Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La guerra di don Piero
La guerra di don Piero
La guerra di don Piero
E-book427 pagine5 ore

La guerra di don Piero

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Don Piero è un giovane sacerdote nato e cresciuto al Portello, un quartiere popolare di Padova, sul finire dell’’800. Figlio di una fruttivendola molto religiosa e di un oste libertario, cresce nell’osteria del padre, covo di socialisti e di anarchici tenuti d’occhio dalla polizia. Ordinato sacerdote negli anni della guerra di Libia, per quanto fermamente contrario all’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, viene arruolato negli alpini come prete-soldato e mandato a combattere sul Pasubio. Lì conosce la crudeltà della guerra, si fa amare dai commilitoni e si offre al posto di un padre di famiglia condannato a morte per diserzione. Salvato in extremis, torna a Padova nei giorni di Caporetto con i gradi di cappellano militare e su incarico del vescovo si occupa di reduci e profughi in quella che è diventata la “capitale al fronte”. Con l’armistizio di Villa Giusti l’Italia vince la guerra ma il destino, per don Piero, ha in serbo altro.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2016
ISBN9788866602033
La guerra di don Piero

Correlato a La guerra di don Piero

Titoli di questa serie (21)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La guerra di don Piero

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La guerra di don Piero - Renato Costa

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Copertina

    Prologo

    Prima parte

    La notte di Emilia

    L’infanzia di Nina

    Un piacevole incontro

    Un passato glorioso

    Un amore d’osteria

    Vigilia di chiacchiere

    Un matrimonio di popolo

    Due treni a vapore e un passeggero

    A scuola di vita

    Nubi all’orizzonte

    Uno scolaro annoiato

    Niente bandiere rosse, nere o gialle

    Padova alla riscossa

    Una decisione sofferta

    Un chierico in incognito

    Un’impresa titanica, anzi due

    Don Piero, finalmente!

    Caos sotto il sole di Tripoli

    Dalla penna alla penna nera

    Seconda parte

    Alla fronte

    La spedizione punitiva

    Dopo un anno di guerra

    Alla forcella dell’avvenire

    La banda del cielo

    Vendetta, tremenda vendetta!

    Una nuova missione

    Col del boia

    Notte di tregenda

    Un’ultima missione

    Ritorno lassù

    Terza parte

    Toccata e fuga

    Il ritorno del Terribile

    Una buona idea

    Ritorno al Portello

    Un piccolo porto nella bufera

    Il martirio di Padova

    Profumo di vittoria

    Le giornate di Villa Giusti

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Un romanzo storico di

    Renato Costa

    La guerra di don Piero

    ISBN versione digitale

    ISBN 978-88-6660-203-3

    LA GUERRA DI DON PIERO

    Autore: Renato Costa

    Copyright © 2016 CIESSE Edizioni

    www.ciessedizioni.it

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di ottobre 2016

    Impostazione grafica e progetto copertina: © 2016 CIESSE Edizioni

    Collana: Le nostre guerre

    Editing a cura di: Sonia Dal Cason

    PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A mio bisnonno bersagliere,

    sepolto a Caporetto.

    A mio nonno, fante in Africa.

    A mio padre, alpino.

    Come me.

    Prologo

    Il sole infuocato delle tre del pomeriggio picchiava dritto sulla testa dei soldati ai piedi della collina. Al sommo, tre uomini legati a pali piantati per terra aspettavano la fine del supplizio. Quello di destra, rabbioso e indomito, bestemmiando a squarciagola malediva chi l’aveva condannato a morte. Quello di sinistra, assorto nei suoi pensieri, chiedeva perdono a Dio per i suoi peccati, raccomandandogli i figli. Al centro un tipo robusto, con lo sguardo fiero e sereno, scrutava le poche nuvole come se cercasse qualcuno di sua conoscenza e pregava a bassa voce, rivolgendo parole di conforto tanto a destra quanto a sinistra.

    Un ufficiale, staccatosi dalla soldataglia, raggiunse i tre sulla cima, poi, tornato sui suoi passi, urlò secchi comandi alla truppa.

    «Plotone, at-tenti. Puntate…».

    Quando stava per ordinare il fuoco, un urlo belluino squarciò il velo di silenzio che avvolgeva la valle.

