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Storie segrete della storia di Genova
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Storie segrete della storia di Genova
E-book381 pagine4 ore

Storie segrete della storia di Genova

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Info su questo ebook

Una controstoria a mosaico, tra episodi curiosi e aneddoti della “Superba”

Un mosaico di storie per lo più inedite che, tassello dopo tassello, vanno a comporre la grande Storia della città di Genova. La chiave di lettura è inconsueta: cercare non i grandi fatti, noti a tutti, quanto gli aneddoti della pétite histoire, quelli che un detective chiamerebbe indizi e che elencati in questo libro consentono di leggere la Storia attraverso le sue ripercussioni sulla quotidianità. Racconti di personaggi e di fatti famosi, di grandi eventi osservati dal backstage o – perché no? – dal buco della serratura. Sarà divertente, allora, curiosare tra le abitudini medievali, raccontate negli atti notarili; scoprire l' America dal punto di vista dei genovesi; o ancora essere testimoni dell'esposizione universale del 1892. Storie lievi, scritte e descritte in una guida che si basa su una ricerca attenta e severa, ma è anche in grado di procedere con spensieratezza e ironia.

Libri in cambio di una schiava
Le donne di Colombo
Giostre e tornei in piazza Fontane Marose
Risale al 1625 una clamorosa evasione da palazzo ducale
La stregoneria a Genova
1600: la classifica dei genovesi più ricchi
Goldoni console di Genova a Venezia
“La grande bellezza” a Genova:
Il duca di Richelieu e le dame genovesi
Le origini della massoneria genovese
Arrivano i nostri! Quando Genova soccorreva gli Stati Uniti
Il professor Giacomo Mazzini
Dickens e Genova
Gastronomia e amor profano
Salgari a Sampierdarena
Rissa globale nell’angiporto
…e tante altre storie segrete della città
Fabrizio Càlzia
è nato a Genova nel 1960. Autore poliedrico, amante di Genova, del Genoa, di De André e della focaccia, ha scritto il romanzo a fumetti Uomo Faber, disegnato da Ivo Milazzo; la guida De André e dintorni, con tutti i luoghi genovesi cantati e vissuti dai massimi interpreti della scuola genovese, e il libro di racconti Spiragli. Per Newton Compton ha pubblicato fra l'altro 101 storie su Genova che non ti hanno mai raccontato, 1001 storie e curiosità sul grande Genoa che dovresti conoscere, Il Genoa dalla A alla Z e Storie segrete della storia di Genova.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2018
ISBN9788822726353
Storie segrete della storia di Genova

