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Forse non tutti sanno che a Genova...
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E-book394 pagine5 ore

Forse non tutti sanno che a Genova...

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Info su questo ebook

Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti della “Superba”
Un viaggio nella Genova che non ti aspetti

Genova è stata capitale di uno Stato, anzi una città-Stato per l’esattezza, con una sua autonomia politica e una straordinaria potenza mercantile, finanziaria e marittima durata circa sette secoli. Nella città si ha ancora memoria di questo patrimonio del passato? Con un viaggio nel tempo e alla scoperta di episodi, fatti storici meno noti, personaggi dimenticati, curiosità che svelano un’epoca e il suo spirito, Aldo Padovano ripercorre l’evoluzione genovese, fornendo spunti di approfondimento e notizie che non tutti, nemmeno molti genovesi DOC, possono conoscere. L’autore traccia così un percorso attento e accurato che fa emergere aspetti di Genova importanti anche per la storia più recente.

Forse non tutti sanno che a Genova…

…la piazza della Commenda di San Giovanni di Pré è stata teatro dell’arrivo delle reliquie di san Giovanni Battista e della “crociata dei fanciulli”
...in via San Lorenzo c’è una lapide dedicata a Gio. Battista Baliano con cui ebbe una fitta corrispondenza Galileo Galilei
...Franz Liszt si esibì in uno straordinario concerto nel palazzo De Mari a Campetto
...nel 1601 il sacerdote Girolamo Lercari fu assassinato mentre stava celebrando la messa in San Sisto 
…durante l’infuriare della pestilenza, una nave fu riempita di cadaveri degli appestati, portata al largo e incendiata. Ma i venti la riportarono a riva con il suo macabro carico in fiamme 
...al Teatro Giardino d’Italia Vittorio De Sica trascorse uno strano Capodanno
Aldo Padovano
è nato a Genova. Storico, scrittore, regista, straordinario conoscitore dei caruggi che attraversa come un flâneur baudelairiano, ha già scritto per la Newton Compton Storia insolita di Genova e Forse non tutti sanno che a Genova... ed è autore di numerose altre pubblicazioni sulla storia della città.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2015
ISBN9788854187139
Forse non tutti sanno che a Genova...

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    Anteprima del libro

    Forse non tutti sanno che a Genova... - Aldo Padovano

    1. …nel Medioevo esistevano due Lanterne: una a Capo di Faro, l’altra sul Molo Vecchio

    Che la Lanterna sia il simbolo della città di Genova è un’ovvietà, come affermare che il Colosseo è il simbolo di Roma, il Duomo quello di Milano, il Vesuvio di Napoli, e così via. «Un incipit così banale ce lo potevi risparmiare», potrebbe essere il legittimo commento dei lettori. Tuttavia rimarcare un tale assunto non è per nulla superfluo. Infatti un sindaco in carica alcuni lustri or sono si mise in testa di annichilire la valenza simbolica del celeberrimo faro genovese (espungendone l’efficacia metonimica), come se i simboli, soprattutto quelli in vigore da secoli, si potessero cambiare come le camicie o i calzini.

    Da quel momento in poi, invece della città della Lanterna o del derby della Lanterna, il primo cittadino di allora avrebbe preferito che la Superba si connotasse come la città del Bigo e che la sfida calcistica tra le due squadre genovesi venisse definita il derby del Bigo. E tutto questo in onore dell’ascensore panoramico realizzato da Renzo Piano nel cuore del Porto antico in occasione dell’Esposizione colombiana del 1992, così chiamato perché la sua forma ricorda quella dell’albero di carico di una nave. E meno male che una celebre trasmissione radiofonica domenicale della sede rai di Genova andava in onda nei lontani anni Sessanta. Il titolo del programma – A Lanterna! – veniva compitato da un attore dialettale meglio di un venditore ambulante di giornali dell’epoca, uno strillone, appunto. Non è difficile immaginare quale avrebbe potuto essere il miserrimo effetto acustico se la trasmissione fosse stata realizzata dopo la bizzarra proposta – fortunatamente respinta a furor di popolo – del sindaco; il quale, da una tale cervellotica operazione, per dirla con un’espressione vernacolare, o gh’aviä avüo a so convenienza! (avrà avuto il suo interesse).

