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Agenzia Bonetti (e Bruno): Investigazioni Bologna
Agenzia Bonetti (e Bruno): Investigazioni Bologna
Agenzia Bonetti (e Bruno): Investigazioni Bologna
E-book256 pagine2 ore

Agenzia Bonetti (e Bruno): Investigazioni Bologna

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Info su questo ebook

Hanno nove e diciassette anni Vito e Angela Castrignanò. Il piccolo è instabile, la ragazza testarda e introversa. Loro madre è fuggita con un giostraio, vivono con il padre tossico, violento e alcolizzato. Uno spacciatore mediocre e indebitato, che si sta giocando la pelle per una partita di droga mal tagliata. Per lui i suoi figli valgono meno di una dose. Pensa che potrebbero spacciare e battere, per aiutarlo a saldare il conto con gli strozzini. Walther Bonetti è un investigatore privato che ha appena aperto la sua agenzia in piazza San Martino e cerca di arrivare a fine mese adattandosi a tutto per pagare bollette e mutuo. Ha una moglie e una bimba. Ha sogni e desideri che, per quanto modesti, forse non si realizzeranno mai. Lui così preciso e premuroso. Una vita geometricamente inscritta nelle proprie regole. Ed ecco arrivare l’incognita, come un meteorite infuocato che sfonda il tetto di una capanna distruggendo tutto. Un soggetto instabile, delirante, pericoloso per sé e per gli altri, e scaltro. Tanto da prendersi gioco di Bonetti. Ma è davvero un nemico? Un’indagine notturna e senza ritorno, tra abusi, rapimenti, menzogne e omicidi. Tra jazzisti drogati, buttafuori, spacciatori e giocatori d’azzardo. Alla disperata ricerca di una luce che non esiste più.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2016
ISBN9788869431241
Agenzia Bonetti (e Bruno): Investigazioni Bologna

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    Anteprima del libro

    Agenzia Bonetti (e Bruno) - Roberto Carboni

    Prologo

    1

    Quando la paura si calmò un pochino, Angela trovò il coraggio di aprire la porta della camera e sbirciare per il corridoio.

    Al pensiero di uscire allo scoperto, il cuore le impazzì nuovamente. Le ginocchia non volevano saperne di sorreggerla. Sentiva il bisogno di rimettere la poca cena che era stata costretta a ingurgitare a tavola, per non fare insospettire suo padre.

    Spiccò una corsa in punta di piedi. Calzini bianchi a righe rosa. Le scarpe da ginnastica in mano, qualche decina di euro in tasca.

    Il corridoio era libero, libero…

    Quando fu a un passo dalla porta, il bastardo sbucò dal bagno buio. «Dobbiamo parlare».

    Parlare, certo. Come no.

    Vito, il suo fratellino di nove anni, era a letto che dormiva della grossa.

    Angela aveva capito che serata sarebbe stata, quando si era accorta che durante la cena suo padre riempiva di Lambrusco amabile il bicchiere del bambino.

    A Vito piaceva il vino dolce. Il bastardo lo aveva usato molte volte, su di lui, come sedativo.

    La ragazza si abbassò per tentare di guadagnare l’uscita.

    Fuori c’era il mondo. La normalità, la salvezza, il tepore.

    In casa no, era sempre estremo. Era freddo in inverno e bollente in estate. Era ansia che lui rientrasse ubriaco o strafatto. O, ancor di più, ansia che non si sballasse e fosse in grado di capire.

    Che diventasse poi così.

    La grossa mano le passò a un soffio dalla testa. Suo padre era famelico e violento ma non coordinava i movimenti.

    Adesso la porta era quasi a gittata del braccio.

    Ce la faccio, pensò la ragazza. Abbassò la maniglia e tirò con forza. Era salva.

    La porta non si aprì.

    Il bastardo aveva dato le mandate alla chetichella, mentre Angela era in camera a tentare di capire come limitare i danni.

    «Dove credevi di andare, signorina?».

    Un brutto strattone. Angela perse l’equilibrio e rovinò a terra. Batté il mento. Sputò un pezzo di incisivo.

    Rotolò sulla schiena, riaprì gli occhi.

    L’uomo era immenso, sopra di lei. Reso ancor più minaccioso dalla prospettiva verticale.

    Angela mosse mani e piedi come un ragno, arretrando fino al vecchio frigorifero. Si rannicchiò contro l’angolo del muro annerito.

