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Castigliego e i tormenti del Papa: Una nuova indagine in Vaticano
Castigliego e i tormenti del Papa: Una nuova indagine in Vaticano
Castigliego e i tormenti del Papa: Una nuova indagine in Vaticano
E-book311 pagine3 ore

Castigliego e i tormenti del Papa: Una nuova indagine in Vaticano

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Info su questo ebook

Manuel Castigliego, giovane commissario italo- spagnolo, indaga in maniera non ufficiale sulla morte di Freitas, giornalista indipendente, e tra le sue carte trova un post-it su cui è vergata una sola parola: Sheol. Castigliego apprende dal suo amico arcivescovo Delfo Furiesi che, secondo l’Antico Testamento, lo Sheol è un luogo putrido e tenebroso, il regno di tutti i morti senza distinzione sociale, dove Dio minaccia di precipitare gli uomini. Nel frattempo, durante il conclave che elegge Papa Celestino VI, un cardinale muore avvelenato. Assassinio o tragica fatalità? La serie di omicidi non finisce qui e le indagini dell’affascinante commissario Castigliego si diramano in più direzioni, fino a prendere in considerazione la teoria dell’umana pietas, ma l’aiuto di un bizzarro anatomopatologo si rivela prezioso. Unico neo: dovrà diradare la frequentazione con la bella Aurora, la sua ultima conquista.

Alessandro Maurizi nasce nel 1965 a Tuscania. Ispettore della Polizia di Stato, vive e lavora a Viterbo. Nel 2008 esce il suo primo romanzo L’ultima indagine (Ciesse Edizioni), secondo classificato al Premio Fedeli. Dal 2010 pubblica numerosi racconti in diverse antologie tra le quali: Viterbo in giallo (Edizioni il Foglio) con il racconto Il mondo di Alice menzione speciale dell’Associazione Culturale Carta e Penna di Torino; Delitti d’estate (Novecento Editore) con il racconto Amore e Morte finalista al Giallo Mondadori di Ravenna; Crimini sotto il sole (Novecento Editore) con il racconto Il fiore del male; Meglio non morire d’estate (Giulio Perrone Editore) con il racconto L’estate del cardinale finalista al Giallo Mondadori di Latina; Nero mediterraneo (Ego Editore) con il racconto L’Idra; 44 gatti in noir (Fratelli Frilli Editori) con il racconto L’inciampo del commissario Castigliego. Con il racconto Senza amore, senza vita vince l’ottava edizione del concorso letterario “Carabinieri in giallo 2014”, il racconto è stato pubblicato sul nr. 1374 della storica collana del “Giallo Mondadori” (2015). Nel 2017 con il racconto Storia di Aylan si classifica al terzo posto nel concorso “Pagine Migranti” rivista ufficiale della Polizia di Stato. Nel 2014 pubblica il suo secondo romanzo Il Vampiro di Munch (Ciesse Edizioni) con il quale vince il Premio Bovezzo in Giallo e il Premio Fortezza di Monte Alfonso in Garfagnana. Dal 2011 è presidente dell’Associazione Letteraria Romiti. Da anni organizza eventi culturali collaborando con Caffeina Festival di cui l’Associazione Letteraria Mariano Romiti è tra i soci fondatori. Dal 2016 è direttore generale di Ombre Festival, un’importante manifestazione culturale che si svolge a Viterbo nel mese di luglio. Nel 2018 pubblica il suo terzo romanzo Roma e i figli del male con Fratelli Frilli Editori con il quale vince il “Premio Giuria Popolare” al Festival Barliario di Salerno, “Il Premio Thesaurus” e il “Premio la città della rosa” ad Aulla, il “Premio della critica” al Festival Giallo Latino a Sabaudia e “Premio speciale le Periadi” a Policoro. Nel 2019 con il racconto Maresciallo, io la odio si classifica al secondo posto nel concorso letterario “Gialloluna Neronotte” in collaborazione con il Giallo Mondadori. Nel 2019 con il racconto Il fontanile della strega vince il “Premio Giallo Ascoli”.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2019
ISBN9788869433894
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    Anteprima del libro

    Castigliego e i tormenti del Papa - Alessandro Maurizi

    1

    Città del Vaticano, Appartamenti pontifici

    «Padre, io ho paura.»

    «Santità, la prego...» rispose angosciato Alisson Camargo.

