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La torre del corvo
La torre del corvo
La torre del corvo
E-book330 pagine4 ore

La torre del corvo

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Info su questo ebook

La torre del corvo domina la visuale dall'alto. Arroccata, antica, piena di storia e segreti, sarà il fulcro intorno al quale si intrecceranno le vite di moltissimi personaggi. Addentrandosi nei meandri della sua epoca, a oltre un secolo di distanza, l'opera di Klitsche de la Grange offre tuttora una lucida e interessante chiave di lettura sulla società dell'Ottocento. La torre stessa sarà simbolo e teatro di scoperte che potrebbero svelare verità più nascoste.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2023
ISBN9788728309766
La torre del corvo

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    La torre del corvo - A. Klitsche de la Grange

    La torre del corvo

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1897, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728309766

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    LA TORRE DEL CORVO

    I.

    Il figlio della cieca.

    Sul finire di una bella giornata di primavera dell’anno 1537, il sole ascondendosi dietro le alpestri cime delle Cevenne, rifletteva un pallido raggio sugli alti campanili di Tolosa, capitale dell’antica Linguadoca.

    In quell’ora un cavaliere, uscendo dalla porta della città, seguiva il corso della Garonna, inoltrandosi per un sentiero di campagna lungo il fiume. Costui era un giovane di circa ventidue anni, pallido, smunto, dai capelli neri, crespi, lucidi, d’occhio nero nero. La foggia di vestire era alquanto strana e poco conforme all’uso di que’ tempi: indossava un vecchio giustacuore di stoffa gialla, dalle sottomaniche attillate, di un bel porporino; i cosciali, simili alle maniche, gli giungevano fin sopra al ginocchio fermati dai cuturni di pelle di camoscio; in testa un berretto di velluto adorno di due lunghe penne di airone, un mantello nero lo copriva, cingeva una spada dall’elsa a croce, e conserte le braccia, mesto, svogliato, abbandonava le redini sulla criniera della sua cavalcatura e tirava innanzi pensieroso, accigliato.

    Pareva che la bestia fosse abituata a percorrere codesta via; inoltravasi franca e sicura in fra gli alberi di un boschetto di pioppi, e messasi quindi su di un viottolo costeggiato da una siepe di sambuco, camminò adagio adagio finchè giunse ad un campo inculto, abbandonato, e si fermò alla porta di un casolare semidiruto, dalla tettoia ricoperta di edera.

    — Gerardo! Gerardo! gridò il cavaliere.

    S’udì il latrar di un cane, e un vecchio alto di persona, scarno, svelto, come se ancor fosse nel vigor degli anni, uscì e s’inoltrò verso il giovane dicendo:

    — Da più di un’ora vi aspetto, signor Conte. Non vedendovi passare ero in pena.

    — Sono stato vicino ad uscir di strada, Gerardo mio.

    — E come?

    — Passando una porta per l’altra, per cui mi convenne retrocedere.

    — Siete almeno soddisfatto della vostra gita?

    — No; fu davvero tempo perduto.

    — Non vi smarrite, pensate alla signora Contessa.

    — Ci penso assai.

    Il vecchio si accostò, e stringendo la mano del cavaliere la baciò due volte, poi riprese additando l’orizzonte:

    — Andate, signor Conte, affrettatevi; il sole tramonta nelle nuvole, il cielo si fa nero, da qui a poco lampi e tuono: affrettatevi, che Dio vi accompagni!

    — E ti ricompensi, Gerardo, conchiuse il cavaliere; e diè di sprone al ronzino avviandosi verso una fitta boscaglia.

    Al di là del bosco aprivasi un fabbricato moderno, di bella apparenza; tutto circondato di verzura, di alberi grandissimi, di ameni boschetti. A quella volta incedevano due donne seguite a breve distanza da una terza.

    La prima era piuttosto matura, ed anche, se non avesse indossata una veste di un bel colore marcato e non le avesse coperto il capo una cuffietta di raso ricamata in oro, la si sarebbe presa per una gentildonna.

    La seconda era una giovane di venti anni, grande, ben fatta di persona, una bellezza mesta, pensierosa, dallo sguardo languido. Ella avvolgevasi graziosamente in un accappatoio di seta verde; e una reticella di argento filato le racchiudeva i capelli nerissimi.