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    Anteprima del libro

    Storie segrete della storia di Genova - Fabrizio Càlzia

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    introduzione

    In un mandillo l'autoritratto di Cristo

    San Cosimo: dallo shampoo all’Alta chirurgia

    Caffaro, il primo reporter dal Medio Oriente

    I papi in visita a Genova

    Piazza Banchi

    I genovesi danno vita ad Aigues Mortes

    Botte da orbi fra quartieri

    Il doge e le elezioni

    La raccapricciante salamoia made in Megollo Lercari

    I Caravana, Macisti in gonnella

    Invito alla lettura: libri in cambio di una schiava

    La microcriminalità nella storia genovese

    Pesce e pollo garantiti prima di Colombo

    La casa di Colombo

    Simonetta Cattaneo, la stella di Genova

    Le donne di Colombo

    Quando gli arabi rapivano i liguri

    Genova violenta

    La Lanterna, simbolo di Genova

    I Corrieri genovesi e il loro vicolo

    Bernardo Strozzi: una vita inquieta

    Giostre e tornei in Piazza Fontane Marose

    Le carceri della Serenissima Repubblica

    Risale al 1625 una clamorosa evasione da Palazzo Ducale

    La stregoneria a Genova

    1600: la classifica dei genovesi più ricchi

    Una Piazza per i polli

    L’uccisione di Pellegro Piola

    Un drammatico rapimento del Seicento

    E il caffè scalzò il brodo

    Lo spinoso caso del Papasso

    Le nomadi fontane genovesi

    L’igiene urbana nel Settecento

    Goldoni console di Genova a Venezia

    La grande bellezza a Genova: il duca di Richelieu e le dame genovesi

    Capitan Barbarossa, il Che Guevara genovese

    Le origini della massoneria genovese

    Luigi Emanuele Corvetto

    Una spia cinese a Genova

    Giuseppe Bavastro, corsaro di Sampierdarena

    Gli «Avvisi»: il primo giornale moderno genovese

    Gli avi in villeggiatura

    La storia della Bella Costa

    Arrivano i nostri! Quando Genova soccorreva gli Stati Uniti

    Le statue-trofeo di Palazzo Ducale

    La Tenentessa Francesca

    1815: Genova diventa piemontese

    Il professor Giacomo Mazzini

    La storia d’amore fra Cavour e Anna Giustiniani

    Il colera a Genova

    Daniele Chiarella

    Mazzini e la musica

    Musiche di Verdi, parole di Mameli, regia di Mazzini: la Marsigliese italiana

    Richard Wagner a Genova

    I pantaloni di Paganini

    Altre storie di Paganini

    Edoardo Chiossone e il museo di arte orientale

    Dickens e Genova

    Il salotto della signora Bianca

    Mark Twain, turista a Genova

    A Genova il tricolore diventa nazionale

    Un Pignasecca dell’800

    Gastronomia e amor profano

    Salgari a Sampierdarena

    Genova entra nel Novecento

    Nel 1908 i primi taxi genovesi

    O campo do Zena

    Guido Gozzano a Genova

    Il sindaco che disse no a Mussolini

    Rissa globale nell’angiporto

    Bibliografia essenziale

    Illustrazioni

    em

    602

    Prima edizione ebook: ottobre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-2635-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Fabrizio Càlzia

    Storie segrete della storia di Genova

    Una controstoria a mosaico, tra episodi curiosi e aneddoti della Superba

    omino

    Newton Compton editori

    introduzione

    Propormi di scrivere le storie segrete di Genova è stato venire nel mio carroggio: un’impresa impossibile e naturale al contempo, certo stimolante. Perché, tanto per cominciare, Genova (una sorta di luogo comune che abbraccia, o meglio costringe, i genovesi) non ha né può avere una storia ma solo una pluralità di eventi, storie appunto frastagliate come la sua terra, scorbutiche come i suoi abitanti. Anarchici nell’indole, uniti all’occasione per necessità o per convenienza, individualisti nel profondo e nelle loro azioni; diffidenti l’uno dell’altro, bravi soltanto a fare gruppo (e a quel punto con insospettabile, radicale coesione) giusto per fronteggiare il nemico, il foresto: saraceni, pisani, Barbarossa, milanesi, francesi, austriaci o nazifascisti che dir si voglia.

    La concordia non abita qui: basti pensare all’istituzione del dogato, a certi dogi che in carica restavano giusto qualche giorno se non addirittura ore, fatti fuori con mezzi più o meno subdoli dal nemico (o dai nemici) di turno.

    Una Repubblica fondata sul lavoro, sui commerci, questo sì, nel senso però individualista del termine, con il Consiglio di turno che sembrava più a una lobby, e certe sedute che farebbero impallidire le più accese riunioni di condominio: le leggi approvate erano efficaci, ovvio, ma quasi sempre a tutela dell’imperversante maniman.

    Storie di sangue e di sgambetti dunque, segrete, ché in quel clima di messa in guardia generale il meno possibile doveva trapelare. E ciò rende oggi complicato (e affascinante) il compito dello storico.

    Non senza fatica insomma ho messo insieme questo mosaico di racconti, cercando di far sì che essi – quantomeno tutti insieme – possano dare un’idea di cosa sia stata (e cosa è ancora) Genova. E i genovesi.

    F. C.

    IN UN MANDILLO L’AUTORITRATTO DI CRISTO

    Abgaro, re di Edessa, era ammalato di lebbra; invano aveva tentato tutte le cure, quando gli giunse notizia di Gesù, dei suoi miracoli. Mandò a lui una missiva, per supplicarlo di una visita, e come corriere scelse il pittore Anania. Gesù fu avvicinato sulle rive del lago di Tiberiade, ma rispose che non poteva abbandonare i suoi; la fede, tuttavia avrebbe guarito il re. Il pittore ringraziò, e discostandosi un po’ cercò di ritrarre le fattezze del Nazareno. Provò e riprovò, ma i risultati erano sempre più scoraggianti: mai sarebbe riuscito a rendere la spiritualità di quella figura. Allora Gesù chiamò a sé Anania, si lavò il viso e vi premette la tela: i suoi lineamenti rimasero prodigiosamente impressi. E quando Abgaro riuscì a contemplare il ritratto, guarì completamente.