    «Non dormo più, ormai. Ancora più atroce è che non trovo pace nemmeno nella preghiera. Ogni parola che mormoro nel buio, nelle notti insonni, mi scuote con violenza il cuore, accusandomi.»

    «Non dica così. Lei è il Vicario di Gesù Cristo.»

    «Dio non ci ascolta più. Si è ritirato lontano, disgustato, fuori dalla portata dei nostri artigli. Non vuole più ascoltarci. Così le mie preghiere non hanno più senso, né riusciranno a raggiungere il cuore di un solo uomo. Dio le rifugge inorridito.»

    Il segretario particolare Camargo si passò un fazzolettino di carta sulla fronte e sul mento.

    «Io, Celestino VI, sono solo un fantasma spaventato. Spaventato dagli uomini, da ciò che di essi vedo e ascolto, ma ancora di più spaventato dal giudizio che Dio stesso darà di me. Non userà alcuna misericordia, né io posso aspettarmene. Ora sento ciò che ho sempre creduto esistesse: l’odio di nostro Signore. Ecco quello che stasera voglio confessarle, padre, come io, per volontà di quello stesso Dio che ora a ragione mi odia, sono diventato complice di assassini.»

    2

    Dal divano, Salgado guardava il suo coinquilino intento ai fornelli. Lo fissava con occhi inespressivi, come fossero altrove, in un mondo che non lo riguardava. In realtà all’animale non sfuggiva il minimo movimento dell’umano.

    «È stata una grande storia, Salgado» disse il commissario Castigliego sbattendo un uovo in un piatto, «l’elezione di un papa, ti rendi conto? Certo, è morta un po’ di gente, ma si muore sempre, ogni giorno, che ti credi? Mica come te che sei quasi immortale, tu hai sette vite» proseguì spolverando un po’ di pecorino e un po’ di pepe sull’uovo. Intanto l’acqua bolliva nella pentola. «E poi a chi la vai a raccontare una storia così? Nessuno la capirebbe, non ho capito nemmeno io come sono finito in mezzo all’elezione di Celestino VI. Mah! Sembrava un romanzo alla Dan Brown, però questa è stata una storia vera, solo che non si capisce dove sia iniziata e dove sia finita, ammesso che sia finita. Comunque non fregherebbe niente a nessuno di questa storia. A te poi, ancora meno. Forse interesserebbe a quello stronzo di Antimo De Marchi. Te lo ricordi il questore? Mi disse che nell’errore poteva esserci la grandezza, che se Colombo non avesse sbagliato strada non avrebbe scoperto l’America. All’inizio mica avevo afferrato il concetto, poi invece… Anche lui ha commesso degli errori, li ho annotati nella mente, tutti. Mi piacerebbe fargli alcune domande perché sarà pure il questore, ma conoscere cose prima che avvengano mi sa da paraculi» proseguì il commissario mentre da una mensola tirò fuori un Brunello di Montalcino che mise sul tavolo. «Tu mi dirai che sono matto a ripensare a quella storia, che dovrei fregarmene e pensare ad altro… sei un gatto e forse puoi comprendere perché quando l’uomo non ha il cuore occupato allora la testa va dove gli pare. Ha ragione la signora Aida, se avessi una donna non avrei necessità di farmi tante domande… starei meglio e non come stasera e domani… e dopodomani… Mica mi sarei messo a pensare ai morti e ai vivi. Mi senti, Salgado?» Il gatto rispose con uno sbadiglio. «E ora che so quasi tutto, che cosa so? E comunque se confidassi al mio capo Loris Greco i sospetti su De Marchi, di sicuro mi manderebbe via dalla squadra mobile. Greco è un tipo in gamba, per carità, ma mi direbbe di farmi i cazzi miei, di non uscire dal seminato. No Salgado, è meglio non raccontare niente a nessuno di quello che è accaduto, tanto le cose più importanti le sanno e se vogliono così, a me così può anche andare bene. Dai, non dormire e ascoltami…» Castigliego prese un calice di cristallo da una vetrina e vi versò due dita di Brunello. «Non mi ha fatto né bene né male, quello che è successo intendo, anche se di buono in questa storia ce n’era poco. A dire il vero l’arcivescovo Furiesi mi ha sorpreso, così come la Goldoni. Tu penserai che stavolta non ho fatto bene il poliziotto, ma chi se ne frega. Non c’è nessuno che mi chieda come fare il poliziotto, neanche il capo e tantomeno il questore. Insomma Salgado, senza le storie degli altri stasera siamo di nuovo noi due, con la nostra di storia, amico mio» concluse Castigliego sollevando il calice di Brunello verso il gatto assonnato.