    Eppure la Lanterna di momenti turbolenti nel corso della sua storia ne ha passati non pochi. Venne eretta all’inizio del xii secolo (una prima citazione negli annali cittadini risale al 1128) su uno spiazzo roccioso denominato Codefà (Capo di Faro), sulla punta del Promontorio dove proprio in quegli anni stava sorgendo l’abbazia benedettina di San Benigno. Ma già prima dell’innalzamento della torre, in quel sito venivano bruciati la brisca (steli di ginestra della Val Bisagno) e il brügo (rami di erica), per tenere acceso un falò durante la notte. Lo scopo di tale operazione era ovviamente quello di segnalare alle navi l’ingresso del porto, onde evitare che queste andassero a fracassarsi contro gli scogli. Tuttavia, proprio per favorire incidenti e usufruire dello jus naufragii (il diritto di appropriarsi di quanto finiva scaraventato sulla costa dopo un sinistro marittimo), spesso durante le notti di tempesta i malviventi soffocavano il fuoco.

    La segnalazione notturna si differenziava inoltre a seconda del tipo di avvistamento dei navigli che si avvicinavano o che stavano per fare il loro ingresso nel porto: una luce più scura (o brûtto) avvertiva della presenza di una nave sospetta, una luce più chiara (o netto) rassicurava sulle intenzioni del nuovo arrivato. Anche di giorno veniva adottata una procedura simile, eseguita però con delle vele e con degli stendardi denominati «coffini».

    Nel 1161 un’ordinanza del Comune stabiliva che ogni nave che approdava nel porto era tenuta a pagare una tassa di attracco per sostenere le spese di accensione del fuoco.

    Miglioramenti tecnologici furono messi in atto durante tutto il xiv secolo. Nel 1321 viene scavato un fossato di difesa, cinque anni dopo la Torre di Capo di Faro è munita di una Lanterna con fiamma alimentata con olio d’oliva, che da quel momento avrebbe metonimicamente dato il nome all’intera Torre. E su questa, nel 1340, sarebbe stato dipinto per la prima volta lo stemma del Comune di Genova. La prima raffigurazione grafica della Lanterna giunta fino a noi è un’immagine disegnata a penna sulla copertina del Manuale dei Conservatori del Molo e del Porto, un volume in pergamena risalente al 1371.

    Lo storico Francesco Podestà così la descrive in quella primigenia rappresentazione:

    Un’edicola dalla forma tonda, alquanto più larga alla base, che è a dire leggermente conica, coperta da una cupola e rinserrata attorno come da una griglia; le verghe cioè di ferro trattenenti i vetri. Quale ornamento la sormonta una palla o globo, munito di un’asta reggente una croce, e tra questa e il globo, una figura di pesce infilzata nell’asta medesima, a modo di banderuola da segnavento, o, come dicono i marini, un pennello.

    Un realistico abbellimento che arricchisce la veduta è costituito dalla sagoma di un uccello, forse un gabbiano, appollaiato su uno dei merli alla base del settore più alto della torre.

    Se poi nel disegno si fa attenzione al fanale in cima, si nota che esso è sezionato in diversi quadrettini. In quegli anni la Lanterna fu munita di vetri prodotti in una manifattura di Altare nell’entroterra di Savona. Già in un atto del 23 aprile 1289 è menzionata l’esistenza di una fornace da vetro in quella località. Ancora nel 1465 ci è giunta notizia di un tal Cristoforo Pizano di Altare, magister et faber vitrorum. I custodi del fanale (torrexani) avevano il compito di badare che i vetri – spesso sottoposti a danneggiamenti o spaccature a causa del vento o dei fulmini – fossero sempre tersi affinché la luce della lampada apparisse più luminosa e brillante.

    Il vetro non era ancora perfezionato. Il primo vetro, entrato in uso proprio nel Medioevo, era spesso e poroso e si anneriva facilmente per via della fuliggine, così il combustibile era variato, secondo le condizioni atmosferiche, proprio per ovviare a questo inconveniente.

