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Il calzare della sposa. Una nuova indagine per il commissario Ludovico Ariosto
Il calzare della sposa. Una nuova indagine per il commissario Ludovico Ariosto
Il calzare della sposa. Una nuova indagine per il commissario Ludovico Ariosto
E-book351 pagine4 ore

Il calzare della sposa. Una nuova indagine per il commissario Ludovico Ariosto

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Info su questo ebook

Aprile 1522. Fiera di Pasqua. Ludovico Ariosto è Commissario Estense in Garfagnana. Tra i banchi del mercato e il caleidoscopio colorato delle merci esposte, riluce il bellissimo volto di Evelina, una splendida fanciulla promessa in sposa ad un facoltoso ragazzo del luogo. Anche se Ludovico appare piuttosto insofferente nello svolgere le sue nuove mansioni e si sente stretto nella morsa dei suo infausto destino, Castelnuovo è in fermento, gli affari dei mercanti vanno a gonfie vele, i briganti sembrano essere stranamente tranquilli… ma la pace dura poco. La giovane sposa scompare a pochi giorni dal matrimonio. Di lei si trova solo un calzare, nei pressi del Ponte del Borso. Si sarà gettata nel torrente? O L’avranno uccisa?
Il corpo non si trova e, strada facendo, le indagini prendono forme inaspettate, si affacciano nuove ipotesi che si diramano tra i loschi intrighi delle due avverse fazioni. Affondano nel fango della malvivenza endemica, dentro cui sguazzano i banditi più derelitti, all’ombra dei banditi più titolati. 
Ariosto, nel suo inconsueto ruolo di Commissario, è chiamato a districare questa “nodosa” matassa e, come al solito, si avvale dell’aiuto di Jacopo il baricello del luogo, ormai divenuto il suo collaboratore più fidato. Ne verrà a capo? 
In un contesto dove anche le pulci hanno la tosse non è così scontato!
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2022
ISBN9788832281743
Il calzare della sposa. Una nuova indagine per il commissario Ludovico Ariosto

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    Anteprima del libro

    Il calzare della sposa. Una nuova indagine per il commissario Ludovico Ariosto - Lida Coltelli

    Copyright

    © Argot edizioni

    Lucca, luglio 2022

    ISBN 978 88 32281 743

    www.tralerighelibri.it

    dedica

    Ai miei adorati genitori

    Coltelli Giuseppe e Giannasi Francesca,

    alle mie straordinarie figlie Livia e Iris

    e al mio compagno Marcello.

    CONTESTO STORICO DI RIFERIMENTO

    Alla fine del Medioevo, con la scoperta dell’America, si aprì un nuovo capitolo storico, caratterizzato da profondi mutamenti geografici e politici. S’innestarono nell’antica struttura feudale nuovi modelli di vita economica e sociale. Cambiarono le abitudini, i modi di vivere, le consuetudini alimentari. Si assisté a un notevole sviluppo delle arti e delle scienze ma anche ad una grave crisi religiosa, al grande scisma che dilaniò la Chiesa cristiana.

    l’Italia divenne, in questo periodo, l’epicentro di una significativa trasformazione intellettuale. Le corti si riempirono di artisti, scienziati, letterati e politici: Leonardo, Michelangelo, Boiardo, Ariosto, Guicciardini e Machiavelli, tanto per citarne alcuni. Nel contempo, però, si avviò verso una profonda crisi politica e sociale.

    La penisola italica aveva tratto ben pochi benefici dalle scoperte geografiche che, invece, avevano sensibilmente arricchito Francia, Inghilterra, Spagna, Olanda e Portogallo. Era stata, di fatto, tagliata fuori da tutte le conquiste coloniali e di conseguenza dai più dinamici traffici commerciali internazionali.

    Il Mediterraneo aveva perso d’importanza in seguito allo spostamento dei commerci sulle rotte dell’Atlantico che collegavano Europa e America e mentre gli Stati europei incrementavano il loro potere politico e militare, gli staterelli italiani si preparavano a diventare le prede ambite e contese dei sovrani stranieri.

