Le incredibili curiosità di Genova
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Genova, la Superba. Un volo d'uccello su più di mille anni di storia, che racconta tra le altre cose le imprese di Guglielmo Embriaco in Terra Santa, la famosa congiura dei Fieschi, non dimenticando Balilla e la rivolta antiaustriaca del 1746, il Risorgimento e il ruolo di Mazzini, nonché la lotta partigiana. Una città che ha sparso la sua cultura prima nelle colonie del Mediterraneo, poi nelle Americhe con i suoi emigrati. Scrittori, poeti, artisti e viaggiatori, Genova è stata meta per centinaia di anni delle menti migliori che hanno lasciato tante testimonianze sulla città. E poi i suoi cibi, dal mitico pesto alla cima. Senza dimenticare i cantautori e i comici. Uno sguardo curioso che si allarga anche al Golfo del Tigullio e ai monti che la cingono. Tra i fatti più sconosciuti: il Mar Nero nel Trecento era chiamato Lago Genovese e la Lanterna, simbolo della città, è il faro più alto del Mediterraneo.
Come i genovesi hanno venduto san Giorgio e il suo drago agli inglesi
Quando il veneziano Marco Polo scrisse Il milione nelle prigioni genovesi
Galata, la colonia genovese di Istanbul e l’impero commerciale della repubblica
La Lanterna, il faro più alto del Mediterraneo
Cristoforo Colombo: colonizzatore o eroe?
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Perché i pittori fiamminghi Rubens e Van Dyck sono a Genova?
Il gioco del lotto è nato a Genova, una diavoleria che risale all’ammiraglio Andrea Doria
I camalli e un mondo che non c’è più
Eugenio Montale, il ragioniere che vinse il Nobel
Una bomba inesplosa nella cattedrale di san Lorenzo
25 aprile 1945: Genova si libera da sola
Laura Guglielmi
È nata a Sanremo ma vive a Genova, dopo aver trascorso alcuni anni a Roma e a Londra. Ha lavorato per le pagine culturali de «Il Secolo XIX» e per diciassette anni ha diretto il web magazine www. mentelocale.it. Inoltre ha collaborato con Radiorai, «D di Repubblica» e «Tuttolibri - La Stampa». Ora è direttore artistico di un Festival Letterario ed è docente universitaria. Ha curato una mostra su Italo Calvino e il suo paesaggio originario, che è approdata anche alla New York University. Suoi racconti sono usciti su antologie e riviste.
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Anteprima del libro
Le incredibili curiosità di Genova - Laura Guglielmi
Guglielmo Embriaco conquista Gerusalemme e riporta a casa il Sacro Graal
Guglielmo Embriaco, chi era costui? Oggi è sconosciuto ai più, eppure è stato protagonista di un momento fondamentale della storia dell’Occidente. Simbolo della Genova marinara e medievale, guerriero e mercante, venne soprannominato Testa di Maglio, che significa qualcosa come testa di martello
. Non doveva essere una persona affabile.
Le sue imprese di guerra furono immortalate negli Annali del Caffaro, che fu un grande testimone di quel periodo, partecipò alla spedizione in Terrasanta e alla dieta di Roncaglia. Anche il grande poeta Torquato Tasso parlò dell’Embriaco nella Gerusalemme Liberata: «Guglielmo, il Duce Ligure che pria / Signor del Mar corseggiar solia».
Per il peso che ebbe nella storia di quel periodo dovrebbe essere ricordato di più, come d’altra parte Andrea Doria. È forse colpa dell’isolamento della città, appoggiata sul mare al riparo delle sue montagne scoscese, una vera barriera che ancora oggi rende difficili le comunicazioni? Un mistero difficile da risolvere.
Ritornando all’Embriaco, piano piano si fece conoscere a Genova, fino a diventare uno degli uomini più potenti. Nel 1099 salpò a capo di due sole navi per la Crociata in Terrasanta, insieme al fratello Primo. Giunse a Giaffa, il porto più vicino a Gerusalemme, nel mese di giugno. Con i suoi uomini si diresse verso l’entroterra, la Città santa distava dal mare una sessantina di chilometri. Quando arrivarono in vista delle mura, i genovesi stanchi, affamati e male armati si unirono agli altri Crociati.