    Nel 1318 la Lanterna divenne oggetto di contesa tra le due fazioni cittadine, i rampini (come erano chiamati i guelfi a Genova) e i mascherati (i ghibellini), che in quell’anno erano aiutati dall’esercito lombardo di Marco Visconti, il quale aveva cinto d’assedio Genova.

    «E i Guelfi» scrive l’annalista Giustiniani «fornirono la città e i borghi e la Torre di Capo di Faro d’uomini d’arme e copiosamente. E i Ghibellini posero l’assedio alla nominata torre e davano opere di proibirgli le vettovaglie».

    E l’assedio durò per due mesi, durante i quali gli avversari sottoposero la Torre del faro a un continuo lancio di pietre. I sette guelfi che vi erano asserragliati escogitarono un ingegnoso sistema per rifornirsi di cibarie e munizioni: una sorta di teleferica che collegava la sommità della Lanterna con l’albero maestro di una nave al largo, oltre il cerchio degli assedianti. Un capiente secchio, al cui interno si trovava un uomo, andava avanti e indietro, garantendo l’approvvigionamento. I mascherati, ovvero i ghibellini, decisero allora di minare le fondamenta della Lanterna, incuranti del gravissimo danno che avrebbero provocato all’intera città. A questo punto i sette guelfi si arresero: processati come traditori, furono condannati a una morte orribile.

    Quattro di loro – è ancora Giustiniani a raccontare – furono posti vivi sul trabocco (la macchina lanciasassi adoperata negli assedi, n.d.a.), come fussero state pietre insensibili, e gettati dalla contrada di San Tommaso in mare. E somigliantemente gli altri tre furono gettati dalla contrada di Santo Stefano verso il Bisagno (ovvero dai due ingressi principali della città, n.d.a.).

    Verso la fine del xiv secolo la Lanterna fu utilizzata anche come prigione, o per meglio dire come forzato alloggio regale. Vi soggiornò per qualche tempo, a partire dal 1374, Giacomo i Lusignano, legittimo re di Cipro, il quale fu catturato dai genovesi nell’ambito della guerra per il possesso di Famagosta e del resto dell’isola. Re Giacomo e la moglie Elvira di Brunswick-Grubenhagen, che si sposarono quando lei aveva appena dodici anni, rimasero a Genova come ostaggi per circa otto anni. La maggior parte dei loro figli furono partoriti nella Superba, e uno pare addirittura abbia visto la luce (e non solo quella del fanale) proprio sulla torre della Lanterna.

    Il faro di Genova corse il serio pericolo di essere demolito circa centoventicinque anni più tardi. Caduta la Repubblica sotto la dominazione francese, nel 1507 re Luigi xii ordina la costruzione di una fortezza sul promontorio di Capo di Faro. Questa massiccia e possente roccaforte dovrà servire per tenere imbrigliata la città (impedendone l’accesso da ponente), mantenendola costantemente sotto il giogo militare della Francia. Dai nuovi dominatori infatti è soprannominata Mauvoisine, la Malvicina dei genovesi, mentre da questi è chiamata Briglia. Il progetto, realizzato dall’ingegnere De Spin, prevedeva la demolizione della Lanterna. Ma il Senato della Repubblica donò duecento scudi d’oro al progettista affinché non abbattesse la Torre di Capo di Faro. E difatti la torre fu compresa integralmente all’interno della fortezza della Briglia. Questa era un imponente baluardo a base irregolare che si innalzava sulla scogliera, con due possenti torrioni, uno a levante e uno più basso a ponente. Fu completato in pochi mesi, ma durò pochi anni.

    Il 26 agosto 1514, i genovesi conquistano la fortezza della Briglia, liberando così la Repubblica dalla dominazione francese. Durante l’assedio, però, il fanale, colpito dai proiettili delle bombarde degli assedianti, era rovinato a terra; e anche la parte sottostante della torre presentava delle gravi lesioni. «E sotto l’Abazia di San Benigno», scrive Giustiniani, «verso mezzogiorno, è la torre ossia mezza torre della Lanterna».