    «Fermi, per Dio!».

    L’eco rimbombò fin sulle vette per poi infrangersi sui pendii, quasi a ripetere, perentorio, l’ordine.

    «Fermi! In nome di sua maestà il re Vittorio Emanuele».

    A sentire quelle parole l’ufficiale, che fino a un secondo prima non si sarebbe fermato per nulla al mondo, s’incollò la lingua al palato, mentre i suoi occhi grifagni scrutarono il limitare del bosco per capire chi avesse osato interrompere l’esecuzione.

    «Giù le armi. È un ordine, per Dio!», tuonò un vecchio ufficiale in divisa da alpino, assiso su una mula in là con gli anni. Il giovane gallonato, stizzito e incredulo, obbedì.

    «Pied-arm», urlò ai soldati, ma più che un ordine sembrava il ruggito di una belva ferita.

    Sbraitando, l’ufficiale cominciò a correre lungo il pendio, saltando come un camoscio da un masso all’altro per raggiungere, paonazzo, chi aveva osato tanto.

    «Come si permette di interrompere una fucilazione?», chiese tutto d’un fiato.

    «Intanto, sottotenente, si sbatta sull’attenti e si presenti al suo superiore. Poi mi spieghi cosa sta succedendo», disse con una vocetta compiaciuta il vecchio, sulle cui spalle torreggiavano le stellette di capitano.

    «Tenente di complemento Amedeo Tiraboschi, comandante della sessantesima compagnia, Battaglione Vicenza, Sesto reggimento alpini. La fucilazione dei tre soldati è un atto di guerra. La giusta pena alla diserzione in faccia al nemico di un’intera compagnia di stanza a Col del boia. L’ordine è stato emanato l’altra notte da un generale di brigata in persona. Signor capitano», spiegò il giovane ritto sull’attenti.

    «L’esecuzione è sospesa per ordine del generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, se non mi crede, legga questo», e sventolò sotto gli occhi basiti del giovanotto l’ordine scritto di suo pugno dal generalissimo, su carta intestata e con tutti i timbri del caso.

    Prima parte

    1.

     La notte di Emilia

    Una gelida notte di gennaio del 1866 l’anziana perpetua della parrocchia padovana dell’Immacolata, scoccata la mezzanotte, sgusciò dalla porta della canonica e, stringendo tra le braccia un fagotto, percorse circospetta i portici del quartiere Portello. Giunta in piazza, camminò rasente i muri della strada che costeggiava palazzi nobiliari e misere stamberghe fino a raggiungere l’altra parrocchia del quartiere. Sul muro del convento delle Salesie, prima del portale della chiesa di Ognissanti, si apriva una nicchia che da secoli ospitava la ruota degli esposti.

    Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto, sentenziava una scritta dipinta sul muro. L’anziana donna, confidando nel sonno profondo della neonata, si guardò alle spalle: non c’era nessuno. Depose il fagotto avvolto in uno scialle di lana e, quasi dando con la mano un ultimo saluto, fece girare la ruota. La suora che dormiva dall’altra parte non si accorse dell’ospite finché non cominciò a frignottare, prima di prorompere in un pianto dirotto. Solo allora, maledicendo chi la svegliava nel bel mezzo della notte, ma lodando Dio per aver salvato un’altra creatura, si alzò a prelevare il lattante.

    Niente paura, si disse la religiosa. Non era un corpicino nato pochi minuti prima col cordone ombelicale ancora sanguinante, ma una bella bimba, paffutella e in salute, che poteva avere un paio di giorni. Non di più. Meglio così. Col fagotto in mano la vecchia suora attraversò i corridoi del convento fino alla stanza della balia, alla quale chiese una prestazione fuori orario.