La situazione era disperata, come fare a conquistare Gerusalemme? Testa di Maglio portò a compimento un’impresa, le cui gesta sembrano uscire dall’Odissea o dall’Eneide. Ce la racconta sempre il Caffaro: l’Embriaco ha paura che i saraceni distruggano le uniche due galee, ancorate nel porto di Giaffa. Le fa smontare e trasportare a Gerusalemme. Da bravo genovese, ricicla il materiale per costruire due torri di legno, vere e proprie macchine da guerra, pronte per l’assedio. Ci riesce e i Crociati conquistano la Città santa.
Chi volesse oggi vedere una scena di questa epica battaglia, non ha che da visitare la cappella di Palazzo Ducale, nel centro di Genova. Il conflitto è al suo culmine e sulla torre costruita con il legno delle galee stazionano decine di uomini armati di tutto punto, mentre altri soldati salgono con le scale. È un affresco del Seicento del pittore genovese Giovanni Battista Carlone.
Quando Embriaco tornò a casa, ebbe il suo momento di gloria. Nel frattempo, Goffredo di Buglione fece incidere sopra la porta del Santo Sepolcro Praepotens Genuensium Praesidium, per ricordare le strabilianti gesta dei genovesi.
Ormai in città era l’uomo più potente, infatti poco tempo dopo gli affidarono trentadue imbarcazioni e, si narra, quattromila uomini per tornarsene in Terrasanta e combattere i turchi, conquistando altri lucrosi territori. Quindi Testa di Maglio tornò a Giaffa e incontrò Baldovino di Buglione, fratello di Goffredo, con il quale decise di conquistare Arsuf e Cesarea alla cristianità. Una bella scusa per il nostro genovese che non vede l’ora di tornarsene in patria con il bottino. Così come i suoi uomini, che sudano remando nelle galere. In realtà non sono schiavi, sono liberi e con l’idea fissa in testa di guadagnare il più possibile da questa impresa. Ricorrere ai buoni sentimenti e ai sacri valori per giustificare le guerre è una cosa che è sempre andata e va ancora di moda. Poi quando mai i genovesi avrebbero investito così tanti denari in galee, equipaggio, armi e viveri, per riconquistare la Terrasanta, solo per timor di Dio e senza averne un tornaconto?
1.jpgGiovanni Battista Carlone, Guglielmo Embriaco alla conquista di Gerusalemme, Genova, Palazzo Ducale (foto di Davide Papalini, su licenza Wikimedia Commons).
Arsuf cadde subito nelle mani dei Crociati. Cesarea invece resistette.
«Salite, salite e prendete in fretta la città!», si sono appena rotti i grandi pioli di una delle scale appoggiate alle mura, e molti Crociati sono precipitati a terra, ma Testa di Maglio è già in cima. L’assedio di Cesarea è appena iniziato e il nostro sta incitando i suoi uomini a non scoraggiarsi, a prendere possesso delle mura e a invadere la città. Scrive il Caffaro: «E tutti allora si inerpicarono, con eguale audacia per il muro, e di lassù balzarono a inseguir i Saraceni che fuggendo […] cadean morti sotto lor furia».
Apriamo una parentesi: nelle cronache del tempo vengono chiamati saraceni tutti gli islamici, ma in realtà in Terrasanta c’erano i turchi Fatimidi. I saraceni erano le popolazioni del Nord Africa di origine araba, che nulla avevano a che vedere con i turchi, religione a parte.
Correva l’anno 1001: i Crociati entrarono a Cesarea, la conquistarono, e si portarono a casa il ricco bottino che tutti bramavano, tra cui un piatto esagonale verde smeraldo, che secondo alcuni sarebbe il mitico Sacro Graal, il piatto usato da Gesù durante l’Ultima Cena, ancor oggi custodito nel museo del Tesoro della Cattedrale di San Lorenzo. I genovesi lo chiamano, con il loro solito understatement, il Sacro Catino.
Che sia o no il Sacro Graal, che esista o sia un’invenzione, molti personaggi famosi, ospiti di Genova, ne hanno parlato. Lo scrittore inglese John Ruskin nel 1840 lo definì, con un disprezzo perfino eccessivo, «un falso pezzo di vetro», mentre il francese Alexandre Dumas, l’autore dei Tre moschettieri, nel 1841 scrisse: «Tra le numerose curiosità, la chiesa di San Lorenzo racchiude il famoso piatto di smeraldo nel quale, secondo quanto si dice, Gesù Cristo consumò la cena e che fu donato a Salomone dalla regina di Saba».