    I Padri del Comune decisero per la demolizione dell’intero fortilizio. Il doge Ottaviano Fregoso stipulò un contratto con i maestri Donato de Gallo de Sancto Fideli, Pietro de Gandria, Giovanni Piuma, Michele de Pessolo e Pietro Carlone. L’operazione prevedeva in un primo tempo l’abbattimento delle mura in mezzo alle due torri; quindi anche queste – una volta rimaste isolate – sarebbero state fatte saltare con delle mine.

    La notizia del nuovo modo di utilizzo della polvere da sparo per simile necessità incuriosì non poco Isabella d’Este, moglie del marchese di Mantova Francesco Gonzaga, nonché una delle donne più colte e raffinate del Rinascimento. Isabella aveva fatto della sua corte uno dei maggiori centri culturali dell’epoca, frequentato da intellettuali e artisti come il Boiardo, l’Ariosto, il Bembo, Leonardo e Tiziano. Questi ultimi la ritrassero entrambi. Isabella inviò un suo familiare, tale Paolo Somenza, ad avvertire del suo arrivo il doge stesso e il consiglio dei Magnifici affinché si occupassero dei suoi alloggiamenti. Infatti qualche giorno dopo Somenza inviò una lettera a Isabella: «Et a ciò che la Excellentia Vostra possi vedere la fortezza avanti la sia ruinata, il Signor Duce farà ordinare el desinare a S. Pietro d’Arena, loco fora della citade et a presso a la lanterna, et Vostra Signoria troverà una stantia dove la poterà vedere senza pericolo».

    La marchesa di Mantova fu accolta con ogni onore. Al suo ingresso a Genova i nobili Giovanni Doria, Giovanni Ambrogio Fieschi, Vincenzo Sauli e Agostino De Ferrari le consegnarono preziosi doni e la accompagnarono a visitare la città; inoltre numerose donne ben ornate furono al suo servizio per tutta la durata del soggiorno genovese; che dovette essere molto piacevole per Isabella poiché il vescovo genovese Federico Fregoso, essendosi recato a farle visita a Roma il 2 gennaio dell’anno seguente (1515), riferì che la marchesa «molto si ricorda et lauda, delle carezze et honori ricevuti in esta Cità».

    Negli ultimi giorni di settembre del 1514, dunque, la fortezza fu rasa al suolo con l’utilizzo di polveri incendiarie e di una «mistura dirompente». La prima torre a saltare fu quella verso Sampierdarena; in data 22 settembre 1514 risultano pagate «lire 172.12.6 (172 lire, 12 soldi, 6 denari, n.d.a.)» a maestro ingegnere Nicolò da Bugnato per le spese «in la lanterna a far quatro mine in lo torrone de sancto petro de arena». Poi seguì la demolizione delle altre: ne fa fede un pagamento di lire 347 allo stesso maestro Nicolò per il prezzo delle mixturarum in usum mine lanterne.

    Quel troncone di torre che apparve quando i fumi delle demolizioni si diradarono dovette rimanere tale fino al 1543.

    Il 13 marzo di quell’anno le autorità competenti effettuarono un sopralluogo insieme a molti maestri antelamici. Il prete Giuliano Castruccio fu incaricato di disegnare la forma del nuovo fanale. Per la ricostruzione sarebbe bastato un solo anno e alla fine dei lavori la Lanterna avrebbe avuto un’altezza superiore a quella precedente. La riedificazione va attribuita a Francesco di Gandria o più probabilmente all’ingegnere milanese Giovanni Maria Olgiati, al quale la Repubblica aveva affidato l’erezione della cinta muraria di tutta la città. Al maestro evangelista di Milano spettava invece il compito di dipingere lo stemma del Comune sul lato orientale della torre inferiore.

    La Lanterna dovette subire un altro bombardamento poco meno di centocinquant’anni più tardi. Questa volta, nel maggio del 1684, furono le bombe francesi lanciate dall’armata navale del Re Sole che per dieci giorni flagellarono la città, a danneggiare seriamente il fanale della torre. Tutti i vetri furono infranti e per diverso tempo rimase inutilizzabile.