    La terza poi era una fanciulla di sedici anni, piena di freschezza e leggiadria; avea i capelli biondi, azzurri gli occhi, e per la perfezione del visino e per il delicato colorito, pareva proprio una miniatura. Indossava una lunga veste bianca, dalle maniche strette al gomito, ampie alla sommità del braccio, adorne di lamette d’oro e di nastri incarnatini. Un nastro le stringeva la capellatura, che scendevale in folti ricci sulle spalle. La ragazzina seguiva le sue compagne, quasi spossata, fermandosi ogni momento.

    — Mamma! Isaura! non correte tanto, io non posso raggiungervi! gridò finalmente lasciandosi cader sur un greppo; e intanto il cavaliere trasaliva nell’udir quella voce, e deviando pel prato, che attutiva il calpestio del suo cavallo, si ascose dietro un gruppo di alberi e stette in ascolto.

    — Sei addivenuta pigra, Stefanettà, disse la giovane chiamata Isaura. Non ti vergogni?

    — Non sai che questa mane ho camminato più di due ore? replicò la biondina offesa.

    — Invece di studiare, soggiunse la gentildonna attempata.

    — Che volete, mammina mia, mi sono divertita. Ho colto fiori, ho dato caccia alle farfalle, ho veduto messer Bertrando della Torre, vestito di giallo, di rosso, con un berretto adorno da due lunghe penne di airone. Quanto era curioso! Risi, risi, vedendolo messo in modo così ridicolo.

    — Egli è un giovane bizzarro, riprese la gentildonna stringendosi nelle spalle.

    — E perchè? domandò Isaura.

    — E lo dimandi? disse Stefanetta; perchè vive nel suo vecchio castello, come un orso nella tana, e si veste Dio sa come!

    — In lui la pazzia, ripigliò la gentildona, è mal di famiglia. Il celebre trovatore Guglielmo della Torre era suo antenato; e sapete perchè morì? Amava una giovane milanese, cui era fidanzato, e che si estinse a Como. Disperato, egli ne fece tante tante, che gli abitanti di Como, stanchi di sopportarlo, lo cacciarono dalla città. Il povero trovatore errante aggiravasi nei dintorni chiedendo a questo e a quello il modo come far rivivere la sua bella. Alla perfine s’imbattè in una donnicciuola che approfittandosi della pazzia del poveretto lo consigliò di recitare per un anno il salterio una volta al giorno, e non so quanti pater ed ave. Così fece, e dopo un anno, vedendo che la tomba non si apriva, morì di crepacuore.

    — Sventurato! disse Isaura; e sospirava.

    — Pazzo da catena, soggiunse Stefanetta; e stava per rimettersi in cammino onde seguir la madre e la sorella, che si allontanavano, allorquando Bertrando della Torre le passò da presso, e curvato in sella, tese la destra, le strappò un nastro incarnatino dalla spalla, e via, via, di galoppo, dileguossi in un baleno lasciando la giovinetta meravigliata, sbigottita, piena di paura.

    Intanto avvicinavasi la sera; ad una bella giornata succedeva una fosca notte; il cielo era coperto di nuvole, il vento sibilava tra gli alberi, trasportava seco foglie, ramoscelli, e il giovane proseguiva a galoppare. Dopo di aver galoppato circa un quarto di miglio fece sosta presso il ponte levatoio di un antico castello, e pose il piede a terra.

    Il ponte metteva capo ad un portale mezzo diruto, unico ingresso di un’angusta corte, che si apriva sotto un torrione quadrato, fiancheggiato da quattro torricelle, una delle quali era sormontata nel mezzo da un massiccio basamento di tufo, sovra cui vedevasi rozzamente scolpito un corvo in atto di spiegare le ali.

    Alcuni fabbricati più bassi e di recente architettura, congiungevansi poi lateralmente alla torre; e abbenchè quella rôcca, munita per ogni dove di caditoie, di altane, di bertesche, si mostrasse luogo di formidabilissima difesa, avea un non so che di tetro, di abbandonato, e al sol mirarla al di fuori, faceva sentire i brividi della febbre.

    Il cavaliere, conducendo il cavallo a mano, varcò il ponte levatoio, e giunto nella corte, aprì l’uscio di una scuderia, vasta, ma ben poco provvista; e dopo di avere legato il cavallo alla rastrelliera, gli gettò innanzi un fascetto di fieno troppo piccolo e secco per satollare la povera bestia affamata; indi uscì, diè di fiato ad un corno da caccia che pendeva attaccato ad una catena presso l’ingresso principale, e attese con impazienza che rispondessero alla chiamata.