    3

    La sede dell’agenzia di stampa Anip si trovava in una specie di garage sotto un palazzone di Roma. La redazione era un gran casino: alcuni cassetti a terra, un armadio con le ante spalancate e al centro una grande scrivania su cui erano state accumulate riviste e quotidiani alla rinfusa. Solo l’archivio, ricavato in un mobile dov’erano conservati ritagli di giornale risalenti ad anni prima, sembrava tenuto con cura.

    Leone Freitas, il direttore dell’agenzia, era un cinquantenne dall’aria affaticata. Da quasi trenta anni faceva il cronista.

    «Che stronzo!» sbottò puntando gli occhi su alcuni appunti. «Che stronzo!» ripeté ad alta voce sbattendo a terra il taccuino. «Quando mi dirà perché lo hanno ammazzato?»

    Freitas urlava, sempre. Urlava per fatica, per noia. Raramente per rabbia. Si accese un sigaro e pensò al commissario Castigliego. Quello sbirro aveva stampate sulla faccia la sua stessa fatica e la stessa noia, si disse.

    Aspirò il fumo dolciastro e uscì in strada. A Roma era calata la sera su un febbraio benevolo. Il freddo quell’inverno si era sentito poco, in compenso la pioggia aveva messo a dura prova i pozzetti di raccolta dell’acqua piovana. Freitas osservava Roma stringendosi nel giaccone. Quante pagine aveva scritto, si disse, sul malcostume della città, sulle ruberie del governo e degli amministratori, sui legami tra politici e malavita. Da anni ne scriveva e da anni i malavitosi continuavano a fare affari aumentando il loro potere. Per un periodo aveva lavorato per un quotidiano dove ai lettori, e anche ai padroni del giornale, interessavano i particolari trucidi che accompagnavano i delitti e non le notizie che potessero infastidire il potere. Intanto che sbuffava fumo gli sembrò di sentire ancora il suo vecchio direttore mentre urlava di dargli notizie e non chiacchiere da bar, e lui le notizie le dava anche se spesso era solito chinare gli occhi per noia. Per questo se n’era andato, perché voleva muoversi più in profondità, dov’era possibile trovare altre storie, quelle che odoravano di vita. Così era nata l’agenzia di stampa Anip. All’inizio avrebbe dovuto essere un giornale con tiratura quotidiana, con il passare del tempo si era preso l’abitudine di uscire quando c’era qualcosa da raccontare e questo i suoi lettori lo sapevano bene. E da qualche settimana aveva iniziato a scrivere ciò che altri non avevano nemmeno notato. E qualche collega lo definiva paranoico, altri puntavano l’indice contro le assurdità che andava raccontando e cioè storie di complotti senza capo né coda, storie che faticavano a tenersi in piedi. In pochi ci credevano, ma lui imperterrito scriveva e raccoglieva in una pubblicazione quasi miserabile, tre-quattro fogli ciclostilati a volte scritti in fretta con un italiano approssimativo.

    Freitas guardò il cielo senza intravedere stelle. Gettò il mozzicone del sigaro a terra e rientrò nella redazione. Riprese da terra gli appunti, li mise sul tavolo e li confrontò con altri. Di fianco spiccava un numero de La Repubblica che riprendeva alcuni suoi articoli della storia bislacca che andava raccontando. Presto alcuni colleghi sarebbero morti d’invidia e avrebbero smesso di considerarlo un giornalista mezzo fallito che tirava avanti con un giornale sbiadito. Quel numero de "La Repubblica" era la prova che nell’ambiente qualcosa stava iniziando a muoversi e questo significava che le sue elucubrazioni non erano poi così strambe. Presto altri quotidiani avrebbero seguito la stessa strada. Lui, però, era stato il primo a cavalcare la notizia perché aveva avuto la giusta soffiata, perché qualcuno aveva deciso di sussurrargli all’orecchio. Una fonte che ora, inspiegabilmente, si era inaridita. Non chiamava più, né rispondeva al cellulare. Cosa avrebbe dato in pasto ai lettori si chiese, mentre chino sul tavolo fissava gli appunti come fossero la soluzione al problema.