    Questa è la leggenda fiorita nel i secolo, nella sua forma più diffusa; altre versioni affermano che Anania riuscì da solo nel suo intento, mentre gli incerti caratteri vergati su un rotolo di pelle di gazzella, scoperto alle soglie del Novecento nell’alto Egitto, accennano addirittura a lettere intercorse tra il monarca e Gesù.

    Naturalmente mai la Chiesa parlò di verità degna di fede, ma numerosi specialisti conclusero che la tela giunta fino a noi debba considerarsi di scuola alessandrina, davvero dei tempi di Abgaro: in ogni caso, nella vastissima iconografia cristiana, l’immagine può avere le maggiori probabilità di ridarci l’aspetto del Cristo più vicino al vero. Santo Volto, appunto, fu chiamato dai fedeli, Santo Sudario, in evidente confusione col panno della Veronica; ma più diffusamente Santo Mandillo, secondo l’espressione dialettale genovese che non si discosta troppo dal siriaco Mandelion e che ha assunto, all’ombra della Lanterna, il significato popolar-irriverente di fazzoletto.

    Perché la reliquia si trova a Genova, nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni.

    Il ritratto – per rifarsi ancora alle tradizioni – fu a Edessa oggetto di devozione per lungo tempo, sinché l’idolatria di un discendente di Abgaro costrinse i cristiani a murarlo, accanto a una lampada, dove quasi dimenticato rimase fino all’anno 545, quando Cosroe, re di Persia, assediò la città. La situazione pareva disperata, ma al vescovo Eulalio apparve in sogno la Vergine, che gli indicò il luogo dove l’immagine era stata nascosta; il sant’uomo la riportò alla luce, pregando la alzò sulle mura circondate dai nemici, e versò infine un poco d’olio dalla lampada: un terribile incendio assalì i Persiani costringendoli alla fuga.

    Nel 974 il Santo Mandillo venne portato a Costantinopoli, in cambio di 12.000 monete d’argento e della restituzione di 200 prigionieri saraceni. Fu collocato accanto al palazzo imperiale, nel tempio della Madre di Dio, e lì si preparò la preziosa custodia d’oro che lo ricopre ancor oggi, lasciando scorgere soltanto l’ovale del viso e la barba tripartita: un alto capolavoro d’oreficeria, coi dieci piccoli rilievi dedicati ai punti salienti della storia qui rievocata.

    A Costantinopoli il ritratto rimase sino al 1372, quando Giovanni Paleologo lo offrì a Leonardo Montaldo. Il genovese dieci anni prima era stato inviato come capitano generale sul Mar Nero, a proteggere i cospicui possedimenti della Superba; convinto che gli interessi della Repubblica fossero legati a quelli dell’Impero bizantino, con vere prodezze aveva annullato la minaccia turca tanto per le città greche quanto per i domini dei liguri: tante furono le terre che restituì a Giovanni, che questi gli tributò onori trionfali, donandogli fra l’altro diverse reliquie.

    Tornato in patria, il Montaldo cedette alla cattedrale di San Lorenzo quanto aveva ricevuto, tuttavia conservò l’immagine del Cristo, custodendola nel suo palazzo di Multedo – come un tempo era chiamata la collina che oggi corrisponde all’area di piazza Manin e corso Armellini.

    Montaldo divenne doge il 7 aprile 1383, ma il 14 giugno dell’anno successivo fu vittima della pestilenza abbattutasi su Genova; prossimo a morire, volle convocare i monaci Basiliani che reggevano la vicina chiesa di San Bartolomeo degli Armeni, e a essi consegnò il Santo Volto affinché venisse custodito e ogni anno mostrato ai fedeli.