    Di lì a non molto una vecchia fantesca portando un lume in mano aprì la porta che introduceva nel torrione; alla vista del giovane si scostò dalla soglia, e prese a dire in dialetto provenzale:

    — Che festa farà la signora nel rivedervi, padroncino! Da più di un’ora essa vi attende ansiosamente, e nell’udire il vento trema e recita le sue orazioni ad alta voce.

    — È una brutta serata, Berta mia. Il vento piega i tronchi degli alberi come virgulti; è una brutta serata; brutta come la mia vita, disse il giovane mentre chiudeva a catenaccio il portone.

    — Verrà il buon tempo anche per voi; allora la mestizia se ne andrà.

    Il cavaliere si strinse nelle spalle e tacque.

    — Prima che questi miei occhi, che vi hanno veduto nascere, si chiudano per sempre, riprese la vecchia commossa, vedranno un raggio di sole su questa casa; è ormai tempo che il buon Dio si ricordi di voi.

    — Zitta, Berta, non parlar di sole e dimmi invece come sta mia madre; ha cenato?

    — Sta benissimo; ha cenato proprio come una regina. Le ammannii le pernici che vi regalò l’altro ieri Gerardo, e il vin di Borgogna, che la signoria vostra comprò a Tolosa, dopo di aver venduto….

    — Zitta, zitta, potrebbero udirti.

    — E chi volete che mi senta? Qui non vi sono altre orecchie che quelle dei gufi e dei pipistrelli. La signora sta seduta nell’ultima stanza, sola non può muoversi.

    — È vero, disse Bertrando, e salì rapidamente i gradini rotti di una scala a chiocciola; giunto al primo piano della torre, s’intromise in una fuga di stanze spoglie di qualunque suppellettile, buie, fredde, veri granili vuoti.

    L’interno del torrione corrispondeva in parte all’esterno, anzi offrivasi ancor più squallido alla vista, poichè laceri cadevano i parati delle mura, ondeggiando scossi lacerati dal vento, che attraverso le imposte mal commesse, soffiava nelle stanze in modo da spegnere il lume; nell’inverno quel luogo era proprio una vera ghiacciaia, vi si moriva irrigiditi.

    Il giovane oltrepassò due camere, e giunse ad una terza, ben diversa dalle altre, imperocchè un soffice tappeto ne copriva il pavimento, le pareti erano adorne di belli arazzi tessuti a fogliami rossi su fondo bianco, dal soffitto pendeva una lampada a due becchi di antica forma, e lunghe cortine di damasco, calate innanzi alle finestre, impedivano all’aria di penetrare, e custodivano l’ambiente.

    In fondo a cotesta stanza tiepida tiepida, su di un seggiolone imbottito, coperto di stoffa cremisi, sedeva una vecchia tenendo le mani congiunte in grembo, i piedi appoggiati ad uno sgabello di velluto.

    Ella era di sembiante lungo, scarno e rugoso, e pur tuttavia bello ancora. Immoto avea lo sguardo, le pupille inanimate la facevano sembrare quasi estatica.

    Sonnecchiava e ad ogni più lieve romore si scuoteva sobbalzando in tremito.

    Indossava una veste di velluto nero; una catena d’oro, dalla quale pendeva una crocetta di madreperla, le si aggirava intorno al collare di battista increspata, e le cadeva sul petto.

    Nell’udire i passi di Bertrando trasalì, e dimandò con ansia:

    — Sei tu, figlio mio, sei tu?

    — Sì, mamma, rispose il giovane, e posato il lume corse ai piedi della cieca e le baciò teneramente la mano con effusione di cuore, quasi con frenesia.

    — Di’, perchè sei tornato così tardi? Io temeva che il temporale ti cogliesse per via.

    — Uscii per visitare i coloni, percorsi gran parte delle nostre terre, il tempo mi fuggì rapidamente, riprese il giovane; e nel dir ciò il suo labbro aprivasi ad un sorriso amaro.

    — Le nostre terre sono fertilissime; con il frutto delle nostre economie potremo presto acquistarne molte altre. Calcolando le rendite accumulate abbiamo di già una bella somma.

    — Fa d’uopo attendere ancora, mamma mia.

    — Eppure le nostre economie sono state grandi.

    — E che, mamma, ne avete sofferto?

    — No davvero. Io non manco di nulla; mi dispiace per quella povera gente che abbiamo dovuto mandar via. Però tu mi dicesti di aver pensato all’avvenire di coloro che per molti anni ci servirono fedelmente, io mi sento tranquilla.