Diatribe a parte sulla leggenda del Sacro Graal, il sacco di Cesarea e il Sacro Catino sono i simboli di un momento cruciale nella storia della città. Genova mette le basi per lo sviluppo di un’estesa rete di snodi commerciali e fondaci nel Mediterraneo che tanta ricchezza porteranno nei secoli a venire. Diventerà una potenza economica di tale forza che Testa di Maglio mai avrebbe immaginato, quando lassù in cima alle mura di Cesarea incitava i suoi uomini.
Se si vuole incontrare oggi l’Embriaco, basta mettersi davanti all’entrata principale di Palazzo San Giorgio, dando le spalle alla rumorosa sopraelevata. In cima all’entrata, campeggia la figura del santo che uccide il drago. Sotto l’imponente san Giorgio, troneggiano sei statue dipinte all’interno di finte nicchie, il quarto da sinistra è proprio lui, l’Embriaco, e alla sua destra maestoso si erge un altro genovese ben più famoso, Cristoforo Colombo, che se ne andò senza mai più tornare.
Porta Soprana, difendiamoci dal Barbarossa
I genovesi ancor oggi chiamano mura del Barbarossa la cinta muraria costruita nel secolo
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, di cui restano ancora piccole porzioni, ma soprattutto due bellissime porte. Porta dei Vacca è verso ponente e attraversandola si entra nel carruggio dritto di Genova. Un tempo questa era la via Romana, che passava da piazza Banchi, alle spalle di Palazzo San Giorgio, il cuore degli affari della città medioevale. La strada oggi ha due nomi diversi: il primo tratto si chiama via del Campo, che risuona del ricordo, caro al cuore dei genovesi, delle canzoni di Fabrizio De André, ma conserva anche la Colonna Infame, in memoria del fallito tentativo di tradimento di Giulio Cesare Vachero. Il secondo tratto del carruggio prende il nome di via San Luca, ancora oggi piena di vita e di gente che viene da tutto il mondo.
Porta Soprana, invece, è posizionata verso levante e ci si può accedere dalla trafficatissima piazza Dante o da piazza De Ferrari. Si staglia imponente con le torri merlate in cima all’omonima salita. Peccato che nell’Ottocento sia stata restaurata pesantemente e che dell’originale rimanga ben poco. Come per la cosiddetta casa di Cristoforo Colombo lì vicina, lo slancio fantasioso di chi centocinquant’anni fa si è dedicato alla ristrutturazione di questa zona ha prevalso su un approccio più scientifico e filologico, come invece avviene oggi.
Si chiamano mura del Barbarossa non perché, come pensano anche molti genovesi, le abbia fatte edificare l’imperatore del Sacro Romano Impero, ma al contrario perché furono costruite dai cittadini genovesi per paura che Federico
i
invadesse la città ribelle.
I genovesi vanno fieri di aver resistito al Barbarossa, colui che voleva mettere becco nelle vicende della penisola, assoggettando i vari Comuni. Federico
i
nel 1154 scese a Roncaglia vicino a Piacenza per un’assemblea con le città del Nord Italia. A quei tempi si chiamava «dieta», non perché non mangiassero. Deriva da una parola dell’epoca barbarica che univa il termine latino (dies = data) a uno germanico (tag = giorno) e significava giorno fissato per l’assemblea.
Etimologia a parte, i genovesi nella Seconda Dieta di Roncaglia del 1158 riuscirono a strappare al tedesco la garanzia di essere trattati meglio di tutti gli altri. Lo scopo del Barbarossa era mettere fine all’indipendenza crescente dei Comuni, ma con Genova non la spuntò. La Superba ottenne non solo di non pagare i tributi, ma anche la giurisdizione sulle terre che vanno da Ventimiglia a Portovenere, quasi tutta quella che oggi è la Liguria.