    Si sedette su una sedia e chiuse gli occhi sperando di trovare nel buio l’idea. Non si accorse dell’ombra che lo aveva seguito all’interno della redazione. Freitas sbuffò per la fatica, per l’ansia, mise il viso tra le mani e sospirò. In quell’istante sentì un dolore lancinante alla tempia e un bagliore nel buio della redazione. Solo un istante, veloce come un lampo, percepito prima dell’ultimo respiro.

    4

    Il sovrintendente capo Barbarico portava i capelli neri corti, gli occhiali a specchio e aveva le braccia tanto muscolose da entrare a fatica nelle maniche della camicia. Sembrava aver visto qualche film americano di troppo, anche se a osservarlo meglio dava più l’impressione di un mafioso russo.

    Entrando nell’auto, Castigliego gli lanciò un’occhiata di traverso.

    «Sta tornando il caldo, affanculo» esordì Barbarico.

    «A febbraio?!» obiettò Castigliego.

    «Commissà, ho quasi cinquant’anni, lei molto meno… quanti?»

    «Trentadue…»

    «Ecco appunto, io sto andando in andropausa» disse immettendosi in via Nazionale.

    «Però ti mantieni giovane, vai in palestra, quante ore ci passi?»

    «È la mia Harley a mantenermi giovane» disse sviando il discorso, «e poi devo stare in forma. Io non sono fortunato come lei, a me le donne non corrono dietro, ci devo perde tempo. Che poi sarebbe meglio che mi facessi i cazzi miei perché non so se gliel’ho mai detto commissà, ma pago due mantenimenti.»

    «Ti sei sposato due volte?»

    Barbarico annuì: «Esatto, due volte e qui ci starebbe bene una bestemmia. Lei non si faccia fregare dalle donne.»

    Nei pressi della questura, una ragazza attraversò la strada. Tette in bella vista, strette dentro una maglietta bianca con un giubbotto aperto davanti e chiappe in pieno campo visivo nei pantaloni a vita bassa.

    Barbarico non si trattenne, tirò giù il finestrino e mise insieme due parole stonate: «Quella tua maglietta finaaaaaa…»

    Castigliego lo fulminò con gli occhi, mentre la ragazza gli lanciò uno sguardo torvo.

    «Commissà mi scusi, ma l’ha vista quanto è bona?»

    «Barbarico, penso che ti debba dare una regolata.»

    «Scusi di nuovo, ma a lei non l’ho vista mai con una donna. Come mai? Eppure la corteggiano da matti, le portano i fiori in ufficio, magari lo facessero con me. Se le va una di queste sere andiamo in un locale che hanno aperto da poco a Ciampino. C’è la figa a cesti commissà, specialmente il sabato sera. Se viene fa una strage. Io le sto vicino, hai visto mai che qualcosa le scappa.»

    Castigliego accennò un sorriso ma non rispose.

    «Riuscirò a portarla in questo locale» proseguì Barbarico, «oltre alla figa a cesti ci sono pure i giornalisti a caccia di scoop perché non è raro imbattersi in qualche personaggio dello spettacolo. A proposito di giornalisti, ha visto chi si è suicidato tre giorni fa?»

    «Leone Freitas?»

    «Sì. Commissà, lei non ci crederà ma dopo l’indagine sul vescovo Casiraghi ho preso l’abitudine di leggere tutti gli articoli che parlano del Vaticano. E questo Freitas parlava di strani complotti. Noi lo sappiamo che dei vescovi e dei cardinali non ci si può fidare.»

    «Non è vero, Barbarico.»

    «Eppure quello che…»

    «Quello è stato un episodio, la maggior parte delle storie viaggiano silenziose e in strade opposte.»

    Barbarico non rispose, rimase con gli occhi fissi a osservare la strada.

    «Ma lei l’ha conosciuto Freitas?» domandò poi.

    «L’ho incontrato qualche volta» aggiunse con aria assente Castigliego.

    «Come mai, se posso chiederglielo?»

    Il commissario sentì di aver detto una frase di troppo. Barbarico era uno dei suoi collaboratori, ma non si fidava, non del tutto. Per questo tergiversò nella risposta: «Questioni legate al Vaticano, poi hai letto i suoi articoli, no?»

    «Lo hanno ammazzato per questo?»

    «Come fai a dire che lo hanno ammazzato? Si è sparato in testa.»

    «Non lo so» rispose Barbarico, «ma quando ci sono i preti di mezzo, la cosa puzza già in partenza.»