    Avrebbe calciato e morso divincolandosi come un animale impazzito.

    Ma non sarebbe servito a nulla.

    La raggiunse prima l’ombra, poi lui.

    Un energumeno ben oltre il metro e ottanta, grosso e grasso.

    L’aveva comunque sempre odiata perché gli ricordava Rossana, che aveva voluto due figli poi era fuggita con un giostraio senza portarseli dietro. Cosa ne sapeva lui dei bambini? Sembravano puri e invece erano esseri umani a tutti gli effetti.

    Angela gli sputò. Provocandolo con la speranza che lui la colpisse subito forte. Più di ogni altra cosa al mondo, desiderava svenire senza dare a quel porco la soddisfazione di versare una lacrima.

    Prima parte:

    Il suo compito finiva lì, pensava

    2

    Agenzia Walther Bonetti. Investigazioni Bologna.

    La targa brillava perché era colpita dal festoso sole di maggio. E perché era nuova di zecca.

    Piazza San Martino, affitto stellare ma logisticamente perfetta. La chiesa proprio lì di fronte: se sei nei guai sperare non fa mai male.

    E il chiosco del fioraio: quando un marito dopo l’indagine scopre che la moglie non lo sta tradendo, magari si sente in colpa. I fiori calmano le ansie.

    Se invece capisce di aver ragione, può sempre rifugiarsi nel bar all’angolo.

    C’era anche un centro di apparecchi acustici. Si sa mai che uno avesse capito male…

    La pacca sulla spalla scosse Walther Bonetti, costringendolo a tornare alla realtà. All’ufficio in cui si trovava.

    Il suo nuovo ufficio.

    E all’uomo che aveva davanti.

    Il primo vero cliente, fino a quel momento. Gli altri sei casi cui aveva lavorato in autonomia, erano stati solo pedinamenti di ragazzini problematici (ma neanche troppo) e barbose indagini per divorzi.

    Odiava i divorzi, lasciavano nell’aria più ostilità di una guerra religiosa.

    Certo c’erano anche le collaborazioni con le agenzie investigative maggiori, con le quali si era formato. Ma in quei casi ubbidiva e basta, perché ogni barca deve avere un solo capitano.

    Walther Bonetti era una brava persona. Marito fedele e buon padre di famiglia. Un lavoratore energico che sapeva stare nei ranghi.

    Sarebbe stato il suo epitaffio. Inciso sul marmo, con un mazzolino di fiori vicino.

    Si era distratto di nuovo. La finestra aperta… Colpa della primavera e dell’odore che faceva Bologna, quando spuntava il primo sole dell’anno. Amava la collina, passeggiare per boschi, andar per funghi.

    Avrebbe dovuto godersi i complimenti che l’architetto Verardi gli stava facendo e, invece, nonostante le dimensioni, era troppo schivo.

    «Dottor Bonetti, lei è un fenomeno», disse l’architetto senza smettere di masticare la gomma.

    Ricominciava.

    «Non sono dottore».

    «Un fenomeno, dottore!».

    Appunto.

    L’architetto non lo ascoltava. Non era tipo da considerare le persone.

    Che era un bene. Altrimenti non si sarebbe infilato in quel guaio.

    Nella scheda cliente, custodita da Bonetti nello schedario sotto chiave, si leggeva che dopo la stentorea laurea a Firenze, l’architetto Mario Verardi aveva cominciato l’attività come arredatore d’interni. In seguito, a dispetto degli scarsi rendimenti scolastici, era diventato uno tra i più efficaci creativi pubblicitari.

    Sposato, quattro figli, uno con la sindrome di Down (lui preferiva dire Trisomia 21). Molti, molti, molti soldi, molte idee e progetti segreti. Due soci di minoranza tenuti al guinzaglio, una segretaria, apprendisti in studio come se piovesse. Tre pastori maremmani, un acquario con pesci tropicali da esposizione. Una Ferrari e una Cayenne. Una villa con piscina sui colli di San Lazzaro e una a Cortina, senza. Un attico in Costa Smeralda e uno in centro a Milano. Qualche amichetta di passaggio.

    Un’amante fissa, trentenne, ex modella d’intimo. Era stata su tutti i cartelloni d’Italia. Bionda con gli occhi verdi, un’autostrada di gambe e il culo come una mela. Il resto del corpo, da infarto. Al posto del cervello, la donna montava un processore di ultima generazione inceppato sulla parola denaro.