    L’equilibrio tra i vari staterelli e i quarant’anni di pace vissuti all’ombra dei Medici si erano retti più sulle diffidenze reciproche e sul timore delle mire espansionistiche di ciascuno che non su una sentita armonia e comunione d’interessi.

    Così quando Francia e Spagna si concentrarono sull’Italia, la fragile stabilità italiana, già traballante e sovvertita nel suo intimo, crollò nella collisione con le grandi potenze. I piccoli signorotti locali che a suo tempo avevano ritenuto una buona idea persino quella di chiedere il loro aiuto (è il caso di Ludovico il Moro, ad esempio, o dei baroni napoletani per via degli Aragonesi), non si mostrarono in grado di opporre una valida resistenza e nel giro di pochi decenni molti Stati italiani caddero sotto l’odiato dominio straniero.

    In Garfagnana:

    Nel 1512, Alfonso D’Este, duca di Modena e Ferrara, venne costretto a difendere i propri territori dalle mire espansionistiche del Papa Giulio II. L’ambizioso Pontefice aveva invaso, assieme ad altri territori estensi, anche la Garfagnana, pur non tenendola occupata.

    Nell’ottobre dello stesso anno, Lucca, traendo vantaggio dal conflitto e dalla conseguente debolezza di Alfonso, conquistò Castelnuovo.

    Il Papa furente minacciò di marciare con i suoi eserciti contro gli arroganti Lucchesi, ma la morte sopravvenuta nel febbraio del 1513 gli impedì di attuare i suoi bellicosi propositi. Tuttavia, qualche mese dopo, Lucca, allarmata dalla notizia di un grosso esercito estense pronto a riprendersi i propri possedimenti, si convinse dell’opportunità di trattarne la restituzione.

    Nel settembre del 1521 Papa Leone X, succeduto a Giulio II, ordinò ai Fiorentini di occupare la Garfagnana ma, ancora una volta, la morte del Pontefice offrì ai Garfagnini l’occasione di ribellarsi al potere di Firenze.

    L’8 dicembre del ’21 il commissario pontificio Bernardino Ruffo fu costretto a fuggire da Castelnuovo e gli Estensi tornarono in possesso dei territori occupati.

    Il 7 febbraio del 1522 Ariosto venne nominato Governatore della Garfagnana. Il 20 febbraio, Ludovico, dopo un lungo viaggio, arrivò a Castelnuovo e prese possesso di quella Rocca che divenne la sua prigione per i tre anni a venire.

    La provincia era divisa in due diocesi e quattro vicarie, Camporgiano, Castelnuovo, Trassillico e le Terre Nuove, ed era una terra di difficile Governo, come ebbe più volte ragione di costatare il poeta.

    Sanare gli endemici problemi di un territorio economicamente deficitario, conteso tra troppi signori, infestato da ladri e briganti e, cosa non secondaria, abitato da gente orgogliosa e allergica alla sottomissione, avrebbe rappresentato un’ardua impresa e un’impegnativa sfida per chiunque, ma… per il letterato Ariosto rappresentò, soprattutto, un’immeritata infausta condanna.

    Era relegato in un paese in cui "accuse e liti sempre e gridi ascolta / furti, omicidi, odi, vendette et ire".

    Tuttavia si rimboccò le maniche, "Tornar a dietro ormai non m’è concesso" e, armato di buona volontà s’adoperò fin da subito affinché la situazione migliorasse.

    Passava molto del suo tempo a compilare registri, a scrivere dispacci, a tenere in ordine i conti…

    Era obbligato ad interessarsi di qualunque questione, dalle più futili, come il "rubamento di un mulo o una fraude commissa di formaggio, a quelle più gravi come le controversie con le Province confinanti (è il caso di Vagli contro Seravezza, nel territorio di Pietrasanta sotto la giurisdizione dei Fiorentini) o gli assassinamenti" che erano all’ordine del giorno.