    «Freitas di sicuro non viaggiava in acque tranquille, economicamente intendo. Aveva un piccolo giornale, ci andava avanti a malapena. Il suicidio potrebbe starci.»

    «Mah! Sarà come dice lei, commissà.»

    «Non ci pensare, lasciami vicino alla mia auto, voglio andarmene a casa, le carte le vedrò domattina.»

    Barbarico si fermò vicino a una Z4. «Bello lei commissà e bella la macchina, per forza le donne le corrono dietro.»

    Castigliego salutò senza aggiungere nemmeno un sospiro. Salì in auto e partì verso casa.

    5

    Sui quotidiani niente dura. Lì dove un giorno un fatto riempie un’intera pagina, il giorno seguente sparisce quasi del tutto. I lettori ingurgitano e subito dopo buttano via, come cassonetti dell’immondizia, pensò Castigliego mentre dal divano del suo loft continuava a leggere gli ultimi numeri dell’agenzia Anip pubblicata da Freitas.

    A Manuel i giornali non piacevano e nemmeno i giornalisti, però a volte potevano essere utili. Sorrise ripensando alle parole della signora Aida: I giornali sono utili per la lettiera del vostro gatto, assorbono la pipì in modo impressionante e anche per pulire i vetri sono buoni.

    Tra i giornalisti che gli piacevano meno c’erano quelli televisivi, forse perché si vedeva anche la faccia e questo peggiorava la faccenda.

    Quando gli capitava di assistere a qualche trasmissione lui ascoltava le parole e osservava incuriosito le facce e spesso non lo convincevano né le une né le altre. Notava che rispondevano troppo velocemente alle domande che gli venivano poste, non c’è da fidarsi di chi non si prende mai un minuto prima di rispondere, si disse. Tutti portatori di verità, ma la verità è sempre più complicata di come la raccontano e le parole non vengono così precise. Un giornalista è in grado di recitare al pari di un politico, ne era certo.

    Castigliego evitava quei dibattiti con ospiti sempre uguali, settimana dopo settimana. Un museo delle cere perennemente in diretta. E sui giornali non si parlava più del suicidio di Leone Freitas. Solo un trafiletto, dieci righe appena. Era stata fatta l’autopsia sul corpo del giornalista e il suicidio era di fatto confermato: il cervello spappolato da un colpo di pistola nella tempia. L’unico mistero era rappresentato dalla provenienza della pistola. La matricola era stata abrasa, gli accertamenti erano in corso. Tutto qui, nient’altro. Mise via il giornale, accarezzò la testa di Salgado che mostrò di gradire spingendola contro il palmo della mano.

    Salì la scala che portava alla camera da letto ricavata in un soppalco e protetta da solide balaustre in vetro che facevano sembrare l’ambiente più ampio. Da un cassetto della cabina armadio tirò fuori dei pantaloncini e una maglietta. Li indossò, poi scese di nuovo sotto. In un angolo aveva ricavato una palestra con alcuni séparé di vetro su cui erano applicate decalcomanie. Infilò gli scarpini e i guantoni, non prima di essersi protetto le mani con le bende. Iniziò a colpire il sacco che penzolava dal soffitto. Piccole gocce di sudore scesero lungo il petto, dietro le orecchie. Colpire lo aiutava a pensare.

    Sinistro/sinistro/sinistro/destro/montante, la mente più lucida, il fisico più forte. Nella faccenda di Leone Freitas c’era qualcosa che non andava, si disse, perché conosceva quel giornalista. Negli ultimi tempi si erano visti in un bar di periferia. Era stato Freitas a cercarlo per fargli domande su una brutta storia di pedofilia ed esorcismi. E in un bar di periferia si erano scambiati parole, il giornalista affamato di notizie e il poliziotto alla ricerca di una fonte che potesse fornire indiscrezioni.

    «Commissario» gli aveva detto, «in Vaticano deve essere accaduto qualcosa di così terribile da tenerla nascosta all’opinione pubblica.»

    «Cos’è accaduto?»

    «Cazzo! Non lo so! Qualcosa che mi viene appena bisbigliato, mezze parole.»

    E di questo Freitas aveva iniziato a scrivere nel suo giornale, di fumosi complotti, di strani giochi di potere e forse di un omicidio. Chi fosse morto, però, nessuno lo sapeva. Castigliego colpì il sacco sempre più forte, il sudore lungo la fronte, i capelli che davano fastidio agli occhi.

