico, ma serviva pure a rinfrescare i gladiatori quando coperti di sudore e di polvere uscivano dall’arena vicina.

    Appoggiato con un braccio alla vasca di marmo il vecchio guardava attentamente le pareti colossali dell’Anfiteatro mormorando con voce sommessa ed interrotta:

    « Potessi almeno raccogliere le reliquie della vergine che muore per la tua fede, o mio Dio… Povera Floronia, la palma del martirio ti attende! Domitilla mi ha veduto, essa non ignora il motivo che mi spinge qui. Morire a vent’anni, morire dopo aver tanto sofferto è molto crudele: ma perchè la compiango? La mia compassione è colpevole, le porte del cielo si apriranno per riceverla, e gli angeli intonano già l’Osanna ».

    Nel terminare questo monologo i suoi occhi si sollevarono raggianti di fede, poi sospirando si pose in cammino, e mentre stava per oltrepassare uno degli archi dai quali si giungeva alle venti scale che davano accesso ai portici superiori ed alle gradinate per mezzo di vasti ambulacri, si fermò, e mutando parere si diresse verso l’ingresso principale per osservare con curiosità due lettighe che entravano nell’atrio, precedute anche queste dai Littori.

    Le lettighe furono deposte dagli schiavi innanzi ai primi gradini della scala che guidava al secondo ordine, e ne scesero due Vestali.

    La prima era di statura piuttosto piccola e di età avanzata. Il suo volto giallastro risaltava al contatto delle bende bianche che le nascondevano del tutto i capelli. La sua veste candida, stretta alla cintura da una fascia d’oro, era guarnita da un lembo di porpora, un cerchio pure dorato le fermava intorno alla fronte il manto di lana che in larghe pieghe scendeva fino ai piedi. Essa era bruttissima non tanto per i lineamenti, quanto per la forma del volto che somigliava al muso aguzzo della volpe.

    La seconda era giovane, e bella come l’ideale della fantasia di un poeta. Il profilo era regolare, e la piccola bocca sorridendo mostrava una fila di denti bianchi luminosi come perle. Gli occhi grandi e neri avevano un’espressione casta ed ingenua, e le sopracciglia nere facevano spiccare il candore della fronte. Con vivacità giovanile discese dalla lettiga e si inoltrò verso la scala non curandosi della compagna, che con voce stridula le diceva:

    — Cornelia, non affrettarti, io non posso raggiungerti.

    Cornelia volse la testa e sorrise in modo che il suo visino apparve ancora più grazioso, retrocedette, e senza volerlo urtò nel vecchio che s’era avvicinato più del dovuto, e lo fece barcollare.

    Uno dei Littori accorse volendo percuotere il plebeo che aveva osato accostarsi alle sacerdotesse di Vesta, ma la bella vergine, pallida di sdegno, gli fermò il braccio esclamando:

    — Rispetto all’età, sia coperta di porpora o di cenci! — Poi dirigendosi al vecchio disse con voce armoniosa: — Perdonami, te ne prego.

    — Figlia di Faustola, tu non mi hai offeso, e se anche il tuo piede mi avesse calpestato ti avrei benedetta, — rispose l’uomo dalla penula guardando con tenerezza paterna la Vestale, che sorpresa ripigliò:

    — Chi sei tu che hai conosciuto mia madre?

    — Che giova ripetere un nome che ti rimarrebbe sconosciuto? Molti anni sono trascorsi da quando conobbi colei che ti diede vita; ma in suo nome compi oggi un’opera pietosa, salva la poveretta che, giovane come te, sta per essere dilaniata dalle belve.

    — Spiegati, io non ti capisco.

    — Una cristiana è condannata a morte, e la sua dolorosa agonia deve servire di spettacolo ad un popolo crudele. Tu puoi salvarla.

    — T’inganni, o vecchio, le Vestali salvano la vita solo ai condannati ³ che incontrano per la strada, nell’infiteatro solo Cesare può graziare, ma lui odia i nazareni.