    Dalle stanze della sua vincolata dimora scriveva al suo Duca, che sembrava non prestare troppa attenzione alle sue proteste. Le 157 lettere superstiti di Ludovico sono una diretta testimonianza delle sue continue richieste di supporto e dei suoi tentativi infruttuosi di modificare favorevolmente un quadro globale così travagliato.

    Sempre nelle lettere ricorrono i nomi dei banditi più temuti (il Battistino Magnano, il Bernardello e il Bertagnetto, il Costa, il famigerato Moro del Sillico…) ma anche degli illustri cittadini di Castelnuovo della fazione italiana che gli dettero un ragguardevole filo da torcere durante tutto il suo mandato ("il Bastiano Coiaio… il Pierino Magnani… et Evangelista Silici", tanto per citare qualche nome).

    Le lamentele epistolari coinvolgono anche la ristretta cerchia dei suoi collaboratori, i Capitani di Ragione, mossi soprattutto dai propri interessi, e i vari capitani dei balestrieri (se ne succedettero tre durante il suo mandato, primo dei quali fu quel Giovanni Navarra "lo Spagniuolo" verso il quale nutriva poca simpatia).

    La fitta corrispondenza, in particolare con il Podestà della fiorentina Barga e con gli anziani di Lucca, costituiscono la prova del suo impegno nel mantenere un dialogo costante e rapporti di buon vicinato con le potenze circostanti, alle quali spesso ricorse con forti richiami alla collaborazione nell’intervento sincronico atto a debellare la calamitosa piaga del banditismo garfagnino.

    Il suo mandato durò dal 7 febbraio 1522, data in cui fu nominato Governatore dal suo Duca Alfonso D’Este, al 31 maggio del 1525. Momento fortemente agognato dal poeta che, finalmente, potè far ritorno alla sua vita di un tempo e alla sua adorata Alessandra Benucci.

    Venerdì 18 aprile A.D. 1522

    Venerdì Santo

    Jacopo, il Baricello di Castelnuovo Garfagnana, si trovava in Chiesa, come, del resto, la quasi totalità degli abitanti del luogo.

    Finalmente un posto in cui si sentiva tranquillo, circondato da gente in cerca di quiete e non di guai.

    Così, una volta tanto, dimentico del suo ruolo inquisitorio, si guardava attorno con aria rilassata.

    E lasciava vagare lo sguardo qua e là, senza troppo interesse, dalla vetrata sul grande portale, all’organo decorato in oro, all’altare del Santissimo…

    Il parroco officiava le funzioni del Venerdì Santo e lui ripeteva le rituali frasi latine in modo automatico, senza, peraltro, comprenderne il significato.

    C’era, tuttavia, nello scenario qualcosa d’anomalo.

    Poi comprese.

    Il crocefisso era coperto con un drappo scuro.

    E realizzò, al contempo, che nemmeno le campane, che erano solite scandire i ritmi delle usuali attività cittadine, s’erano fatte sentire per buona parte del giorno.

    Nessun tintinnio, né rintocco.

    Rivide per un attimo sua nonna, da bambino.

    Le campane non suonano in questi die, – gli spiegava dolcemente tenendolo seduto in grembo. – Le tengano legate in segno di lutto.

    Il simultaneo movimento dei fedeli che s’inginocchiavano dissolse rapidamente il labile ricordo, lasciando stampata sul suo volto l’ombra leggera d’un sorriso.

    Si trovava sul lato destro dell’entrata, proprio davanti all’altare di San Giuseppe e, osservando gli angeli del quadro, lasciava vagare la mente da un pensiero all’altro.

    Poco più in là, nei primi banchi disposti a corona, davanti all’altare centrale, sedeva il Commissario Ducale con il figlio Virginio. Un ragazzetto appena tredicenne che, accortosi della sua occhiata, gli sorrise.

    Di poco dietro, in quarta fila, c’era Filippa, la dama più bella e più ambita di tutto il circondario, accompagnata dalla madre e dalla sorellina minore.

    Durante la cerimonia della sera precedente, "dum lavantur pedes", la ragazza gli aveva sorriso ammiccante e lui ne era stato molto lusingato.