    — Vi pensai, disse il giovane soffocando un sospiro doloroso.

    — Quando prenderai moglie, riprese la matrona, potrai richiamarli tutti; crebbero in casa nostra, amerei che vi morissero in pace.

    — Non facciamo castelli in aria.

    — Ma perchè no?

    — Io non penso a prender moglie.

    — Ebbene, io ci penso in tua vece. Non è ragionevole che tu debba passare la gioventù in questo castello, guardiano di una povera cieca; sceglierai la tua dimora altrove; di tanto in tanto verrai a vedermi.

    — Io voglio viver sempre con voi, mamma mia.

    — Ma io sono vecchia, figlio, e debbo precederti lassù.

    — Deh, non lo dite.

    — Su via pazzerello, parliamo delle figlie di messer Balaun; sono ricchissime e belle.

    — Le dice tali la fama, disse il giovane, e si premeva le mani al cuore per frenarne i violenti palpiti.

    — E che, tu non le conosci?

    — Più volte m’imbattei nella signorina Isaura e nella bionda Stefanetta.

    — Nella mia gioventù conobbi la loro madre; se tu lo vuoi, dimanderò per te la mano di una di quelle due fanciulle.

    — Aspettiamo, madre, aspettiamo. Per ora non voglio amare che voi, disse il giovane con voce tremante, e lanciando lungi da sè il berretto di velluto appoggiò la testa sulle ginocchia della cieca, e tacque.

    — Che hai, figlio mio? dimandò la vecchia, e posava la destra sui capelli neri di Bertrando.

    — Non ho nulla; mi sento estenuato; ho sonno.

    Madre e figlio tacevano, e questo giovane robusto, nel fior degli anni, avea la fronte solcata da precoci rughe, un dolore straziante gli conturbava il volto, mentre quella, cieca, indebolita dall’età, avea sereno il sembiante e sorrideva e pensava all’avvenire felice del suo diletto Bertrando.

    — Figlio, disse alla perfine la gentildonna, dimani è l’anniversario della tua nascita: in memoria del giorno in cui ti baciai la prima volta vorrei fare un po’ di bene, un po’ di limosina. Ci sono tanti poveri….

    — Sarete ubbidita.

    — Fra costoro, non dimenticare Gerardo Vidal, quel buon vecchio nato in casa nostra.

    — Gerardo è più limosiniere di noi, disse Bertrando; e una lacrima repressa invano gli spuntò sulle palpebre.

    — Che dici, figlio? dimandò la vecchia.

    — Dico che dimani Gerardo ci benedirà.

    — Bertrando, tu hai la febbre. La tua fronte scotta. Che hai, figlio mio, di’, che ti senti?

    — Mi sento stanco.

    — Il tuo stomaco avrà patito; avrai sofferto freddo per via. Ma come sei vestito? il tuo giustacuore è attillato. Come vesti?

    — Vesto all’uso dei pari miei, rispose il giovane scostandosi dalla cieca che gli toccava il petto e lo braccia.

    — Oh! quanto sarei felice se potessi vederti, esclamò la povera donna e congiunte le mani, soggiunse: almeno lassù le mie pupille non saranno più orbe di vista; potrò mirarti fra gli angioli.

    — Lassù gli occhi non piangono più, disse il giovano mestamente.

    — Io vado a letto, figlio mio, riprese la gentildonna, e tu cena con buon appetito. Un’ala di pollo, una fetta di torta, un bicchiere di vino vecchio, rifocilleranno il tuo stomaco. Va Bertrando, Dio ti benedica.

    E la vecchia porse la destra al giovane, che la baciò due volte; guidata poi dalla fantesca avviossi verso una stanzuccia comoda, tiepida, ben messa, situata in uno degli angoli della torre.

    — Buona sera, mamma, dormite in pace, disse Bertrando; e rimasto solo, si tenne lunga pezza immoto, con le braccia penzolanti lungo i fianchi, in preda ai pensieri crudeli che gli trambasciavano il cuore, gli turbavano la mente. Poi prese il lume, corse nella sua stanza, ove altro non vedevasi che un letticciuolo, una scranna, una mensola su cui posavauo molte pergamene miniate a bei disegni; e cavando fuori dalla tasca il nastro involato a Stefanetta lo accostò al lume, guardollo, fece un movimento quasichè volesse baciarlo, ma ristette all’istante, e mentre lo chiudeva in un scrignetto, crollava il capo e sorrideva amaramente; correndo quindi alla finestruola si appoggiò al davanzale, e pensò: Rida, rida pure, mi burli, sono ridicolo; ha ragione. Adesso dirà la verità, chiamandomi pazzo; fu da pazzo rubarle un nastro. Non ci pensiamo. Che brutta serata! perchè il vento non mi trascina seco, non mi atterra al par degli alberi giganteschi che travolge nella sua furia? Così terminerebbero le mie pene; e mia madre? A che gioverebbero i mei sacrifizii, se non potessi chiuderle gli occhi?