    Un gemito doloroso fu la risposta del vecchio, che con un lembo della penula si asciugò gli occhi.

    — Cornelia, presto, non perder tempo — gridò la voce stridula della Vestale, che durante questo dialogo era rimasta ferma sui gradini della scala.

    Cornelia finse di non udir la voce rauca che la chiamava, e dopo aver guardato compassionevolmente il vecchio gli disse con bontà:

    — Tu hai conosciuto mia madre di cui venero la memoria come venero la Dea. Mi sembri povero e sventurato; fa’ in modo che possa incontrarti di nuovo e… — Qui s’interruppe ed arrossì; quel vecchio avvolto in vesti logore aveva un aspetto tanto venerabile ch’essa non osò offrirgli l’elemosina.

    — Ti ringrazio, Cornelia, — rispose il vecchio leggendo nel cuore della giovane; poi continuò: — Noi ci rivedremo, e se l’Onnipotente ascolterà le mie preghiere, i tuoi occhi si apriranno alla luce della verità.

    — Cornelia! — gridò nuovamente la Vestale.

    — Eccomi, Flavia, — rispose la giovane; e mentre s’allontanava, mormorava: chi sarà mai costui che parla un linguaggio incomprensibile?

    — Prega, o Faustola, perchè possa adempiere la promessa che ti feci quando morendo mi raccomandasti tua figlia, — disse il vecchio seguendo con lo sguardo la candida veste della Sacerdotessa; quindi s’incamminò per uscire dall’atrio ed avviarsi in uno degli ambulacri che conducevano alle file destinate alla plebe.

    Innanzi a lui s’inoltravano l’uno appoggiato al braccio dell’altro, due giovani appartenenti all’ordine equestre, ed uno di questi dai capelli ricciuti, il cui volto aveva un’espressione che mutava ad ogni istante, ora divenendo allegro ed ora cupo e melanconico, disse al suo compagno:

    — Publio, è carina la nipote di mio padre? Quanto bramerei vederla senza bende per ammirare i suoi capelli folti.

    — Taci, Sesto, non parlare così di una vergine sacra a Vesta — rispose Publio.

    — Che m’importa della Dea! Pensi dunque che io creda ai tuoi idoli?

    — Tu bestemmi, saresti forse nazareno? — esclamò Publio, scostandosi dal suo amico, che ridendo soggiunse:

    — No davvero; essi disprezzano e credono colpa tutto ciò che io venero. Io non sono nazareno, nè adoratore di Giove; i miei Dei sono i piaceri; non crederò mai a nulla.

    — Tu crederai quando un angelo parlerà al tuo cuore, — disse una voce armoniosa dietro la schiena di Sesto, che si volse rapidamente, ma non gli fu possibile di vedere il vecchio dalla penula lacera, che dopo aver pronunciate queste parole si era allontanato.

    Per qualche tempo i due amici continuarono a guardare all’intorno, ma invano; e sebbene Sesto, lo scettico, fingesse di ridere di quello strano pronostico, il suo volto espressivo manifestava la commozione dell’animo. In silenzio si appoggiò di nuovo al braccio di Publio, e tutti e due salirono al posto destinato ai cavalieri.

    II

    IL GLADIATORE

    L’Anfiteatro era tutto gremito di gente, e quel vasto recinto popolato in tal modo appariva ancora più grandioso.

    Domiziano stava sopra un sedile dorato; vicino a lui c’era Domizia, e non lontano da questa le Vestali.

    Si diffondeva un mormorio sordo, e di tratto in tratto s’udiva qualche voce urlare impaziente per il ritardo dello spettacolo che doveva cominciare con una lotta di gladiatori. Finalmente due uomini si slanciarono nell’arena; allora echeggiò un grido di applauso, e tutti gli occhi s’appuntarono su di loro.

    Uno dei combattenti apparteneva alla classe dei gladiatori chiamati Mirmilloni, i quali ordinariamente erano accoppiati, o per dire meglio, dovevano lottare con i Thraces, la cui armatura consisteva in una daga ed un piccolo scudo.