Barbarossa aveva bisogno dell’appoggio della Repubblica marinara e della sua potente flotta per le proprie mire nel Sud Italia e per far fronte alle incursioni dei saraceni. Già in passato ai genovesi venne concesso di essere esentati da ogni tributo, a patto che giurassero fedeltà all’impero e che tenessero puliti i mari infestati dai pirati. Ora che, per merito loro, da Barcellona fino a Roma, il pericolo saraceno era stato debellato, giocarono bene questa carta. Scrive il Caffaro: «Così che per loro ormai ciascun si potea dormir sicuro presso il suo fico e la sua vite».
La costruzione delle mura venne però iniziata prima di queste rassicurazioni, la paura di un assalto dell’esercito dell’imperatore era viva, soprattutto dopo che Federico
i
nel 1155 attaccò e distrusse Tortona, che si era ribellata al suo potere. Furono numerose le città toscane e lombarde che alzarono bandiera bianca.
17.tifFederico Barbarossa in un’incisione tratta da Ritratti di Cento Capitani Illustri con li lor fatti in guerra brevemente scritti, intagliati da Aliprando Capriolo, 1596.
Tutti i cittadini parteciparono all’edificazione di questa grande barriera per difendersi dal nemico. Non si sa bene se il Barbarossa fosse davvero un nemico, ma maniman – per dirla alla genovese – le mura si dovevano rifare, comprendendo parti della città che ne erano fuori, come la zona di San Luca.
Si doveva inglobare all’interno del sistema difensivo anche il borgo, partendo da Porta Soprana e coprendo la zona dell’attuale piazza De Ferrari, poi il colle di Piccapietra e piazza Fontane Marose per arrivare, attraverso l’attuale largo della Zecca e piazza dell’Annunziata, a Santa Sabina e Porta dei Vacca. Venne costruita anche la Porta Aurea, abbattuta però nella seconda metà del Novecento, per tirar su nuovi edifici a Piccapietra. Se si va a visitare questo quartiere, subito dietro la principale piazza de Ferrari, non si può fare a meno di chiedersi perché in Italia abbiamo distrutto così tanto in così poco tempo per poi costruire tali disastri architettonici.
L’opera muraria venne quindi iniziata nel 1155. Il Caffaro ne fa una descrizione epica: «Frattanto uomini e donne tutti, in Genova, non ristando, dì e notte, di portar pietre ed arena, avean le mura a tal punto avanzate in solo otto giorni, che qualsiasi città d’Italia pur con lode non sarebbe riuscita ad altrettanto. Laddove poi il giro delle mura non si congiungea, e dove sufficiente altezza non lo assicurava, così in tre giorni lo rafforzarono di castelli altissimi, costruiti con gli alberi delle navi, di frequenti bertesche, di spaziosi e robustissimi spalti, che l’impeto di tutta Italia e Alemagna, purché non fosse contrario Iddio, non vi avrebbe dischiuso un passo». Dai nobili ai cittadini più poveri tutti furono solerti, uniti finalmente nel tirar su le mura. L’arcivescovo vendette pure gli arredi della cattedrale di San Lorenzo e di altre chiese.
I genovesi furono così orgogliosi di questa impresa da menzionarla in ben due lapidi in latino su Porta Soprana, una che diffida l’ospite che varca la porta se ha intenzioni bellicose, e l’altra che ricorda la cacciata dei Mori da Almeria in Spagna nel 1147, una delle più sanguinose battaglie della Repubblica di Genova.
Ne riportiamo una delle due, secondo la traduzione di Giulio Miscosi in I quartieri di Genova Antica:
In nome dell’Onnipotente Dio Padre del Figlio e dello Spirito Santo. Amen / Ben presidiata d’uomini e munita di una mirabile cinta di mura, / tengo col mio valore lontani gli ostili colpi. / Se vieni apportatore di pace potrai passare da queste porte / se guerra minacci, triste e vinto dovrai ritirarti. / A mezzogiorno e a ponente, a settentrione e a levante è noto / di quanti incontri guerreschi riuscii a superare, io, Genova!.