    Denaro, denaro, denaro, denaro, denaro…

    Anche Mario Verardi però aveva il suo punto debole.

    Qualcuno l’aveva anticipato su un progetto. E questo l’aveva insospettito. La sua appuntita sensibilità di figlio di puttana era come i baffi di un gatto.

    Così aveva ingaggiato la più prezzolata agenzia investigativa del settore. La pluripremiata Renzi e Lelli, di Milano.

    3

    I poliziotti privati avevano subito controllato lo stato di salute del suo computer. Era l’iter, scritto a pagina uno del manuale dell’investigatore.

    Non avevano trovato violazioni, I.P. sospetti, Cavalli di Troia né altro malware. Così avevano espanso la ricerca al più scomodo e poliedrico mondo reale. Esaminato soci, amici e presunti tali, e collaboratori, per un mese. Un torrente di persone.

    La moglie, il figlio maggiorenne, l’amante…

    L’amante.

    L’ex modella conviveva con un sardo, pluripregiudicato per truffa. Il Verardi non ne sapeva niente. Campanello d’allarme.

    Un altro mese di indagini non aveva portato a nulla. Il sardo era losco, loschissimo, ma non coinvolto.

    Il verdetto era stato triste: quello di Mario Verardi non era un caso di spionaggio industriale. Dopo decenni di successi, il suo genio creativo stava perdendo colpi.

    Verardi avrebbe preferito farsi tagliare il pollice della mano destra, piuttosto che sentirsi dare quella notizia.

    In concomitanza era giunto un altro flop. Questa volta ancor più eclatante. La stessa idea per una campagna pubblicitaria era venuta in mente a un signor nessuno, che lo aveva addirittura anticipato.

    L’architetto rischiava la paranoia. Così aveva pensato di agire trasversalmente e ingaggiare qualcuno di sconosciuto, che fosse esterno all’ambiente.

    Walther Bonetti, gli suggerirono.

    E chi era questo Bonetti?

    Ricerca su internet. Ottime referenze.

    C’era anche una foto. Sui quarantacinque. Le spalle massicce, il viso rotondo, il naso aquilino e due profonde rughe che precipitavano giù dagli occhi, di un chiarissimo celeste. Lo sguardo vivo, disciplinato e affabile.

    Appuntamento.

    «Quando posso venire da lei?».

    «Anche subito», gli aveva detto la voce dallo spiccato accento bolognese.

    L’architetto Verardi aveva portato con sé un borsone zeppo di carte. I rapporti della Renzi e Lelli, che stava ancora indagando in grande stile. Un’emorragia per il suo conto corrente.

    Seduto sulla poltroncina dietro la scrivania, con gli occhi socchiusi e le grandi mani sulla pancia. Bonetti non aveva preso in considerazione le scartoffie. Aveva fatto strane domande, ascoltando poi senza interrompere.

    All’architetto Verardi era venuta voglia di sapere qualcosa di più su di lui. Lo sguardo, la calma, la stazza… L’omone trasmetteva calore e un senso di protezione, come se stando con lui non ti potesse accadere nulla di male. Chissà se si occupava anche di servizi d’ordine e salvaguardie personali? Aveva pensato di fargli qualche domanda sulla sua vita privata, quando…

    «Per oggi è tutto. Le farò sapere» aveva detto l’investigatore.

    Sulla scrivania era comparso il modulo del mandato. Bonetti aveva puntato il grosso dito: «Firmi qui, qui e qui. Per la privacy».

    Era cominciata proprio così.

    4

    Tre giorni dopo era arrivata la telefonata. Verardi era in studio, in Strada Maggiore. Nel suo salone affrescato, stava dando da mangiare ai pesci. Rispose, era l’investigatore. Ordinò alla segretaria di uscire.

    «Dobbiamo vederci», aveva detto Bonetti.

    «Quando?».

    «Subito sarebbe meglio».

    Verardi era salito su un taxi.

    Era vero, nessuno aveva violato la sua casella di posta elettronica. Non ce n’era stato bisogno.

    In breve e semplicemente, l’amante dell’architetto Verardi aveva scoperto la password della sua mail, che era la stessa delle pagine dei progetti. Entrava nella posta e nelle cartelle protette usando il computer personale di Verardi, per questo non erano registrati I. P. sospetti e non c’era stato bisogno di installare un malware. La donna non ne aveva parlato al suo compagno: nelle truffe aveva deciso di mettersi in proprio.

    Tutto lì, nessun altro mistero. Le cose facili sfuggono alle menti complicate.