    — Posso entrare? dimandò la fantesca.

    — Che vuoi, Berta? disse Bertrando allontanandosi dalla finestra.

    — La signora si è coricata, riprese la vecchia facendo capolino all’uscio.

    — Ebbene?

    — E mi ha ordinato di darvi da cena.

    — Da cena?

    — Che desidera la signoria vostra?

    — Vuoi prenderti giuoco di me, cara Berta, tu sai che la sera non mangio. Qual festa vuoi che io celebri?

    — La vigilia dell’anniversario della vostra nascita. Bisogna proprio che io lo dica; ho fisso in mente quel giorno come se fosse trascorso ieri.

    — Buon per te, Berta mia, a me gli anni parvero secoli.

    — Quello sì che fu un giorno di festa! Me ne ricorderò sempre. I servi di casa, i coloni, lo festeggiarono allegramente: È nato un maschio, è nato un erede, si diceva da tutti, e il vostro nobile padre usciva di senno dalla contentezza, e stringendo la mano agli amici, piangeva come un fanciullo.

    — Ed io pure entrai nel mondo con le lacrime agli occhi, salutai la vita con un vagito doloroso, disse Bertrando cupamente.

    — Povero giovane; il mio latte vi portò sventura! Eravate tanto bello; bianco e rosso come una mela rossa, ripigliò la vecchia intenerita.

    — Ed ora sono carino tanto! magro come un scheletro, pallido più di un morto, disse il giovane sorridendo.

    — Le sventure non ingrassano; oh! se la signora potesse vedervi, e se sapesse quanto soffriste, morirebbe di crepacuore!

    — Come morì mio padre.

    — Egli sì che goccia a goccia trangugiò il veleno che lo uccise. Si fidava di tutti, credeva tutti gli uomini onesti, e pagò a caro prezzo la sua cieca fiducia: in questo mondo i birbi e i tristi hanno fortuna!

    — Speriamo che vi sia un’ altra vita, una seconda esistenza, dove non si premia e non si punisce come sulla terra.

    — Vi rammentate….

    — Finiscila, Berta, tu riapri le mie ferite. Non sai che quando penso alle sventure nostre, il mio cervello se ne va, e come belva mi avventerei al mio simile per isbranarlo?

    — E di gran cuore vi aiuterei, se lo potessi, soggiunse la fantesca stringendo il pugno.

    — Guarda, Berta, disse il giovane, e alzava il lembo di una cortina lacera, sotto della quale vedevasi pendere da un chiodo un bastone attaccato ad una funicella, ed un vecchio berretto di velluto: Guarda, ecco il bastone di mio padre, ad esso egli appoggiavasi in quei dì che oppresso dalla malattia e dai dispiaceri immensi, percorreva queste deserte stanze; ecco il berretto che gli copriva la testa, fatta canuta più dalle ambasce che dagli anni. Quando, rammentandomi i suoi ultimi momenti, amareggiati da fiele amarissimo, la smania di maledire gli uomini s’impadronisce di me, e che un delirio furibondo mi strappa dal labbro un’orribile bestemmia, alzo questa cortina, guardo la mia sola eredità, e pensando a mio padre, che dal cielo mi vede, mi placo e prego!

    — L’ho sempre detto, e lo dirò sempre che voi siete il giovane più buono della terra, disse Berta intenerita.

    — Non lo dire, nutrice, non lo dire: tu non sai quel che mi batte in petto.

    — Eppure gli abitanti dei castelli vicini vi chiamano fantastico, e si burlano di voi. Le sono impertinenze coteste che mi fanno schiattar di rabbia.

    — Si burlano di me perchè non avendo vesti migliori, indosso quelle che trovai nel nostro antico guardaroba; non ha guari l’udii dire da un bel labbro; non ti curar di loro, Berta mia, e ridi tu pure.

    — Se vi conoscessero da vicino….

    — Le donne solo oserebbero ridermi in faccia impunemente.