    Nel frattempo la perpetua aveva già fatto la strada a ritroso e, raggiunta la porta della canonica, s’infilò prima che qualcuno la vedesse. Emilia – questo era il suo nome – aveva da poco passato i quarant’anni, ma ne dimostrava molti meno. Robusta, anche se non grassa, lustrava i marmi della chiesa dell’Immacolata sin da quando, due anni prima, il vescovo Manfredini l’aveva consacrata. Non solo lavava, stirava e puliva la canonica, cucinava pure per il vecchio parroco e per i tanti cappellani che nel corso degli anni si erano occupati di schiere di marmocchi scalzi, sporchi e sempre affamati. Non c’era cristiano o cristiana della parrocchia che non la conoscesse, e anche chi non era battezzato - ma teneva fame, guai e bisogno - sapeva che dalle sue generose mani potevano uscire in ogni momento spiccioli e tozzi di pane. La sua fama superava abbondantemente le case della parrocchia e lambiva i confini del Portello, che sul finire dell’‘800 di parrocchie ne contava due.

    A un tiro di schioppo dalle piazze di Padova coi loro palazzi nobiliari, i negozi colmi di mercanzie, il sontuoso Caffè Pedrocchi e il saccente Palazzo universitario del Bo, il Portello era tutta un’altra cosa. Chi da secoli veniva da Venezia, fossero i signori saliti sul Burchiello a Piazza San Marco o le merci spinte sulle chiatte lungo il Brenta, entrava in città da lì. I primi, superata Porta Ognissanti, attraversavano senza fretta la piazza, prendevano la carrozza sotto la loggia all’angolo e arrivavano in centro. Nei quattro secoli di dominio della Serenissima, aristocratici, ricchi mercanti e illustri professori dell’Università di Padova ci avevano preso gusto al grumo di case cresciuto attorno al porto fluviale, assediato da orti e frutteti, e avevano finito per costruirvi le loro sontuose dimore. Senza paura di addossarle alle modeste casupole del quartiere, né di mischiarsi ai suoi abitanti - i portellati - che ci vivevano da sempre assieme ai loro figli: sciami di mocciosi vestiti di stracci, che dall’alba al tramonto affollavano le stradine medioevali del borgo o sostavano all’ombra dei numerosi portici. Era quello il loro regno. Lì giocavano con i bottoni, con le trottole o inseguivano cerchi di legno ruzzolanti sul selciato sconnesso. S’accapigliavano per un nonnulla, organizzavano furtarelli, mangiavano quel che arraffavano in giro e facevano i loro bisogni, senza curarsi dell’andirivieni di quanti, in quel termitaio, cercavano senza posa di buscarsi il pane.

    Accanto a loro, spesso gli uni tra i piedi delle altre, troneggiavano le comari. Assise come regine su uno scranno di paglia, ognuna aveva giurisdizione su un solo occhio di portico e, sotto gli sguardi incuranti del popolino, si lavava, spidocchiava i figli, cuoceva, faceva il bucato e la domenica – con le altre matrone in conclave – giocava a tombola. Tutto ciò accadeva in quello spazio ristretto che fungeva da laboratorio, da toilette, da tinello e, all’occorrenza, da talamo nuziale, specie nelle afose notti d’agosto, quando in molti preferivano dormire sotto le stelle.

    Ma i portici erano anche la dependance delle numerose botteghe del Portello. Il fabbro ingombrava la pubblica via per temprare e forgiare, il falegname dava di pialla e di martello, il mobiliere segava e passava la trementina, il bottaio batteva e rattoppava, il materassaio cardava e cuciva sotto gli occhi furtivi dei garzoni che imparavano l’arte per metterla da parte. E un portico sontuoso, più grande degli altri, ingoiava all’alba decine di beccai che poi risputava la sera, dopo una giornata di lavoro nel macello comunale posto ai margini del quartiere, lungo la riva del Piovego.

    Ma se le strade e i portici brulicavano di gente a tutte le ore, gli interni delle abitazioni non erano da meno. Con buona pace della morale, dell’igiene e della decenza, nonni, padri, figli e nipoti condividevano la medesima stanza. E se d’inverno le donne di casa tenevano socchiuse le finestre per non soffocare tra i miasmi, allora si trattava di famiglie agiate. Nelle case più povere, infatti, le imposte erano il ricordo di falò appiccati per combattere il gelo di inverni lontani. Nei giorni di sole, invece, dalle finestre dei piani alti, una selva di pertiche spingeva la biancheria ad asciugare su una ragnatela di funi, come un’immensa nave che spiegasse al vento le vele da parata. Nelle ore pomeridiane, chiuso il mercato di frutta e verdura al centro della città, il Portello diventava la piazza d’armi di un reggimento d’artiglieria. Niente affusti né cannoni, ma un centinaio di carretti allineati fino all’alba del giorno dopo dalle fruttivendole del quartiere, famose in tutta Padova.