    – CRUCEM TUA ADORAMUS DOMINE… – stava dicendo il prete Nicolao.

    E la giovane s’unì alla risposta unanime dei fedeli, con un delizioso cipiglio della fronte.

    La sua fama era davvero meritata, si disse.

    Improvvisamente s’accorse d’avere fame.

    Non aveva mangiato tutto il giorno.

    In questo, Ariosto era stato categorico: – Gliè necessario observar lo digiuno absoluto in memoria de la morte di Nostro Signore.

    E, su quel versante, non avrebbe neppure potuto contare su uno strappo alle regole da parte della Velia, ligiosissima e rispettosissima dei dettami religiosi, oltre che fervida credente.

    A proposito della serva dell’Ariosto.

    Dove s’era cacciata?

    Si volse velocemente in giro, fino a giungere con lo sguardo sul fondo della Chiesa, verso l’uscita.

    Fu allora che la vide. Era in compagnia della sua amica Lucetta e quell’altra, l’Armandina, la serva dei Ponticelli.

    Intanto s’era levato un canto:

    "STABAT MATER DOLOROSA

    IUXTA CRUCEM LACRIMOSA

    DUM PENDEBAT FILIUS…"

    La voce di Velia si confondeva tra le tante del coro.

    Ma lui era certo che fosse la più melodiosa.

    Sabato 19 aprile A.D. 1522

    Santa Marta, vergine e martire

    Sabato Santo

    Ludovico s’era alzato di buon’ora e da un po’ di tempo indugiava, immobile, di fronte alla finestra, perso nel suo solitario ed errabondo fantasticare.

    Sognava di foreste e di fiumi, di streghe e di donzelle, di paladini e ippogrifi.

    Un’occhiata alla missiva aperta sul suo scrittoio lo riportò bruscamente alla sua dolente realtà e non potè fare a meno di canzonare, ad alta voce, se stesso:

    "Quindi per aspro e faticoso calle

    Si discendea ne la profonda valle!"

    Doveva rispondere immediatamente al Duca. Per quanto la cosa non lo entusiasmasse affatto.

    In quei giorni c’era stata l’elezione del potestà di una delle quattro vicarie in cui si divideva la Provincia.

    Per prassi giuridica sarebbe dovuta avvenire sotto la diretta regia del Commissario, coadiuvato da un gruppo di uomini del luogo, preposti a tale incombenza.

    Ma gli uomini di Trassillico, contravvenendo alla consuetudine, forti di una straordinaria concessione di Alfonso I d’Este, avevano provveduto in sua assenza.

    Se non che, il duca s’era preoccupato, a stalla chiusa, di quanti buoi fossero scappati.

    Per farla breve, gli aveva chiesto d’indagare sia sulle procedure inerenti alla nomina, sia sull’uomo eletto.

    La scelta era ricaduta su un certo Tommaso Micotti, di cui non era riuscito a sapere granchè. Salvo l’essere figlio di uno stimato notaio di Camporgiano e cognato del Pierino Magnani.

    Quel Pierino Magnani che lui aveva, forse a torto, sospettato di essere un cospiratore.

    Sbuffando si diresse verso la piccola scrivania.

    Si rese conto di essere ancora in pianelle e veste da camera.

    Forse avrebbe dovuto chiamare Antonino perché gli preparasse, intanto, gli abiti da indossare, visto che spesso perdeva la cognizione del tempo con assoluta facilità.

    Ma vi rinunciò.

    Tanto c’era ancora un grosso margine prima che Virginio lasciasse il tepore del letto e che il suo amico Benedetto, il figlio dell’avvocato Granduchi, arrivasse per la consueta lezione di latino.

    Si era preso l’impegno di erudire entrambi nella lingua dei dotti, ma non gradiva che gli ospiti lo trovassero con abiti dimessi.

    Tuttavia, non aveva proprio voglia di alzarsi di nuovo dalla sedia per andarsi a preparare.

    Al momento era a suo agio così!

    Tolse il coperchio con l’amorino al suo calamaio prediletto, che l’aveva seguito ovunque.