Ma non è finita qui la storia tra il Barbarossa e i genovesi: arrivò la Terza Crociata e l’imperatore non volle partire da Genova, come fecero invece Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra e Filippo
ii
di Francia. Preferì andare via terra, perché aveva paura dell’acqua. Magari era una scusa, il motivo vero forse era che il povero Barbarossa non ne poteva più dei genovesi e delle loro astuzie. Non arriverà mai in Terrasanta perché, per un feroce scherzo del destino, pur avendo evitato il viaggio via mare, morirà comunque affogato, cadendo da cavallo durante il guado del fiume Saleph, nel Sud-est della penisola anatolica, in vista della Terrasanta, il 10 giugno del 1190.
Ecco come i genovesi hanno venduto san Giorgio
e il suo drago agli inglesi
«Voi sapete che fu proprio lui, Guglielmo il Conquistatore, il normanno terribile, che riuscì a raccogliere sotto un’unica bandiera popoli diversi, diventati da poco cristiani, per fondare il Regno d’Inghilterra. Ma ecco che un vescovo, l’unico che c’era nella comunità, dice a gran voce: «Non si può fondare un regno se prima non si procura la reliquia del santo protettore. E dove la troviamo? Noi non l’abbiamo… Siamo da poco cristiani… dove la si va a prendere?». «La si compera!», risponde Guglielmo. Così invia dei ricercatori, forniti di molti denari, di là della Manica per acquistare un santo degno».
Così il Premio Nobel Dario Fo nella sua opera Mistero buffo comincia il monologo con il quale prende di mira i genovesi che hanno trattato come una merce qualsiasi le reliquie del loro santo protettore. Siamo nel 1100 e gli inglesi, sempre seguendo la narrazione di Fo, vanno in giro per l’Europa, approdano in Danimarca, nei Paesi Bassi, in Francia e in Spagna, ma tutti sono inorriditi da una proposta così sconveniente.
Poi prendono una nave e sbarcano a Genova. Sulla banchina del porto incontrano alcuni rappresentanti della popolazione che subito, senza neanche pensarci un attimo, gli vendono il loro santo protettore, san Giorgio.
«Si sa che i genovesi per i quattrini venderebbero anche la madre», commenta Dario Fo e continua: «Tutto gli hanno venduto: la reliquia intiera con il suo elmo, la corazza, gli spalloni, insomma la parure al completo. E poi gli hanno venduto anche il drago… un drago un po’ incartapecorito, tutto torto, avvinghiato a san Giorgio… che ormai col tempo era nato un profondo affetto fra i due».
2.Genova-Palazzo_San_Giorgio-DSCF7719.jpgL’affresco che raffigura San Giorgio mentre uccide il drago sulla facciata di Palazzo San Giorgio (foto di Rinina25,
gnu
Free Documentation Licence).
Gli inglesi tornano a casa, e dopo pochi mesi il papa dichiara che san Giorgio è un santo inventato dai genovesi, non esiste. E gli inglesi la prendono male, eccome se la prendono male e non lo dicono a nessuno. Soltanto i dignitari ne sono a conoscenza e lo comunicano ai figli sul punto di morte: «Caro, io sto per morire… ma ti devo svelare una verità che ti ho sempre nascosto: i genovesi ci hanno fregato. San Giorgio è un santo fasullo, è un bidone!».
La giullarata popolare di Fo continua divertita e va a colpire sferzante altri obiettivi, mentre ora noi cerchiamo di vedere cosa c’è di vero in tutto questo.
Nel periodo bizantino – verso il Cinquecento – si radicò nel territorio genovese una profonda dedizione per san Giorgio, destinato a diventare nei secoli il santo protettore della città, nonché il simbolo stesso della Repubblica genovese.
Sembra che il santo fosse vissuto a cavallo tra il Duecento e il Trecento, anche se si sa poco di lui. Jacopo da Varagine nella Legenda Aurea, scritta intorno al 1260, racconta di un terribile drago che in Libia uccideva con il suo fiato terribile le persone che trovava sulla sua strada. I poveri abitanti del luogo, per calmarlo, gli offrivano le loro pecore, ma a un certo punto ne erano rimaste poche. E così cominciarono a estrarre a sorte tra di loro. Venne la volta della figlia del re. Nonostante il sovrano non ne volesse sentir parlare, fu costretto dai suoi sudditi a dare la figlia in pasto al drago. Mentre la giovane donna si stava avviando verso la tana del mostro, passò casualmente di lì san Giorgio e la salvò.