    Per zittire le lagnanze delle mogli e sfamare i troppi figli, gli uomini del Portello sapevano cosa fare. Ad attenderli, a qualsiasi ora del giorno e della notte, c’erano le candide banchine di pietra d’Istria del porto fluviale. Carbone, vino, sale, frutta, verdura e quant’altro provenisse da Venezia e da Chioggia – o lì fosse diretto – attendeva le braccia nerborute dei facchini per scaricare chiatte e carri. A gestire il traffico del fiume e gli attracchi ai moli, pensavano i barcaioli del Portello, riuniti nell’omonima Fraglia. Stretti attorno al sacello di Sant’Antonio o ai piedi della statua lignea della Vergine nella chiesa di Ognissanti, prendevano messa nelle feste comandate e, con tanto di livrea settecentesca, portavano in processione la carretta della Madonna il giorno di San Rocco o l’otto dicembre, festa dell’Immacolata concezione. Quelli che un lavoro non riuscivano a trovarlo e, alzato il gomito, si cacciavano nei guai, non dovevano far troppa strada per smaltire la sbornia e la pena. Si spostavano di qualche centinaio di metri, presso il carcere ricavato nell’ex convento dei frati Paolotti, dove il Regno Lombardo-Veneto offriva vitto, alloggio e solide sbarre alle finestre. Altri, più sobri o più scaltri, brindavano alle malefatte e ai loschi traffici nelle osterie della zona, ognuna col suo nome, l’immancabile oste e la propria affezionata clientela.

    Gli sbirri, che di giorno avevano altro da fare che bazzicare il Portello, di notte non ci pensavano affatto a sedare risse o a zittire schiamazzi. Smettevano semmai le divise, mischiandosi ai tanti clienti dei bordelli del quartiere, sia quelli malfamati, ubicati nelle viette buie e defilate, sia quelli blasonati, posti nei pressi della piazza.

    Delle case di piacere, invece, i giovani portellati non sapevano che farsene. I soldi erano pochi, la voglia di annusarsi tanta. E allora il Bastione di San Massimo, oltre le mura cinquecentesche, era il posto ideale. Erba molle, buio pesto, rari i passanti, solo la luna osava ficcare il naso tra gli amplessi e i cespugli di un prato gremito di coppie intente a rifornire il Portello di bocche da sfamare. La domenica, poi, quelli che avevano preso messa, i pochi che avevano partecipato alla funzione pomeridiana e i tanti che avevano smaltito il vino della sera prima, si davano appuntamento per ballare in piazza d’estate o nelle osterie d’inverno, noncuranti dei divieti del prete e degli strilli delle madri.

    Emilia, al Portello, c’era nata. Proprio nella nave, l’edificio dotato di finestre piccole come oblò che occupava quasi per intero uno dei due lati più lunghi della piazza. I cessi erano dietro, dalla parte degli orti, l’acqua invece sgorgava davanti, dalla fontana dove durante il giorno si affollavano le donne del quartiere e i tanti marmocchi che vi scorrazzavano attorno senza posa. In alto, sul tetto, una foresta di comignoli sputava contro il cielo un denso fumo nero, unico avanzo delle marmitte di minestra che riempivano la pancia di chi, sotto i camini, viveva in dieci per camera da generazioni.

    Prima di passare il tempo a lustrare marmi e candelabri nella chiesa dell’Immacolata, Emilia era stata una fruttivendola. Aveva cominciato da piccola, attaccata alle gonne di sua madre che gestiva un banco di frutta e verdura nella centralissima Piazza delle Erbe.