    Fece un respiro profondo, come a darsi la carica, e intinse il pennino nell’inchiostro.

    Illustrissimo et Excellentissimo Signor mio.

    Vostra Excellentia a questi dì mi ha dato commissione ch’io m’informi come sia stata fatta quella ellettione per gli homini di Trasilico del lor potestade: se iuridicamente e secondo il consueto, o pur altrimenti; et oltra di questo, ch’io pigli notitia de la condicione de l’huomo e ch’io la riferisca. Vostra excellentia dunque intenderà che soleva essere costume che, insieme con alcuni homini deputati da quella Vicaria, il Commissario faceva la ellectione, la quale appresso vostra excellentia confirmava; ma poi da quella fu lor concesso che essi, senza il commissario, potesson far la ellectione del lor potestade, che essa poi havea da confirmare, se le parea: et acciò che vostra excellentia ne sia più chiara, le mando le coppie de le lettere su le quali questi homini di Trasilico si fondano. Circa alla condicione de l’homo, per quanto a me para e per quanto io me n’ho potuto informare, è assai tenuto homo da bene, secondo gli altri che son qui: è vero che egli e Pierino Magnano hanno per lor mogli due sorelle, et al presente habitano amendui ne la casa de la lor suocera, l’uno per sospetto e per essere più sicuro dentro da le mura in casa de la suocera, che nel Borgo dove ha la propria casa: e questo è Pierino; e l’altro per essere da Camporeggiano e non havere casa qui. Amendui entrano per una porta, ma le lor stanze, secondo ch’io intendo, hanno separate, e ciascuno mangia da sua posta. Che costui séguite parti, non ne fa dimostratione extrinseca, ma so ben che Bastiano Coiaio, un figliolo del quale è cognato di costui e di Pierino (perché ha l’altra sorella), ha fatto la pratica per far che costui sia potestade; e che Bastiano l’habbia fatto a qualche suo disegno, più presto si può dubitare che non, perché lui non ho a modo alcuno per persona neutrale, anchora che si sforzi di farlo credere a me. Tuttavia vostra excellentia può essere certa che, havendo da essere potestade di Trasilico homo di questo commissariato (non voglio dir di Castelnovo solo), è forza che sia notato o per bianco o per nero; e se ben non fusse in effetto (il che serìa difficillimo a trovare), pur serà sempre in sospetto ad una de le parti. Il padre di costui è un Ser Giovanni, notaio e procuratore a Camporeggiano, il quale, al tempo che Luchesi hebbono questa provincia, fu mandato da loro ad un suo castello detto Camaiore per notaio. Ch’egli fusse in trattato mi serìa dificile a ritrovare per la verità, perché s’io ne dimanderò la parte ittaliana mi diranno che non fu vero, e che egli è un homo da bene; s’ i’ dimanderò la francese, tutti mi diranno che fu vero, e mi aggiungeranno tutto il male che imaginar si potranno; ma sia il padre come si voglia, ché da quella macchia in fuore, che potria essere così falsa come vera, non ne sento dir se non bene. Il figliolo è assai costumata persona, et essendo già stato elletto, et havendo da la ellectione in qua sempre fatto l’officio del potestade, non potria essere demesso senza suo gravissimo scorno et ignominia: e parendomi che la intentione di vostra excellentia sia più presto di gratificarsi questi homini che dar loro alcuna mala contentezza, poi che quella si è degnata in questo dimandare il mio parere, io dirò che mi parria che costui non fussi rimosso per porre in quel luogo alcun altro di questa terra, perché potria essere causa di dar principio a qualche altra nimicitia. Suggiungerò bene che non serìa se non ben fatto, che venendo li homini di Trasilico a Ferrara, come son per venire, che vostra excellentia operassi che fussino contenti di far che’l capitano de la Ragion di Castelnovo fusse anchora suo potestade, con capitolo expresso che havesse a procedere secondo li loro statuti, perché, così facendo, l’officio del capitano si faria migliore, e vostra excellentia potria mandare qui un doctore di qualche sufficientia, che con questa aggiunta v’havria da poter star meglio: ch’ogni modo il potestade ch’essi elleghono sta sempre a Castelnovo, e se voglion ragione son sforzati a venir qui, et adpresso hanno le più volte per potestade persona che sa a pena leggere; poi non è possibile ch’ellegano potestade di questo luogo che non sia partiale. Volerne mandare a tôrre un di fuore, o che stia là con loro, l’officio non può far la spesa. La ostinatione di volere un potestade particulare depende da dui o tre villani che governan quel commune, che ogni anno, quando per un paio di calce, quando per un fiorino o dui, vendono a questi notaroli la lor podestaria. Ho voluto che vostra excellentia sia del tutto fatta accorta, al miglior giudicio de la quale mi rimetto sempre; et in sua bona gratia humiliter mi raccomando.