    Le vicissitudini dell’immagine tuttavia non finirono qui. La più rilevante fu il trafugamento del 1507: si seppe che era finita in Francia, e le autorità interessarono al caso i mercanti genovesi residenti oltralpe: gli sforzi congiunti, una notevole fortuna, un’altrettanto innegabile quantità d’oro e l’intervento diretto di Luigi xii ne resero possibile il ritorno già nel 1508. Autori del furto erano stati un monaco brasiliano, un francescano e tale Galeazzo di Salazar, capitano francese residente a Castelletto, che intendeva fare un dono al fratello, l’arcivescovo di Sens. Da allora l’immagine venne rinchiusa in un tabernacolo di metallo, con sei chiavi diverse affidate ad altrettante famiglie nobiliari; e dalla chiesa di San Bartolomeo non si mosse più, se non per eccezionali trasporti in cattedrale, in occasione di pestilenze, invasioni nemiche e visite di sovrani.

    L’ordine dei Basiliani venne soppresso nel 1650, e il tempio con l’attiguo monastero fu concesso sei anni dopo ai Barnabiti, con cui il Santo Mandillo visse le ultime traversie: nel 1805 Genova venne aggregata all’Impero di Bonaparte e gli incaricati alle requisizioni si accontentarono degli ex voto e degli altri oggetti d’argento e d’oro; nel 1810 un provvedimento napoleonico decretò l’abolizione di tutti gli ordini religiosi, e il Cristo di Edessa fu affidato con la chiesa a qualche sacerdote secolare.

    Soltanto nel 1816, cioè dopo il Congresso di Vienna, i Barnabiti rinacquero, e due anni più tardi tornavano a San Bartolomeo. Il culto per l’immagine riprese, anzi si dilatò, specie in occasione della novena, a cui erano chiamati i migliori predicatori; in tale veste nel 1839 risultò padre Ugo Bassi, che più tardi doveva finire fucilato dagli austriaci. La festa coincide con la Pentecoste; per tradizione, tuttavia, l’ineffabile tela rimane esposta ancora la settimana successiva. Una visita va fatta, se non per devozione almeno per curiosità; tanto più che son ben lontani i tempi – settecenteschi – in cui i temibilissimi briganti Merciaro e Sciallina imperversavano, «rubando, molestando con franchezza in quelli contorni».

    San Cosimo: dallo shampoo all’Alta chirurgia

    Ifratelli Cosma e Damiano vissero nel iii secolo dopo Cristo e furono medici; prestavano la loro opera gratuitamente, e ne facevano mezzo di apostolato religioso. Accesasi in Cilicia la persecuzione anticristiana voluta da Diocleziano, vennero torturati e uccisi. Varie chiese furono nel tempo dedicate ai due santi, e così anche a Genova. Al 1049 risale il documento più antico che riguarda il loro tempio, detto per brevità di San Cosimo; lo stesso nome assunse la piccola piazza sulla quale si affaccia. Per affinità di professione con i martiri titolari, la corporazione dei chirurghi e dei barbieri ne fece la propria base religiosa: nel 1478 i consoli di questa arte vollero erigere un loro altare, e sempre lì acquisirono diritto alla sepoltura. A conferma di tutto ciò, sul pavimento della navata centrale, appena oltre l’ingresso, si nota una lapide: « Hoc est sepulcrum artis chirurgorum et tonsorum » . Qui, appunto, scendevano all’eterno riposo i confratelli.

    L’esercizio della chirurgia era allora considerato decisamente inferiore a quello della medicina: chi la praticava – con studi, in effetti, pressoché inesistenti – sempre era subordinato ai clinici, peraltro assai avventurosi e azzardati per competenze e conoscenze.

    Resta il fatto che anche i due chirurghi principali dell’Ospedale Grande di Pammatone – all’epoca veri e propri baroni della professione – erano obbligati nei casi più importanti a chiedere il parere dei medici. Un’inferiorità ufficialmente dichiarata dalle autorità civili, e ammessa anche dalla Chiesa, soprattutto perché esercitare la chirurgia significava versare sangue, in contrasto con i divieti tante volte espressi dalle sacre scritture. Tanto che ad esempio, nel 1350, i professori della facoltà medica di Parigi dovettero giurare solennemente di astenersi del tutto da pratiche chirurgiche; e prima o poi, con giuramento o meno, l’atteggiamento si diffuse ovunque.