    Non solo gli eventi bellici, ma anche quelli naturali misero a repentaglio l’integrità della Lanterna. Nel 1481 un fulmine si abbatté contro la torre e andò a colpire lo stemma dipinto dei Fregoso, una delle più importanti e potenti famiglie della città. Poiché la saetta vi formò tre buchi, si pronosticarono ancora tre anni di governo per il doge in carica, Battista di Campofregoso. Fatto che si verificò puntualmente. Nel 1596 ancora un fulmine danneggia la Lanterna e ferisce i figli del custode. Nuovamente nel 1602 una folgore provoca delle lesioni alla struttura. In conseguenza di ciò, e con evidente intento apotropaico, l’anno successivo vengono murate, su ciascun lato della torre, delle lapidi con la seguente iscrizione: «Jesus Christus rex venit in pace et Deus homo factus est» (Gesù Cristo Re venne in pace e Dio si è fatto uomo). Altri danneggiamenti causati dai fulmini si verificheranno nel 1675 e nel 1702. Il 3 novembre di quest’ultimo anno viene deliberato di riparare gli angoli della torre «rovinati dal tuono» e di far dipingere all’esterno l’immagine di san Cristoforo, invocato, tra le altre iatture, contro la morte improvvisa, come poteva essere quella provocata da un fulmine.

    Nulla tuttavia poté quella sacra immagine per salvare la vita del nipote di un custode che nel 1778 venne incenerito da una folgore. In seguito a questo evento, un fisico di origine inglese dell’Università di Genova, padre Glicerio Sanxay, fu incaricato di installare sulla cima della Lanterna la recente (all’epoca) invenzione di Benjamin Franklin: un parafulmine.

    Non solo fatti drammatici o luttuosi ebbero luogo sulla Torre di Capo di Faro. Anzi, essa fu teatro di spettacoli di funamboli denominati Voli dalla Lanterna. Come quello avvenuto nel 1643, quando un equilibrista si destreggiò nella discesa lungo un cavo teso dal culmine del faro fino a un barcone galleggiante al centro del porto. L’emozione provata per questo «rarissimo spettaculo» attanagliò i cinquantamila spettatori che assistettero all’impresa dalle mura, dai moli e dalle imbarcazioni («galere, feluche, barchetti»). L’ultima esibizione dello stesso genere ebbe luogo nel 1749: due ballerini del teatro Sant’Agostino si disimpegnarono in un’analoga discesa che però fu effettuata in notturna.

    Ebbene, accadde anche questo all’ombra della Lanterna. A dire il vero – se fossimo vissuti tra il xiii e la seconda metà del xvi secolo – avremmo detto all’ombra delle (due) Lanterne. Infatti si ha notizia che intorno al 1282 all’estremità del Molo esisteva una torre sulla cui sommità alcuni addetti avevano il compito di accendere una lampada a beneficio delle navi che entravano in porto durante la notte. La torre è citata dal cosiddetto Anonimo genovese – che probabilmente di nome proprio faceva Luchetto – in una composizione poetica dei primissimi anni del Trecento: «En cò sta sempre un gran fanâ / chi a le nave mostra intrar / contra l’atro de Cò-de-fâ / chi i lonzi è fò(r’) un mijar (In cima [al Molo] è installato un grande fanale / che mostra alle navi l’ingresso del porto / ed è di contro all’altro [fanale] di Capo di Faro / che è lontano e fuori di un miglio)».

    In un documento del 1315, destinato alla moglie Costanza, Brancaleone Doria (reso celebre da Dante che lo scaraventa all’Inferno, pur essendo ancora in vita quando fu scritta la Commedia) fa riferimento proprio alla torre del Molo: ad modulum prope lanternam (al Molo presso la Lanterna).

    Nel 1326 sulla Lanterna del Molo (probabilmente riedificata per l’occasione in dimensioni più imponenti), viene installato un fanale più grosso di quelli fino ad allora utilizzati e – come abbiamo visto anche per la Lanterna di Capo di Faro – con la fiamma alimentata a olio.