    Erano passati da poco gli ultimi scampoli del ‘700, quando l’esangue leone di San Marco, senza più unghie né voglie, con la vigliacca neutralità disarmata aveva tentato di evitare il crollo di una storia tanto antica quanto decrepita. Incapace di opporsi alle inarrestabili armate napoleoniche e al vento impetuoso della Rivoluzione francese, il Veneto aveva visto scorrazzare ogni sorta di esercito. Padova, solo nel 1796, si era sorbita prima i tedeschi, poi migliaia di francesi, quindi i soldati ungheresi a cavallo e infine le truppe austriache. Ma a gennaio dell’anno dopo vide tornare i sanculotti che, dichiarata guerra alla Serenissima, la vendettero all’Austria con la firma di Campoformio, dopo averla spogliata di tutto. Ammainata la bandiera francese, abbattuto l’albero della libertà, sulla città del Santo non fece in tempo a sventolare il vessillo dell’aquila imperiale che già i padovani rimpiangevano la repubblica di San Marco, ma ormai era tardi.

    Nel 1842, a collegare Padova a Venezia, ci aveva pensato la ferrovia. Cinquantacinque minuti di treno, invece che otto ore di barca. Per tutti era il progresso, per il Portello era la fine.

    I signori non avevano più tempo da perdere in chiacchiere a bordo del Burchiello e le merci, non potendo più attendere la voga lenta dei barcaioli, arrivavano a Padova più in fretta, ma percorrendo un’altra strada, quella ferrata. In pochi anni il porto fluviale divenne deserto e il borgo più vivo e animato della vecchia Padova si trovò povero e in preda all’ozio.

    Nel frattempo, Emilia si era fatta un’amica. Marietta aveva qualche anno di meno e anche lei era figlia di una fruttivendola. Le due bimbe si erano conosciute sulla strada che portava le madri e i rispettivi carretti a fare incetta di verdura al porto fluviale e poi alle piazze a rivenderla. Emilia e Marietta ne avevano viste di tutti i colori. Quante volte erano passate indenni tra le schioppettate dei vari eserciti invasori; quanti uomini avevano ingannato per salvare la borsa e l’onore; quanti morosi si erano scambiate buggerando le madri e spillando più di un soldo ai babbei di turno, incantati dalle bianche carni e dalle loro lingue sciolte e sfrontate. Arrivate in età da marito, le loro strade si erano divise. Emilia aveva accettato le avance di un vedovo danaroso e rincoglionito, che in cambio di qualche carezza aveva chiuso un occhio sulla sua sterilità, vietandole di mettere bocca sulle mene dei figli di primo letto, indaffarati a succhiare soldi e ricchezze paterne. In cambio Emilia aveva ottenuto il permesso di recarsi ogni giorno in piazza, dove si muoveva come una regina, esperta di traffici, ricca di ammiratori e dedita alla bella vita.

    Ogni gioco è bello finché dura poco, e il giocattolo di Emilia si ruppe prestissimo. Neanche il tempo per il marito di voltare l’occhio, che Emilia aveva già ricevuto il filiale benservito. Puntò i piedi, minacciò denunce e sfracelli familiari, poi, da buona giocatrice d’azzardo, tirò la corda il più possibile, stando bene attenta a non romperla. Il piccolo gruzzolo con cui i figliastri la liquidarono non durò tanto, giusto il tempo di trovarsi in miseria a elemosinare un piatto di minestra dalle mani di quelli che un tempo guardava dall’alto in basso.

    Decise allora di tornare al Portello, da dove era partita. Messa in giro la voce che una vedova morigerata cercava una stanza e un lavoro onesto, la notizia fu raccolta dalle caritatevoli orecchie di monsignor Vincenzo Mortesina, parroco della neonata chiesa dell’Immacolata concezione. Il presbitero aveva l’occhio lungo. Non s’era fatto incantare dalla voce compita e dai modi pacati della vedova, l’avevano colpito invece il suo buon cuore e la facilità con cui entrava in confidenza con chiunque. Ricchi, poveri, scaltri, idioti, devoti, mangiapreti, puttane, ruffiani, madri misere, padri squattrinati, briganti patentati e lavoratori indefessi, lei aveva una parola per tutti e molti dei poveracci che entravano in confessionale a purgare l’anima, poi passavano da lei a riempire la pancia, con la benedizione del parroco e l’offerta di un bicchiere di vino, che Emilia mesceva meglio di un’ostessa.