    Gli associati barbieri potevano ovviamente rimanere tali per tutta la vita, ma anche passare per gradi alle attività più impegnative e responsabili. Con questo intento i più intraprendenti barberotti, ovvero gli apprendisti, si affidavano a un maestro, sperando di lasciare al più presto il lavaggio e il taglio dei capelli di malati per più appaganti occupazioni. Un documento notarile genovese, che risale al 2 luglio 1266, riguarda uno di tali casi: in esso Oberto da Maissana dichiarava di accogliere nella sua bottega il figlio di tale Ardito Rodoano, allo scopo di istruirlo nell’arte per nove anni, ma anche di «alzarlo, vestirlo, ospitarlo e alla fine del termine regalargli un bacile di rame, un paio di forbici, una pietra da barbiere, una lancetta, due rasoi e una tenaglia». La lancetta serviva per procedere ai diffusi salassi, che venivano bene per ogni magagna o quasi, le tenaglie per ben più inquietanti estrazioni dentarie, in epoche in cui l’anestesia era fantascienza.

    Dai salassi, dalle cauterizzazioni si approdava agli interventi più impegnativi, fino al trattamento di ernie, cataratte e mal della pietra: frantumando cioè – o estraendo – i calcoli dalla vescica con spaventosi strumenti.

    Altri atti notarili illustrano simili inquietanti pratiche: il 20 luglio 1226, mastro Giovanni da Parigi prometteva di guarire tale Guglielmo da «una macchia che rivela l’occhio sinistro»; un calderaio e un fabbro erano testimoni dell’impegno. Il successivo agosto, poi, lo stesso parigino mastro Giovanni si assumeva il compito di sanare dal mal della pietra Enrico da Vedano, fabbricante di scudi. E dai documenti traspare, fra altri dettagli, che ai chirurghi era consentito il saldo degli onorari soltanto a guarigione avvenuta; per cui accadeva abbastanza spesso che alla fine si trovassero a rimettere di tasca propria il materiale e i medicinali occorsi.

    La rivalutazione dei chirurghi e il divorzio dai barbieri doveva avvenire soltanto a Settecento inoltrato. Ben più prolungato nel tempo, naturalmente, fu il pellegrinaggio alla chiesa di San Cosimo dei malati più diversi, l’offerta straordinaria di ex-voto per le guarigioni più impensabili. E non soltanto ci si affidava all’intercessione dei due santi martiri, ma si aveva a disposizione tutta una serie di celesti specialisti: un dipinto proponeva ad esempio l’immagine dei santi Rocco e Antonio abate, protettore il primo nei confronti della peste, il secondo della lebbra e soprattutto del fuoco che popolarmente continua a portare il suo nome; mentre un’altra tela – del seicentesco Gioacchino Assereto – ancora oggi mostra le effigi delle sante Lucia, Agata e Apollonia, martirizzate rispettivamente con la sadica avulsione degli occhi, del seno e dei denti, e per questo delegate alle relative malattie. La chiesa, dunque, risulta una sorta di piccolo Pantheon degli avversari di ogni umana sofferenza.

    Caffaro, il primo reporter dal Medio Oriente

    «E Caffaro, che fe’ di questo dettato, v’era presente, ciò vide e ne restò quindi testimone, onde ancor oggi ei, fuor d’ogni dubbio che così sia stato qui afferma»…

    Le imprese crociate dei genovesi, dunque, ebbero ciò che si potrebbe definire a tutti gli effetti un cronista al seguito: Caffaro di Caschifellone.

    L’annalista vide la luce nel 1081 o giù di lì, da Rustico e verosimilmente Giulia Della Volta: a Caschifellone, per l’appunto, località della Val Polcevera detta oggi Castrofino. Non aveva quindi neppure vent’anni allorché partecipò alla prima crociata, che peraltro non doveva rimanere la sua unica esperienza d’armi. Così, nel 1125, guidò egli stesso sette galee su Piombino, per snidare otto legni pisani che minacciavano un’azione in Provenza per depredare carichi genovesi. E nel 1146 comandò contro Almeria una spedizione vincitrice, forte di 22 galee e varie unità minori: «E con esse macchine molte da guerra e legnami d’alzar castelli di assedio, e cento cavalieri con lor cavalli».