    La Torre, che da allora in poi sarebbe stata denominata Lanterna magna o dei Greci – poiché si trovava attergata a una piccola loggia, detta appunto dei Greci o di San Marco – era adornata nella parte più alta da un gallo in bronzo, simbolo della vigilanza. Serviva anche da fortilizio a difesa del porto e della città; nel 1425 venne munita di bombarde e alcuni balestrieri che andavano ad aggiungersi ai sei guardiani di guarnigione. «(Genova) ha un buon porto», scrisse il castigliano Piero Tafur nel 1435, «un molo con una torre ed una lanterna che arde tutta la notte; dall’altra parte del porto c’è un’altra torre molto alta con una seconda lanterna, perché si scorga l’entrata del porto; tutto questo fatto con grande impegno di danaro».

    Qualche decennio più tardi altri due scrittori si soffermarono sulle strutture portuali e in particolar modo sulle due Lanterne. Anselmo Adorno, che viveva nelle Fiandre, conosceva bene il porto della città dei suoi avi, di cui ci tramanda una lunga descrizione redatta nel 1470:

    Vi sono infatti tre moli che penetrano nel porto, come ponti senza volte, e che entrano come fondamenta in mare: uno di questi è molto lungo e largo e reca sulla sommità un ampio camminamento, presso cui è una torre molto alta con una lanterna in cima che ogni notte fa luce a coloro che entrano o escono… Dall’altro lato del porto su di una rupe naturale che avvolge il porto c’è parimente un’altra torre, chiamata di Capodifaro, che reca sulla sommità un’altra lanterna per mostrare la strada di notte a coloro che entrano. Queste lanterne sono grandi quanto un vaso d’olio.

    Vedrai il Molo – scrisse Antonio Ivani nell’aprile del 1473 –, opera ardua compiuta dall’uomo, con cui è costruito il porto: al suo inizio vedrai due torri che di notte producono due grandi luci per mostrare l’ingresso del porto, la più alta delle quali, sita su di un promontorio, con una o più vele suole mostrare alla città con chiara luce tante navi o triremi quante se ne offrono alla vista dall’alto.

    Se dalle testimonianze scritte passiamo a quelle illustrate, quanto descritto finora dai vari autori ci appare in tutta la sua evidenza.

    È chiara la visione delle due Lanterne nella Carta nautica del Mediterraneo del cartografo genovese Battista Beccari del 1435 e ancor più lo è nella xilografia del pittore e tipografo tedesco Michael Wolgemut. L’immagine si trova in una delle milleottocento tavole che corredano il libro Historia mundi di Hartmann Schedel, meglio conosciuta come Cronaca di Norimberga, una storia universale che da Adamo ed Eva giunge sino al 1493. Tutte le immagini furono colorate successivamente alle incisioni.

    L’opera più conosciuta di un pittore genovese (per la precisione polceverasco) della fine del xvi secolo – Cristofaro Grasso, ma che sui quadri soleva firmarsi Cristophorus De Grassis – raffigura la pianta prospettica di Genova, a volo d’uccello e vista dal mare, nella seconda metà del Quattrocento. Essa celebra un importante evento accaduto nel 1481, quando il papa savonese Sisto iv noleggiò a Genova un’imponente armata navale (che occupa la parte in basso del quadro), comandata dal cardinale Paolo Fregoso già due volte doge e destinato in seguito a un terzo dogato. Questa flotta, unita a quella papalina e alla squadra navale del re di Napoli, fu allestita onde impedire gli approvvigionamenti dei turchi alla loro base di Otranto. In realtà Grasso utilizzò un dipinto precedente, forse realizzato nel 1488 e andato perduto. Orbene, in primo piano torreggia la Lanterna del Molo, in opposizione a quella, più alta, di Capo di Faro. Se il dipinto fosse stato realizzato dal vivo nella data indicata sul cartiglio del quadro (1597), e non fosse un rimaneggiamento di un dipinto del secolo precedente, Grassi non avrebbe più raffigurato la Lanterna del Molo.