    I complotti di cui parlava Freitas, forse Castigliego in parte li conosceva e comunque un’ipotetica morte in Vaticano avrebbe riguardato la gendarmeria vaticana e non la polizia. Il poliziotto smise per un attimo di colpire e riprese fiato. Si guardò in uno specchio, il volto sudato, il fiato corto. Che cazzo sto pensando, si domandò, che cazzo d’altro ho da pensare, si rispose.

    Dormì tutta la notte sognando di non dormire. Dormì, ma si sentì in veglia. E nella veglia irreale, sapeva di dormire. Da alcuni mesi, il sonno del commissario era diventato strano. Un sonno di pietra, faticoso, secco, doloroso. Come quello che la madre lo obbligava a fare nel pomeriggio prima dei compiti.

    «Devi riposare amore mio.»

    «Ma non ho sonno, mamma.»

    «Non avere paura, amore, veglierò su di te.»

    «Non ho paura di dormire, non ho sonno.»

    «Dormi amore mio, ci sono io con te.»

    «Ma io…»

    «Ho detto dormi!»

    E in quel sonno irreale indotto, sentiva il suo respiro di sonno che mai era sonno, mentre la madre rimaneva per tutto il tempo di fianco al letto a fissarlo.

    Solo con il tempo aveva imparato a riconoscere la morbosità di sua madre, un’ossessione fuori controllo che la portava a riempirlo di esasperate attenzioni.

    Non aveva sonno allora, così adesso, ore e ore con gli occhi stretti, ad aspettare. Alla fine facevano male gli occhi serrati, nel tentativo vano di afferrarlo, quel sonno. Lo sentiva aggirarsi attorno al corpo, si sentiva sfiorato. Arrivava travestito da sonno che poi sonno non era e di colpo scompariva del tutto. Allora apriva gli occhi nel buio, con la voglia di mordere l’aria, come se la notte che fuggiva portasse via anche il suo respiro. Fino a quando il grigio di una luce cominciava a prendere forza, filtrando dalle tende. In quella semioscurità cercava con gli occhi i contorni degli oggetti: la cabina armadio, il comodino, la lampada e i giornali di Freitas ammucchiati in fondo al letto.

    Castigliego osservò il soffitto come fosse una profondità irraggiungibile. Salgado continuava a dormire beato al suo fianco, gli sembrava di sentire i battiti del cuore del felino, mentre con gli occhi spalancati rinunciò del tutto al sonno fuggito.

    «Buongiorno» disse carezzando la piccola testa. Gli passò una mano lungo la schiena, Salgado la incurvò leggermente, seguendo la pressione delle sue dita, con un lungo sospiro di piacere.

    Castigliego cercò nella semioscurità una direzione da seguire mentre il gatto, dopo un breve e soffocato miagolio, cominciò di nuovo a ronfare.

    6

    E la direzione la trovò in un brandello di periferia buttato a ridosso del Raccordo Anulare dove ogni cosa sembrava sempre uguale. C’era una chiesa con una sorta di porticato con sopra stampato Io sono la via la verità, la vita. Una piazza con delle panchine semidistrutte, una fontanella che perdeva acqua, bottiglie di birra vuote abbandonate nell’erba incolta e alcuni anziani seduti a cercare uno spiraglio di sole in quel tiepido febbraio.

    Su un muretto, solo e forse ubriaco, un uomo grasso canticchiò una canzone e poi chinò il capo come se si fosse addormentato. Castigliego lo guardò per un istante, poi spostò lo sguardo all’orizzonte verso la mole di un immenso centro commerciale che premeva sulla borgata.

    Lasciò la moto sul bordo della strada ed entrò in un bar con le porte a vetro color grigio. Era lì che di recente aveva incontrato Leone Freitas.

    Dentro avvertì un odore di varechina. Alcuni avventori fissavano gli schermi di videopoker, infilando banconote e monete. Sul fondo della sala, dietro la cassa, c’era un uomo con la camicia aperta sul petto villoso. Aveva radi capelli lunghi e bianchi in disordine con un tentativo di riporto per coprire una calvizie ormai definitiva.

    «Salve.»

    «Dica.»

    «Mi fa un caffè?»

    Senza rispondere, l’uomo si girò e lo mise in lavorazione.

    «Ha saputo di quel giornalista che si è sparato?»

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