    Ancor più probante, poi, è il suo curriculum politico: nell’arco della sua vita pubblica fu otto volte console, e in più occasioni fece parte di importanti missioni diplomatiche, fra cui quelle particolarmente delicate presso il pontefice Callisto ii nel 1121 e 1122, e le altre – alla corte di Federico Barbarossa – nel 1154 e 1158. Nei primi due casi si trattava di privare Pisa del primato spirituale sulla Corsica, sottraendole il privilegio di consacrare i vescovi destinati all’isola; quanto alle successive ambascerie, esse coincisero con una delle pagine più drammatiche e nobili della storia genovese.

    Ché il Barbarossa, si sa, era sceso in Italia per ristabilire il prestigio della corona: voleva principalmente avocare a sé la conferma dei consoli eletti nei Comuni, esercitare la giustizia e ribadire le imposte che spettavano all’imperatore stesso. Dalla distruzione di Asti, Chieri, fino a quella di Milano, l’atteggiamento della Repubblica di San Giorgio fu coraggiosamente saldo: a Federico non si doveva «il valor di un solo obolo».

    A ogni buon conto si procedette in fretta e furia alla costruzione di una nuova cerchia muraria cittadina, senza trascurare di riportare i più probanti argomenti: un tempo i barbari minacciavano la costa da Roma a Barcellona e proprio a loro spese i genovesi provvedevano a una efficace difesa, che all’imperatore sarebbe costata oltre 10.000 marche d’argento l’anno. Sicché «Ciascun ormai si potea dormir sicuro presso il suo fico e la sua vite». Occorreva inoltre ricordare «Pagar essi, mercanteggiando in terre straniere, innumerevoli dazi: acquistarsi quindi per prezzo pagato in libero possesso di lor cose»; ai genovesi, in poche parole, non poteva «essere addimantato altro», e il Barbarossa, seppur riluttante, dovette alla fine riconoscere tali buoni diritti.

    Le citazioni riportate sono tratte dagli Annales ianuenses del Caffaro, inaugurati quando era appena ventenne: nel 1152 li presentò alle autorità; letti in consiglio e pienamente approvati come conformi al vero, i consoli ordinarono allo scrivano del Comune di copiarli e riporli nel pubblico archivio. Di lui sono pervenute altre due opere: La Ystoria captionis Almarie et Tortuose, cioè la narrazione della conquista delle due città, e De liberatione civitatum Orientis, storia delle imprese di Oriente, dalla prima spedizione genovese alla presa di Tripoli di Siria (oggi in Libano), nel 1109; ma più importanti risultano indubbiamente tali Annales. «La narrazione», osservò Formentini, «è sobria, lo stile quasi sdegnoso degli ornamenti, e tuttavia il latino che egli adopera, pure coi suoi costrutti volgari, è certamente meno barbaro che in altri scritti del suo secolo».

    Grazie a quelle pagine Genova vanta non solo il più antico cronista laico medievale, ma anche il più remoto esempio di storia ufficiale scritta da un protagonista di molta parte degli eventi stessi, o almeno da chi agevolmente era in grado di rinvenire i documenti più riposti o ascoltare le più probanti testimonianze. E la narrazione si dipana ininterrottamente per oltre 60 anni; fino al 1163, per la precisione, quando probabilmente Caffaro si interrompe – si suppone – per l’amarezza suscitata in lui dalle discordie serpeggianti nella Repubblica: quella patria per la cui pace e prosperità tre volte al giorno sempre pregò.

    Morì nel 1166, a oltre 85 anni. Dopo di lui ricevette l’incarico di portare avanti gli Annales Oberto Cancelliere: anch’egli un personaggio di rilievo, già mercante, uomo politico, diplomatico, più volte console. Altri, successivamente, condussero il grandioso affresco fino al 1294: «Una storia di quasi dugento anni cominciata da scrittori gravissimi e contemporanei», come scrisse il Muratori, «fu continuata di mano in mano da scrittori gravissimi e contemporanei… dobbiamo perciò congratularsi con la nobilissima Repubblica de’ Genovesi, ch’ella sopra di tutte le altre città d’Italia (n’eccettuo Roma) possa mostrare una cronaca per decreto de’ suoi maggiori così lungamente continuata… e fosse piaciuto al cielo, che le altre città avessero imitato un sì illustre esempio».

    I papi in visita a Genova

    Anno di grazia 1118: giungendo a Genova, Gelasio ii apriva la lunghissima serie di pontefici ospitati nella Superba.