    Ex Castronovo, 19 Aprilis MDXXII.

    Di vostra Excellentia humillimo S. Ludovico Ariosto

    Soffiò lungamente sulla carta e rilesse soddisfatto la lunga lettera.

    Non aveva assolutamente digerito il comportamento degli uomini preposti. Inoltre non credeva assolutamente nella funzionalità di questa carica. Anzi, a suo parere era proprio superflua. Tutti soldi sprecati! E il Duca doveva saperlo.

    Salve padre, – lo salutò Virginio affacciandosi alla porta. Poi lasciò scorrere gli occhi sul suo abbigliamento ma non fece commenti. Si limitò ad annunciare cautamente: – Lo Benedetto gliè zià qui fòra!

    Ecco!

    Gli era capitato di nuovo!

    Ma quanto diavolo c’aveva impiegato a scrivere quella dannata lettera?!

    ANTONINO! – urlò, irritato.

    Comandate padrone, – si presentò sollecito il servo.

    Subbito ne la mia camera per la vestitione!

    Venerdì 25 aprile A.D. 1522

    San Marco evangelista

    5 giorni dopo Pasqua

    Ariosto riteneva che le festività appena trascorse fossero state di gran lunga le peggiori degli ultimi anni. Un po’ per la lontananza dalla sua Ferrara e da Alessandra, la donna che teneva le briglie del suo cuore, un po’ per le troppe incombenze che non gli avevano dato tregua.

    Le visite s’erano susseguite l’una all’altra ad un ritmo inaccettabile.

    Interrotte solo dalle numerose funzioni religiose, a cui aveva ritenuto suo dovere partecipare.

    Il Capitano di Ragione, il Cancelliere, il banditore, i bottegai, i cittadini pretenziosi, i sudditi pedanti…

    Perfino il giorno di Pasqua era stato costretto a prendere pennino e calamaio per perorare la causa di un poveruomo, vittima del furto di un mulo con tutto il suo carico. Aveva inoltrato una richiesta ai potenti Anziani di Lucca, affinché convincessero un certo Giovanni di Nicolao Giusti da Pescaglia a rivelare il nome dei responsabili.

    Dal canto loro, gli Anziani pretendevano che si occupasse di un incidente di cui avevano avuto notizia: due cittadini di Castiglione, territorio di dominio Lucchese, erano stati feriti da due attaccabrighe del Sillico.

    Doveva recarsi a Castiglione. Al più presto!

    Forse con l’aiuto del Vicario sarebbe riuscito a placare gli animi nei due comuni.

    Sembrava che le rogne si fossero date appuntamento!

    E non vedeva spiragli, neppure a breve, visto che tutta la cittadinanza era in fermento per l’allestimento della consueta fiera dell’ottava.

    Al diavolo tutti i sudditi del Duca!

    Era stanco!

    Stanco di beghe, stanco di richieste, stanco di scartoffie… stanco!

    Improvvisamente si alzò dalla sua poltroncina.

    Lanciò un’occhiata inceneritrice sulla moltitudine di plichi sparsi sul tavolo ed uscì dal suo studiolo.

    Discese rigidamente le scale, ignorando chiunque fosse sulla sua strada, ed attraversò l’atrio a cielo aperto, fino a sbucare sulla piazzetta antistante la Rocca.