    Tra gli avvenimenti più significativi dell’anno 1527 l’annalista Giustiniani scriveva: «E quest’anno si è riparata la Torre della luminaria (del Molo, n.d.a.), con la loggetta che vi è vicina» e questo «affinché possa illuminare tutt’intorno e fornire una luce alle navi che entrano nel porto nottetempo». Cinque anni dopo nuovi restauri al tetto, al pavimento del ballatoio dove c’era il fanale e alla volta. Ancora nel 1541 Francesco De Gandria, maestro antelamico, vi costruisce nuovi piani e ballatoi. Insomma, una ristrutturazione continua. Nel 1577 al raguseo Nicola de Alegretis è concesso di deporre nella Torre del Molo gli attrezzi della sua nave, dal che si evince che l’edificio veniva utilizzato sempre di meno nella sua funzione originaria. La campana a morto per l’antica Torre arrivò il 26 agosto 1587 quando – nell’ambito della realizzazione delle nuove fortificazioni a mare – si progettò la costruzione di un baluardo sul Molo in difesa del porto che sarebbe sorto in illo loco in quomodo est turris (sullo stesso luogo dove si trova la torre).

    2. …sono esposte due lapidi con iscrizioni arabe conquistate dai genovesi in Outremer

    Le atrocità, le barbarie e le efferatezze perpetrate dalle milizie del cosiddetto califfato dell’Iraq e della Siria, non sono altro che un tristo, seppur abnorme e allucinante, ritorno al passato, peraltro per ammissione dello stesso califfo al-Baghdadi. Un passato durato circa un millennio (dall’viii secolo ai primi decenni del xix) durante il quale le coste del Mediterraneo furono flagellate dalle incursioni dei pirati saraceni, barbareschi, mori e infine turchi. Le cosiddette torri saracene, costruite per l’avvistamento delle navi dei predoni musulmani e sparse in gran numero lungo le coste italiane, sono la testimonianza tangibile di queste scorrerie.

    L’Impero islamico, mentre espandeva il proprio dominio manu militari dall’area indo-iranica alla penisola iberica, Sicilia compresa, contemporaneamente consolidava le conquiste con le esenzioni fiscali per chi si convertiva alla religione del Profeta. Con una certa soddisfazione, bisogna dire, soprattutto delle popolazioni che risiedevano entro i domini dell’Impero romano d’Oriente, le quali preferivano di gran lunga abbracciare una nuova religione piuttosto che sottostare al giogo tributario loro imposto dal governo di Costantinopoli, celebre per la sua rapacità. Di buon occhio erano viste inoltre, se non apertamente favorite e supportate dai vari califfi ed emiri, le azioni di pirateria, come atto in qualche modo conforme alla jihad, poiché rivolte contro popolazioni infedeli. Anche intorno alla presunta tolleranza nei confronti di chi voleva continuare a professare la propria religione (la cosiddetta Gente del Libro) nei paesi sottomessi dai maomettani vanno sfatati molti luoghi comuni. Ai popoli conquistati – ebrei, cristiani o mazdei – cioè a coloro che erano denominati dhimmi, era concesso di continuare a praticare il proprio credo solo dietro il pagamento di tasse come la jizya ed eventualmente il kharāj, ma erano costretti ad assoggettarsi anche a numerose norme discriminatorie. Il Patto di ‘Omar – redatto nel 637 o forse nel 717 per disciplinare i rapporti sociali ed economici con gli abitanti nei territori conquistati dai musulmani – enumera dettagliatamente queste regole. Secondo alcune di tali disposizioni ai dhimmi non era permesso fare proseliti, edificare luoghi di culto né restaurare quelli esistenti, andare a cavallo; non potevano possedere case che superassero in altezza quelle dei musulmani ai quali dovevano cedere il passo e alzarsi in piedi quando ne entrava uno. Dovevano pregare al chiuso e con le finestre sbarrate e non potevano avere armi con sé. Nella Spagna islamica gli ebrei, oltre al celebre copricapo giallo, erano obbligati a portare appeso al collo un pesante vitello di legno – disonorevole ricordo del Vitello d’oro nell’Esodo – e i cristiani una croce altrettanto pesante. Anche la modalità di pagamento del tributo di protezione prevedeva un umiliante procedimento: il pagatore a capo chino, una volta eseguito l’esborso, doveva sopportare un mortificante scappellotto sulla nuca da parte del magistrato incaricato di riscuotere. Il livello di tolleranza poi, dipendeva dal grado di integralismo (diremmo oggi) dei vari sultani ed emiri.