    Forse i marmi, i putti e gli altari della chiesa non luccicavano come avrebbero voluto le nobildonne e le beghine del quartiere, ma le opere di misericordia profuse da Emilia per conto del reverendo parroco non conoscevano limiti. Anziani macilenti abbandonati dai figli e vecchie bagasce a fine carriera marcivano nel buio di cantine ammuffite? Lei faceva arrivare un piatto di minestra. Giovani meretrici impestate di sifilide aspettavano la fine dei loro giorni nelle soffitte malsane di qualche bordello? Lei non faceva mancare una buona parola e un’adeguata scorta di mercurio. Mogli di avvinazzati cariche di botte e di figli arrancavano per arrivare alla fine del mese? Lei sapeva come far giungere sporte di viveri senza darlo a vedere. Nessun gentiluomo del Portello aveva il coraggio di dirle di no quando era ora di scucire soldi chiesti in nome di Santa Romana Chiesa, del parroco, della Madonna e di tutti i santi del Paradiso che lei invocava pur di sfamare le mogli e i figli di quanti erano in ferie dietro le sbarre dei Paolotti.

    Ma la sua passione erano i bambini. Forse perché Dio non glieli aveva dati o forse perché per tutta la vita aveva sognato di averne. Fossero i pargoli sgusciati da puerpere in odore di peccato che nottetempo infilava nella ruota degli esposti, o gli scugnizzi coperti di stracci che affollavano le stradine attorno alla chiesa, tutti erano figli suoi. Lo erano persino i giovani cappellani che il vescovo mandava in soccorso di monsignor Vincenzo per farsi le ossa nel ventre di Padova.

    Marietta, invece, a mettere la testa a posto non ci pensava nemmeno. Era cresciuta in piazza e lì voleva restare, almeno fino a quando un principe azzurro non fosse venuto a prenderla. E un bel giorno lui arrivò. Un gentiluomo di oscure origini levantine, affascinante e danaroso come pochi, si era preso la briga di corteggiare la bella fruttivendola che esponeva la sua merce a pochi passi dal sontuoso Caffè Pedrocchi, frequentato ogni giorno dal bell’uomo sin da quando si era trasferito in città. Le buone maniere, i regali e la vita da gran signora che il levantino prometteva fecero breccia nel cuore della giovane. L’invidia di Emilia, invece, fece capolino quando l’amica confidò due novità di rilievo: era incinta e in attesa di un matrimonio riparatore.

    Marietta non stava più nella pelle, l’unico rammarico era aver perso qualche anno prima la vecchia madre, che da lassù avrebbe di certo gioito per le imminenti nozze e per il futuro radioso che attendeva la figlia.

    Quando, di lì a qualche settimana, Marietta raccontò che il nubendo aveva raggiunto i parenti mediorientali per dare la bella notizia, Emilia incrociò le dita. Le stesse con le quali avrebbe strozzato l’infame un mese dopo, non appena l’amica le rivelò che lui era sparito dalla circolazione. Sconvolta dalla notizia, ma angosciata dallo stato di salute di Marietta ormai al sesto mese di gravidanza, Emilia fece di tutto per starle accanto e proteggerla dalle malelingue del quartiere, che, appresa la notizia, avrebbero intonato in coro: «Ben le sta!».

    Preso atto che Marietta voleva tenere a tutti costi il nascituro, Emilia portò un cero a Sant’Antonio e attivò le sue conoscenze per trovare un posto in cui farla partorire all’insaputa di tutti. In capo a tre giorni, grazie ai colleghi fornitori di frutta e verdura ai conventi patavini, trovò in riviera San Benedetto delle pie monache benedettine che facevano al caso suo. Versato un congruo anticipo con la promessa di togliere il disturbo non appena il neonato avesse visto la luce, una sera di maggio accompagnò Marietta a destinazione. Tutto sembrava filare liscio. Troppo liscio.

    Giunta all’ottavo mese di gravidanza, Marietta cominciò ad avere abbondanti perdite e le minacce d’aborto si fecero probabili come la grandine durante un temporale estivo. Il medico che Emilia pagava profumatamente per assistere la puerpera cominciò a dare notizie sempre peggiori, dubitando persino che madre e figlio potessero superare indenni la prova del parto. Rassicurata dalle quotidiane visite di Emilia, ma atterrita dallo stato di debolezza che aumentava giorno dopo giorno, all’inizio del nono mese di gravidanza Marietta cominciò a fare strani discorsi.