L’eroico cavaliere, che allora non era ancora un santo, promise di uccidere il drago, però a una condizione: tutti quanti dovevano convertirsi alla fede di Cristo. Non è che avessero molta scelta, così tutti diventarono cristiani e san Giorgio li liberò da quella inquietante minaccia.
L’affresco del santo a cavallo che sta per uccidere il drago, con in mano la lancia e lo scudo, decorato con la croce rossa in campo bianco, è in bella vista sulla facciata di Palazzo San Giorgio, a Caricamento. Nel disegno, il drago sembra uno strano simpatico animale piuttosto dimesso data l’imponenza del cavallo e del suo cavaliere, un’immagine che tanta strada ha fatto a Genova e non solo. Dario Fo aveva ragione a dire che dopo tanto tempo fermi in quella posa e così rappresentati in ogni dove, i due protagonisti di questa storia sembrano non poter fare a meno l’uno dell’altro.
Ora siamo nel 1187, e al di là della narrazione fantasiosa di Dario Fo, vediamo come i genovesi sono riusciti a vendere il loro santo. Saladino ha riconquistato Gerusalemme. Quale migliore occasione per mettere insieme la Terza Crociata? Il papa Gregorio
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riesce a portare dalla sua parte il Barbarossa, Filippo
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di Francia e il re Riccardo Cuor di Leone, che è il sovrano inglese che ci interessa. Partono tutti da Genova, ormai porto strategico, meno il Barbarossa.
Per la Superba, che ancora non è stata soprannominata così, è un bel business, conto salato per il re di Francia che i genovesi aiutano nella logistica e appoggiano militarmente. Anche Riccardo Cuor di Leone si ferma a Genova in attesa della partenza e si narra che astutamente abbia chiesto il permesso di issare sulle sue imbarcazioni la famigerata bandiera di san Giorgio con la croce rossa in campo bianco.
I genovesi infatti ormai la portano da tempo spavaldamente in giro per il Mediterraneo, vincendo spesso cruente battaglie contro gli infedeli. È un simbolo temuto, meglio stare alla larga da galee che fanno sventolare quella bandiera sul pennone. A pochi impavidi viene in mente di attaccarle. I genovesi sono timorati di Dio e quindi fanno di tutto per favorire il successo della Terza Crociata, però se ci si guadagna è ancora meglio, così che se il buon Riccardo vuol aver quell’atout, deve sborsare fior di quattrini. Non si sa quale sia stata la somma pagata dagli inglesi, ma qualcosa di vero in tutta questa vicenda c’è senz’altro.
Il simbolo della croce rossa su sfondo bianco è ancora presente nel gonfalone del Comune di Genova, della Regione Liguria, nella bandiera delle squadre di calcio cittadine, Genoa e Sampdoria. Ma lo usa anche la marina militare inglese, appunto.
San Giorgio, patrono del Regno Unito ancora oggi, è anche il patrono di Genova? Ebbene no, il santo che ha tanto difeso le galee genovesi dagli infedeli nel Medioevo, è stato poi soppiantato da san Giovanni Battista, le cui ceneri sono state sottratte a un gruppo di preti inermi in Licia, durante le Crociate. Ora, le reliquie di questo santo, cugino di Gesù, sono custodite nella cattedrale di San Lorenzo.
A Genova sono stati almeno tre i santi che si sono divisi la venerazione popolare: il nostro san Giorgio, san Giovanni Battista e san Lorenzo, che nel 1327 venne dichiarato co-patrono insieme agli altri due. Ma se si è ricchi, si può tutto, e i genovesi ricchi lo sono stati sul serio.
Il massacro dei prigionieri pisani dopo la battaglia
della Meloria
Campopisano è una delle più belle piazzette del centro storico genovese, con la pavimentazione in ciottoli marini bianchi e grigi, un tratto tipico dell’architettura ligure già nel Medioevo. Al centro, l’immagine di una galea della Repubblica di Genova, con la bandiera issata. Un posto tranquillo, rassicurante, con le case alte sei o sette piani tutte colorate, che un po’ assomigliano a quelle di Camogli. Non bisogna farsi ingannare da quest’atmosfera pittoresca, qui vennero compiute gesta tra le più efferate.