    Il Mirmillone aveva il capo coperto da un elmetto sul quale era impresso un grosso pesce; le sue armi erano una daga all’uso dei Galli, e uno scudo.

    I due avversari si volsero verso l’Imperatore, ed inchinandosi, esclamarono con voce robusta: Caesar, morituri te salutant!⁴ Orribile saluto che i consacrati alla morte facevano ai tiranni, i quali s’inebriavano alla vista dei loro ultimi respiri!

    Salutato Domiziano, cominciarono a schermirsi colle spade di legno, che gettavano in aria per riprenderle con somma maestrìa, quindi come belve infuriate si avventarono l’uno contro l’altro, e cominciò la lotta sanguinosa.

    Mentre il Thrace ed il Mirmillone si azzuffavano ingiuriandosi, e gli spettatori ora tacevano palpitanti di emozione, ora seguivano con gli sguardi colui che per il momento sembrava vincitore, due altri gladiatori stavano con le spalle appoggiati alle pareti interne della porta dalla quale si facevano uscire i cadaveri dei combattenti.

    Uno di questi due aveva appena trent’anni e le sue spalle erano robuste come quelle del Crotonese ⁵ ; però il suo volto era volgarissimo ed un’espressione di ferocia brutale si leggeva nei suoi occhi grigi; egli pure aveva il capo difeso da un elmetto ed era armato di una daga.

    L’altro era un giovane di venticinque anni. Alto di statura, le sue membra sarebbero sembrate gracili se la muscolatura non ne avesse dimostrata la robustezza: il suo volto era bello, ma forse mancava ad esso la bellezza virile per la delicatezza dei lineamenti.

    Una bionda lanuggine, che si distingueva appena, gli adombrava il labbro superiore e copriva in parte la bocca le cui estremità abbassate verso il mento indicavano energia e volontà ferrea. I suoi occhi grandi, cerulei, avevano un’espressione malinconica, ma nel combattimento quel mesto sguardo scintillava ed il colore ceruleo diventava quasi nero.

    Portava una specie di cappello chiamato galeum, con un braccio s’appoggiava ad un tridente di ferro la cui asta era simile a quella di una lancia, un collare di metallo, segno di schiavitù, gli cingeva il collo, ed una rete di piccole e solide funi stava avvoltolata vicino ai suoi piedi.

    Con il busto curvo sporgeva il capo per fissare il suo sguardo verso il posto occupato da Domiziano, e di quando in quando un sospiro sollevava il suo petto.

    — Non mandare sospiri, Paride: risparmiali per quando mi avrai di fronte — disse l’ercole in tono millantatore.

    Paride volse la testa e con lo sguardo freddo lo fissò dalla testa ai piedi, alzò le spalle con un movimento di disprezzo, e dopo che ebbe sorriso ironicamente tornò a volgersi dove guardava prima.

    Il gladiatore si morse le labbra fino al sangue, una tinta violacea gli colorò il volto per vedersi trattato in tal modo dal suo futuro avversario, ma reprimendo lo sdegno continuò a dire con voce rauca:

    — Bel Paride, gli occhi delle belle piangeranno quando nell’arena mi chiederai pietà.

    Le sopracciglia di Paride s’aggrottarono, egli sollevò nuovamente le spalle e con la più grande indifferenza riprese:

    — Taci, Fulvio, non annoiarmi.

    — Ti annoierai per l’ultima volta! — esclamò Fulvio facendo un gesto minaccioso, ma Paride non lo vide poichè sembrava immerso in una dolce contemplazione.

    All’improvviso s’udì un grido unanime, ed un battere fragoroso di mani. Il Mirmillone era caduto; il Thrace lo feriva con colpi ripetuti, e la folla applaudiva con entusiasmo!

    Un cupo silenzio successe a tanto fragore e tutti guardarono il cadavere del povero Mirmillone, che forse ancor semivivo era trascinato con un uncino fuori del

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