    «Ti raccomando la mia bimba, perché io sento che sarà una bimba», diceva tra le lacrime, «giurami che la chiamerai Nina, come mia madre, e l’amerai come se fosse tua», continuava tra i singulti, «sai che se fosse capitato a te, io avrei fatto lo stesso», concludeva, straziando il cuore di Emilia che non aveva più lacrime, ma che prometteva di tutto pur di consolare l’amica. Le ultime settimane furono un calvario. Le condizioni di salute della puerpera peggioravano di giorno in giorno e a nulla servivano i farmaci e i ricostituenti che Emilia comperava a credito nella rinomata farmacia al piano terra del Palazzo del Bo. A dispetto della pancia, che cresceva a vista d’occhio, Marietta dimagriva sempre di più, e gli occhi cerchiati da livide occhiaie facevano a pugni col pallore del viso. Nelle ultime ore Marietta si rassegnò a mettere al mondo un’orfana. E così fu.

    All’alba dell’undici luglio, giorno di San Benedetto, consumata dalla gravidanza e dall’anemia che le aveva prosciugato le vene e la voglia di vivere, Marietta diede alla luce una bimba pochi istanti prima di morire. Le pallide mani che stringevano quelle di Emilia sembravano chiedere un’ultima conferma della promessa, ripetuta tante volte, di prendersi cura della piccola. Poi, pochi istanti prima di passare all’altro mondo, Marietta ebbe la forza di guardare in faccia la neonata e di trovarla bellissima.

    2.

    L’infanzia di Nina

    Vista la mala parata, distrutta dal dolore e col cadavere ancora caldo sul letto di morte, Emilia decise di vuotare il sacco con il parroco. Non l’aveva fatto prima perché sperava che tutto si sarebbe risolto nella massima segretezza, ma poi la situazione era precipitata.

    Monsignor Mortesina l’ascoltò paziente, scosso dal tragico destino della sua parrocchiana, poi fece una sonora ramanzina alla perpetua che aveva aspettato tanto per confidarsi. Fatto mea culpa, Emilia attese in silenzio che la chioma canuta del reverendo partorisse una qualche soluzione.

    «Immagino che vorrai occuparti personalmente della neonata per onorare le promesse fatte al capezzale della puerpera».

    Emilia annuì guardandosi le punte dei piedi.

    «E suppongo che per salvare la reputazione di Marietta, non vuoi che si sappia della sua morte e della sua… vergognosa condotta», dedusse corrosivo il parroco.

    Questa volta Emilia, punta nell’orgoglio, guardò negli occhi il prete, ma senza proferire verbo.

    «Allora si fa così!», concluse il monsignore, facendo capire che non avrebbe tollerato obiezioni di sorta.

    «Marietta verrà sepolta lontano dal Portello e tutti saranno liberi di pensare che abbia seguito quel maledetto in Oriente».

    Emilia concordò.

    «La piccola, invece, passerà dall’unica porta a cui non si bussa: la ruota degli esposti».

    La perpetua doveva riconoscerlo: era un colpo di genio.

    «Visti i buoni rapporti con la madre superiora e le mie assidue capatine al convento, non sarà difficile impedire che la piccola sia adottata e possa, col tempo, essere affidata alle amorevoli cure della zia».

    Emilia era al settimo cielo.

    Il piano ordito dal reverendo teneva conto di tutte le richieste e soddisfaceva i desideri dell’amica. I tempi li decise la perpetua: la notte stessa. La mattina seguente, qualche ora dopo l’arrivo notturno della neonata, il parroco dell’Immacolata si presentò armato di stola per celebrare messa al convento. Appreso dalla madre superiora della nuova ospite, espresse il desiderio di vederla e, millantando fantomatiche coppie di parrocchiani interessati all’adozione, chiese di non affidarla a nessuno. Incassato l’assenso, mandò la perpetua nel primo pomeriggio per un sopralluogo, con la scusa di relazionare ai potenziali genitori. La bimba era stupenda, distolta dal florido petto della balia, la piccola passò tra le braccia della quasi zia. Il monsignore fissò il battesimo per la domenica successiva e per quanto riguarda il nome, non ci fu dubbio alcuno: Nina.