    Costretto a lasciare Roma occupata dall’antipapa Gregorio vii, era diretto in Provenza. Fece tappa a Pisa, e a essa concesse il primato spirituale sulla Corsica, appetita pure dai genovesi: la cattedrale di quella città fu in questo modo elevata alla dignità vescovile, subordinandovi appunto le chiese corse. Una volta a Genova, riconobbe l’autenticità delle reliquie del Battista – portate vent’anni prima dall’Oriente – e il 10 ottobre consacrò la parte già costruita di San Lorenzo: la relativa pergamena è oggi conservata nel Museo della Cattedrale. L’una e l’altra cosa, comunque, non bastarono a rialzarne l’indice di gradimento, tanto che al suo comportamento vanno imputati in ultima analisi gli atti di guerra presto iniziati contro i rivali toscani, schiacciati una volta per tutte il 6 agosto 1284 nella battaglia della Meloria.

    Più soddisfacente l’esito della seconda visita pontificia, compiuta da Innocenzo ii nel 1130. Le circostanze erano analoghe: abbandonando la sua sede all’antipapa Anacleto, scelse anch’egli la Provenza, toccando Pisa e Genova. Più diplomatico del predecessore, evitò di sbilanciarsi – anche perché contava di servirsi d’entrambe le potenze per affermarsi sull’avversario – e anzi, privilegiò un tantino i genovesi, consacrando personalmente il nuovo vescovo, Siro ii. Il quale dopo tre anni doveva diventare arcivescovo, il primo della Chiesa genovese, che cessava così d’essere sottomessa a quella di Milano, altra città che al pari di Pisa ai genovesi non andrà mai giù.

    Anche la terza presenza è legata a eventi analoghi: toccò ad Alessandro iii abbandonare Roma per la Provenza, incalzato dall’antipapa Vittore. Ai nostri occhi di posteri disincantati la cosa rischierebbe di risultare monotona, ma un supplementare motivo d’interesse anima la vicenda: Vittore era sostenuto da Federico Barbarossa, deciso a portare i Comuni dell’Italia settentrionale alla piena obbedienza. Appoggiando invece Alessandro – legittimità e fede a parte – Genova evidenziava la sua posizione anti-imperiale. Nel marzo del 1162, dunque – mentre si compiva il dramma di Milano, devastata da Federico – ventidue galee scortarono con la massima ostentazione il pontefice a Genova. Nuovissima appariva la cinta muraria, costruita febbrilmente da popolani e nobili proprio per smorzare le velleità del Barbarossa; Alessandro, ammirando l’opera, espresse il suo compiacimento:

    «Siano le vostre mura inespugnabili come i vostri petti!».

    Più drammatiche le ragioni della successiva presenza papale, quasi un secolo dopo. Tempestosa si era fatta la lotta fra Chiesa e Impero, retto da Federico ii, e Genova ancora s’era schierata contro quest’ultimo. Sinché alla cattedra di Pietro fu eletto un genovese, un Fieschi, nato in piazza San Lorenzo. E Innocenzo iv, energicissimo, di vasta cultura e grandi doti diplomatiche, doveva battere definitivamente il grande avversario, con l’aiuto determinante dei concittadini.

    Già aveva deciso di convocare un concilio, nel 1244, con cui intendeva annientare Federico, ma in pratica si trovava nel Lazio circondato dagli imperiali e impossibilitato ad agire. Una volta al corrente della situazione, i genovesi allestirono una flotta che, fingendo altri intenti, riuscì il 27 giugno a toccare Civitavecchia. Subito avvertito, Innocenzo si precipitò per sentieri occulti, travestito da cavaliere e con ristrettissimo seguito, e presto raggiunse le galee. Il 7 luglio – attardati i legni da numerose burrasche – l’insigne ospite sbarcava a Genova. E l’imperatore? «Mentre che giuocavo col papa al giuoco degli scacchi, avevo tale partita che gli davo scacco matto o scacco rocco; e vennero i Genovesi, e gittarono le mani sullo scacchiere e scompigliarono tutto il giuoco».

    Come sede del concilio si finì per scegliere Lione. Innocenzo preferì affidarsi a vie di terra, ma poco dopo la partenza cadde gravemente malato. Per alcuni mesi

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