    A quel punto, si diresse a destra.

    Oltrepassò la porta vecchia e scese dallo stradello lungo le mura, in direzione dei tranquilli terreni sottostanti.

    Arrivato in fondo si concesse una sosta.

    Da lì, tutto il vociare del Borgo gli arrivava ovattato, nonostante si trovasse appena dietro alle case.

    Orti ben curati si alternavano ai piccoli campi e alle zone lasciate a prato. Non v’erano recinti ma ogni proprietà era ben riconoscibile e facilmente raggiungibile.

    Dal basso, il limitato paesaggio, che quotidianamente rimirava dal circoscritto specchio della sua finestra, sembrava essere meno esiguo. E, soprattutto, meno pericoloso.

    Inalò aria a pieni polmoni e, lentamente, riprese a camminare, imboccando uno dei minuscoli viottoli che correvano tutt’intorno a delimitare gli appezzamenti.

    Un percorso labirintico ma rilassante.

    E, inoltre, a quell’ora era quasi deserto.

    Si era lasciato alle spalle un ometto piegato fino a terra a trapiantare qualcosa nel suo orticello.

    E scorgeva più avanti, in un campetto verso la brugnosa, un paio di contadini far dei solchi.

    Alla sua sinistra un’anziana donna tagliava l’erba fresca con precisione e maestria, fendendo il suo falcetto ad arte, con un movimento, ritmico e veloce, del polso. Mentre, a pochi passi, la nipotina l’aiutava ad ammucchiare la parte segata dentro una grossa balla di vegetale.

    L’unico rumore che un po’ lo disturbava, ma che gli era ormai divenuto familiare, era quello prodotto dall’attività consueta del mulino situato di fronte a lui, sulla sponda opposta del torrente Turrite.

    La piccola cascatella formata dal docaio calamitò la sua attenzione.

    Si fermò.

    La mente, finalmente, libera.

    E rimase lì, immobile, rapito dal fluido scorrere delle acque.

    Sabato 26 aprile

    San Cleto, papa

    Martino discuteva con il suo mulo, da un buon quarto d’ora.

    La dispettosa bestia si rifiutava di avanzare.

    Aveva provato di tutto.

    Dalle carezze alle forti pacche sul didietro.

    Ma niente. Si era piantato in mezzo alla strada e non c’era verso di smuoverlo.

    Non si sentiva tranquillo. Le selve tutt’intorno apparivano quiete ma lui sapeva che era solo apparenza. Le sapeva infestate da briganti che, ovviamente, non disdegnavano le mercanzie degli imprudenti mercatari che osavano viaggiare da soli.

    Gli era giunta voce che un paio di mesi prima e, anche nel novembre passato, avevano assalito perfino mercanti in carovana. Tuttavia, capitava di rado.

    Era appunto per questo che si era assicurato di far parte di un gruppo.

    Erano partiti da Lucca abbastanza presto e la prima parte del tragitto l’avevano percorsa sotto il sole. Un benevolo sole primaverile rivelatosi, però, alquanto fastidioso.

    Fortunatamente, ben presto la strada si era incuneata tra i boschi. Lì i raggi filtravano tra i rami appena ricoperti di giovani germogli, rendendo l’atmosfera quasi irreale; inconsueta per uno che come lui era nato e vissuto nella calca della città.

    Avevano fatto un paio di soste per bere qualcosa e i suoi compagni di viaggio si erano rivelati una simpatica combriccola.

    Non li conosceva tutti, ma un paio gli erano rimasti subito impresso. Il primo, un omone grosso soprannominato Frontino, un farsettaio lucchese che abitava nei pressi di porta S. Pietro e che, passando da una battuta all’altra, aveva tenuto banco per tutto il tempo.

    Il secondo, un certo Messer Placido che, in assoluto contrasto con il suo nome, sembrava un autentico piantagrane e aveva già trovato due o tre pretesti per discutere.

    Gli altri rientravano nei canoni della normalità: un merciaio accompagnato dalla moglie, una donnona allegra con

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