    Conclusa la cerimonia, con una scusa qualsiasi Emilia tornò a fare visita alla neonata chiedendo notizie dello stato di salute della balia e della poppante. Informata della scarsa dotazione di indumenti caldi e scarpine di lana, mise in moto un esercito di carampane che in breve tempo fecero recapitare alle suore quanto avrebbe vestito e scaldato tre pargoli. Ben presto le visite della donna non ebbero nemmeno più bisogno di una scusa plausibile, e le suore si abituarono alla presenza della perpetua che aveva preso a cuore la piccola Nina come se fosse una di famiglia. Non fu nemmeno necessario cercare coppie intenzionate ad adottarla, le amorevoli cure delle suore e la massiccia presenza della zia garantivano alla piccola un’infanzia felice.

    Compiuti i tre anni, Emilia prese la buona abitudine di passarla a prendere la domenica pomeriggio per riportarla al convento dopo cena. Alla piccola non pareva vero di uscire e di muovere i primi passi nelle affollate vie del Portello, brulicanti di vita e di bambini come lei, ma la sua passione erano le visite di cortesia che scandivano i lunghi pomeriggi domenicali di Emilia. A volte erano vecchie signore sole che la riempivano di baci e canditi. Altre volte erano famiglie numerose, sprovviste di tutto, ma ricche di figli con i quali passava ore a giocare e a bisticciare. Altre volte ad accogliere la strana coppia erano le osterie piene di gente e di musica, dove la perpetua mostrava orgogliosa la sua piccola, ricevendo complimenti per il sorriso, per le buone maniere e per gli eleganti vestitini che la facevano assomigliare a una bambola.

    Nel giro di pochi anni, agli occhi degli abitanti del Portello, Emilia e Nina erano diventate inseparabili. Dove c’era l’una c’era anche l’altra, e più la perpetua avanzava negli anni, più Nina diventava il bastone della sua vecchiaia. Le sporte di viveri mandate dal parroco tramite la sua collaboratrice arrancavano sulle scale e Nina se le caricava volentieri in spalla; le forniture di mercurio alle ragazze dei bordelli non arrivano a destinazione e Nina provvedeva a tappare i buchi; le mogli gravide non ce la facevano a incontrare i loro uomini dietro le sbarre e Nina le sostituiva per non far mancare una parola o un sorriso. Senza giudicare, senza paura, fiera di fare ciò che la zia le aveva insegnato.

    Quando Nina era ancora piccina, qualche beghina aveva fatto notare che non era opportuno portarla in osteria, nei bordelli o in galera. Ma Emilia aveva fatto spallucce, solo il parere di monsignor Vincenzo le importava, e in tanti anni di onorata carriera pastorale egli non aveva mai avuto una chierichetta così volenterosa e devota. Quando Emilia giunse all’età della pensione, Nina s’era fatta una meravigliosa signorina che faceva girare la testa a più di un giovanotto del quartiere. La più vecchia delle due cominciò però a preoccuparsi seriamente del futuro dell’altra. Prendere il suo posto in parrocchia non le sembrava una buona idea e comunque, prima di passare a miglior vita, Emilia sentiva forte il desiderio di dire a Nina la verità sulla sua venuta al mondo. La prese alla larga. Cominciò col dire che le donne del Portello non erano tipe da accontentarsi di lustrare marmi e altari, che avevano una loro professionalità riconosciuta e che sua madre poteva essere stata una fruttivendola. Nina cominciò ad accarezzare l’idea e si mise a scrutare con un certo interesse l’esercito di donne che spingeva i carretti stracolmi di frutta e verdura fino al centro di Padova. Emilia, da parte sua, cominciò a portarla nelle piazze, a farle conoscere angoli e personaggi del centro storico, instillando in lei, piano piano, il gusto per la vita brillante, all’aria aperta, in mezzo alla gente.

    Quando Nina sembrò non desiderare altro per il suo futuro, una domenica pomeriggio Emilia la prese sotto braccio e la portò a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1