    Nell’827 ha inizio l’invasione araba della Sicilia; quattro anni più tardi, dopo circa dodici mesi d’assedio, capitola Palermo dove i saraceni massacrano, secondo le fonti locali, sessantamila abitanti. Poi Messina (843), Siracusa (878) (qui sono solo cinquemila i cittadini trucidati) e infine Taormina (902). Nell’848, nel frattempo, si era costituito l’Emirato di Sicilia che – seppur suddiviso a partire dal 1019 in tre emirati minori – avrà vita fino al 1091 con la definitiva conquista dell’isola da parte dei normanni. Nell’841 Bari cade sotto il dominio dei berberi di Khalfūn e per circa un quarto di secolo la città pugliese sarà la capitale dell’emirato omonimo. La stessa Roma, nell’846, era stata saccheggiata dalle orde saracene. Non riuscendo a entrare all’interno delle Mura Aureliane, gli assalitori depredarono e misero a ferro e fuoco tutto il territorio circostante, rapirono donne e bambini e profanarono le tombe degli apostoli Pietro e Paolo.

    Novant’anni più tardi dovette subire la medesima sorte anche Genova, già allora importante centro urbano marittimo, da tempo nel mirino del nucleo saraceno di La-Garde-Freinet in Provenza: proveniente dalla Spagna e insediatosi nel territorio allora definito Fraxinetus, effettuava regolarmente incursioni nelle Riviere e nell’entroterra. Tuttavia le scorrerie di questa colonia saracena non si spinsero al di là di Albenga: Savona, Noli (di lì a un paio di secoli sarebbe stata protetta da possenti mura e da settantadue torri) e Finale rappresentavano dei limiti invalicabili. Era noto peraltro che le fila degli arabi del Frassineto, oltre che dai mussulmani provenienti dall’Africa, la Sicilia e soprattutto dalla Spagna, venivano rimpinguate anche da cristiani appartenenti alle classi più umili, da chi voleva affrancarsi dalla servitù della gleba o da quelli che erano stanchi di essere vessati dai tributi di vescovi e conti. Tutti questi venivano denominati pravi homines (uomini malvagi). Lo storico Ubaldo Formentini così analizza tale fenomeno:

    Il passaggio dei saraceni deve aver suscitato un vero movimento rivoluzionario in senso antiecclesiastico e, sotto certi aspetti anche economico e politico. I saraceni presero sì di mira i monasteri, le chiese ed i grandi latifondi, perché vi erano accumulate le maggiori ricchezze e i tesori di cui andavano avidi; ma la spinta a devastare in questa direzione proveniva soprattutto dai pravi homines ad essi associati.

    A Genova il pericolo dei pirati saraceni s’era avvertito già nel 780 quando, per la difesa dei litorali del Mediterraneo, Carlo Magno aveva dato ordine di allestire due flotte: la Classis Aquitania e la Classis italica. Vent’anni più tardi la Superba – che dall’ordinamento carolingio è stata inserita nella regione denominata Litora maris – è governata dal primo comes (conte) di cui si abbia notizia, tale Hadumarus. Questi allestisce una flotta per liberare la Corsica dal dominio saraceno e il compito di seguire le operazioni di costruzione dei legni è affidato al notaio Ercanbaldus. Nell’806 Pipino, succeduto al padre Carlo Magno, inasprisce la lotta contro i saraceni della Corsica e a tale scopo invia una grande flotta composta anche da navi genovesi al cui comando si pone lo stesso Hadumarus. Nello scontro navale il comes genovese perderà la vita in un eccesso di temerarietà («imprudenter contra eos dimicans, occisus est»).

    In realtà il capoluogo ligure con le sue ricchezze faceva gola anche a personaggi di più alto rango delle bande arabe del Frassineto.

    Agli inizi del x secolo i Fatimidi, i membri di una dinastia sciita ismailita, resisi indipendenti dagli Abbasidi di Baghdad, avevano fondato in Ifrīqiya (comprendente l’attuale Tunisia, parte dell’Algeria e della Cirenaica) un califfato indipendente. La loro politica mirava a garantirsi il controllo del Mediterraneo occidentale, proprio dove le navi genovesi stavano sviluppando una crescente attività mercantile. Nel 931 il califfo Obeid ordina all’emiro di Sicilia di allestire una

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