Proseguiamo per gradi. Le battagliere repubbliche marinare, tra cui Genova e Pisa, estesero il loro raggio d’interesse nel mar Mediterraneo, riattivando i contatti e i commerci tra Europa, Asia e Africa, che dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente erano diminuiti in maniera massiccia.
Natura umana vuole che se hai lo stesso obiettivo di qualcun altro gli fai la guerra per ottenerlo, oppure saldi un’amicizia per il tempo necessario a combattere un eventuale nemico comune. Una volta che questo è sconfitto, si torna a pestarsi di nuovo piedi l’uno con l’altro. Genova e Pisa, tra una battaglia e l’altra, furono quindi anche alleate a lungo contro l’espansione saracena, ma si fronteggiarono spesso per la conquista della Corsica e per il controllo del Mediterraneo occidentale.
Stagioni di pace si susseguirono a periodi di guerra e si andò avanti così per più di due secoli. Nel 1241, Genova perse la battaglia del Giglio, ma nel 1284 Pisa venne massacrata in quella della Meloria, a largo di Porto Pisano, che era situato a nord dell’attuale città di Livorno.
Era il giorno del loro patrono, san Sisto, e i toscani pensavano di avere la vittoria in mano, protetti dal loro santo. Genova tentò un attacco a sorpresa, con sessantatré galee, comandate dall’ammiraglio Oberto Doria. I pisani si gettarono nella battaglia forti anche delle loro nove galee in più, ma la tecnologia delle imbarcazioni dei genovesi era più avanzata, così come la tecnica di combattimento. I pisani vennero sconfitti, persero quarantanove galee, tra quelle catturate e quelle affondate. Morirono dai cinque ai seimila uomini. I genovesi fecero prigionieri quasi undicimila pisani. Tra di loro anche il podestà pisano, che però era di origine veneziana, Albertino Morosini. Per sistemarli in città i genovesi prepararono un piano d’emergenza, dividendo i malcapitati tra nobili o ricchi mercanti, per i quali si poteva chiedere un riscatto, e semplici soldati dai quali non si poteva ricavare nulla.
Ora torniamo a Campopisano, che è appena fuori dalle mura dette del Barbarossa, non lontano dal mare. Non si chiama ancora così, naturalmente. I genovesi recintano l’area, per farci alloggiare i pisani catturati. Chiudiamo gli occhi e concentriamoci sui lamenti di migliaia di uomini stremati dalla battaglia, con i vestiti lacerati, lasciati senza cibo, esposti alle intemperie. La Repubblica di Genova li lascia semplicemente morire di freddo, fame e mancanza di assistenza. Vengono sepolti proprio dove ora c’è questa bella pavimentazione acciottolata oppure gettati in mare. Ai familiari dei malcapitati che, in quei tempi difficili per i trasporti, giungono a Genova per chiedere notizie dei loro cari – figli, padri o mariti – si nega di incontrarli. Solo le guardie danno qualche vaga notizia. Pare che solo un migliaio di prigionieri riusciranno a tornare a Pisa dopo tredici anni di terribili vicissitudini.
Questa triste vicenda spopola Pisa e decapita il suo esercito. È rimasto famoso il detto: «Se vuoi veder Pisa vai a Genova». La Repubblica marinara toscana non riuscirà mai più a riprendersi, perdendo per sempre la sua influenza sul Mediterraneo.
Però la storia non finì qui. Il 22 aprile 1860, pochi mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia, Genova restituì alla città di Pisa le catene che un tempo servivano per impedire ai nemici l’accesso a Porto Pisano. I genovesi le avevano portate a casa come simbolo della vittoria e le avevano esposte a Porta Soprana e in altri luoghi. Ora sono collocate nel cimitero di Pisa, vicino a una targa che ricorda gli eventi:
«[…] La generosa Genova nell’anno
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primo dell’italica indipendenza spontanea a Pisa restituiva a segno perenne di fraterno affetto di concordia e di unione ormai indissolubile».
Un bell’esempio di retorica ottocentesca, ma senz’altro meglio della guerra.
Quando il veneziano Marco Polo scrisse Il Milione
nelle prigioni genovesi
Un prigioniero annoiato e impaziente chiuso tra quattro mura del Palazzo del Mare, che fuoriesce maestoso dalla palazzata di Sottoripa, lambita dall’acqua. Un uomo che ha viaggiato per il mondo ora è