    — E tutto per colpa di vostro zio; s’egli si movesse a pietà, la vostra esistenza cangierebbesi in un momento.

    — Che vuoi che sia la pietà di un avaro? Il suo cuore è di granito; le lacrime non vi lasciano solco anche se ci cadessero a rivi; egli è irremovibile e la compassione non lo scuote.

    — Egoista, egoista, balbettò la vecchia pian piano.

    — Ti rammenti del giorno in cui mi recai a vederlo? Ebbi una bella accoglienza! Ma basta di lui. Questa mane vidi come al solito Gerardo Vidal, poi lo rividi all’ imbrunir della sera.

    — E che vi disse?

    — Molte cose, e tra le altre ch’egli sarebbesi recato a Tolosa.

    — Forse per vedere vostro zio.

    — Lo temo.

    — Gerardo è la sola persona che sappia sciogliere la cordella della borsa del vecchio conte.

    — E tu credi?…

    — Egli vi è affezionato, abbiate fiducia in lui.

    — Gerardo ha ottimo cuore.

    — Un cuore generoso. Ma è tardi, padroncino mio, vado a prendervi un po’ di vino: bevete e poi coricatevi. Come soffia il vento! La grandine scricchiola sui vetri; è una notte da lupi, sotto le coltri non si sta male; che lampi! che tuoni! A letto! a letto!

    — Ascolta; non odi una voce gridare? disse il giovane accostandosi alla finestra.

    — È il vento che scuote gli alberi della selva.

    — No, non m’inganno, odo gridare; la notte è nera nera, non si vede niente.

    — Sarà qualche contadino, che di ritorno al suo casolare, ha il malvezzo di far baldoria, invece di raccomandarsi a Dio.

    — E se fosse un viandante in pericolo?

    — Io ho un bell’aguzzar le orecchie, non sento che il sibilar del vento e il fragor del tuono: gli è vero che le mie orecchie sono durette alquanto.

    — Ascolta, ascolta! esclamò Bertrando: e difatti in quel momento s’ udì un urlare, un gridare altamente, un imprecare a più non posso.

    Il giovine aprì la finestra, ed intanto una voce sonora facendosi sempre più vicina gridava: — Per la barca di Caronte! dove siete, abitanti di questo diroccato castello? Che bella maniera di far cadere i galantuomini nel burrone, o di farli investir nel ponte? Il mio cavallo non ne può più, non vedo un corno! Che ospitalità è cotesta? Che la peste vi colga!

    — Perchè mai tanto rumore? Abbiate pazienza, messere; chiunque voi siate, un po’più di cortesia non vi nuocerebbe gran fatto, disse Bertrando bruscamente, e l’incognito riprese:

    — Affrettatevi, il mio cavallo è bagnato fino alle midolla, cade di stanchezza. Presto, un lume, un lume!

    — Chi siete, messere, chi siete? dimandò Berta affacciandosi mentre Bertrando toglievasi dalla finestra.

    — Vecchia strega! ancora non sei andata a casa del diavolo? Sbrigati, allestisci le tue gambe storte, monta sulla scopa, Berta carissima, ed abbassa il ponte levatoio! gridò la voce sonora in tuon beffardo.

    — Mi conosce; chi sarà? Ma che s’ha egli dunque a fare? disse la fantesca intimorita.

    — Intanto facciamolo entrare; gli dimanderemo poi il nome. Grida come un ossesso, desterà mia madre, disse Bertrando avvicinandosi all’uscio.

    — Non aprite, mio buon padrone; lo avete udito, mi ha chiamato strega, ha nominato Belzebù, che Dio ne salvi! gridava la fantesca tremando.

    — Sta quieta, Berta, sta quieta.

    — Pensate a vostra madre.

    — Oh! che vane paure. Prendi il lume e va avanti.

    — Ebbene, poichè volete aprire a colui, sia fatto così, ma pensate….

    — Va avanti, Berta, ripetè il giovane con tono più autorevole, e poco dopo varcato il ponte levatoio si trovò di fronte ad un uomo alto di persona, imbacuccato sino al naso nel mantello.

    — Entrate, messere, prese a dire Bertrando, e inchinò l’incognito.

    — E che, il ponte era abbassato? Se lo avessi saputo non avrei fatto tanto fracasso. Andiamo, vi seguo. E il sopraggiunto sospinse con un colpo di scudiscio il suo cavallo e penetrò nella corte.

    — Che brutto ceffo che brutto ceffo,

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