    Verardi era così felice (non aveva perso lo smalto), da non accorgersi che i veri problemi sarebbero incominciati ora.

    Era lui quello debole. Con una moglie e quattro figli, la sua posizione... Se avesse denunciato l’amante, la sua vita sarebbe esplosa.

    Doveva mandare giù il rospo e sperare che lei non avesse altre informazioni da vendere. Soprattutto che non passasse al ricatto esplicito. C’era la possibilità (si poteva dire la certezza) che la donna gli chiedesse una buonuscita, per non mostrare a sua moglie i filmini girati col telefonino che sbucava dalla borsetta, mentre loro due facevano l’amore.

    Walther Bonetti non accennò minimamente a queste cose, che immaginava già perché tanto andava sempre così. Il suo compito finiva lì. La vita dei clienti proseguiva oltre la porta, e lui non dispensava consigli filosofici.

    «Le auguro il meglio architetto Verardi».

    La mano dell’architetto sparì in quella di Bonetti.

    «A lei dottor Bonetti. È stato in gamba. La chiamerò ancora se dovessi avere bisogno».

    La porta si chiuse, tornò il silenzio.

    Bonetti guardò l’ora: le quattro e sedici di venerdì pomeriggio. Chiamò casa, informò la moglie. Potevano pagare la rata del condominio, le due bollette in scadenza e concedersi pure una scampagnata.

    «La piccola?», sua figlia Simona, di cinque anni.

    «È di là che gioca».

    Era così bello sapere di avere una famiglia, una casa, l’affetto.

    «Ti aspetto», concluse lei.

    Quando poteva, il venerdì Bonetti rientrava presto. Era il giorno della spesa. Nessuna passeggiata su per il colle dell’Osservanza, fino al parco Cavaioni.

    Chiuse l’ufficio, scese le scale.

    Appena fuori dal portone, provò una strana sensazione. Grattò la nuca, si guardò intorno.

    Qualcuno lo stava osservando, ne era certo. Un uomo era entrato per un istante dentro il suo campo visivo. Un tempo troppo breve perché lui riuscisse a metterlo a fuoco. Eppure tutte le sue lampadine si erano accese.

    Continuò a sbirciare la piazza fingendo di ammirarne l’architettura. Dove sei?, si domandò.

    Lo so che ci sei.

    5

    Camminò fino a via Rizzoli. Si fermò in un bar e ordinò un tè. Soffiare sulla bevanda bollente gli permetteva di prendere tempo e osservare.

    La sensazione persisteva. Bonetti però non riusciva a individuare nessuno che avvalorasse la sua percezione di pericolo. Quella che aveva intorno era la solita Bologna giocosa o affaccendata. Persone che si erano risvegliate dall’inverno. Le espressioni più vive, i vestiti più colorati. Qualche donna azzardava corte gonne senza calze. A quanto pareva, erano tornate di moda le tinte unite vistose.

    Finì il tè. Pagò. Uscì dal bar.

    Una sbirciata. Niente.

    Proseguì per piazza Maggiore. Chissà se il piccione appollaiato sulla testa del Nettuno, da lì in alto...

    Vedi qualcosa?, gli domandò col pensiero.

    Via D’Azeglio: la casa di Lucio Dalla.

    Si fermò a guardare il balcone. Le braccia dietro la schiena come un turista.

    Si voltò fingendo interesse per una vetrina.

    Ancora niente.

    Sei furbo, pensò. Dannatamente.

    Riprese a camminare.

    Viale Aldini, via San Mamolo. Casa sua. Oltrepassò l’arco, entrò nel cortile. Si nascose accanto al portone e attese.

    Finalmente udì i passi, rimbombavano sotto il voltone. No, un momento, li conosceva. Era il signor Montaguti, un maestro in pensione che abitava due piani sotto di lui. Il diabete se lo stava mangiando.

    «Buongiorno signor Montaguti».

    L’anziano signore si era fatto crescere una buffa barbetta.

    «Oh, buongiorno a lei signor Bonetti. Bella giornata eh!».

    Convenevoli. A Montaguti piacevano. Era cortese, chissà come mai non si era sposato.

    «A rivederci».

    Montaguti lo diceva così, staccato ed elegante: A rivederci.

    «Arrivederci».

    Rimasto solo, Bonetti attese. Invano.

    Possibile che si fosse sbagliato?

    6

    Chiara aveva lineamenti spensierati e antichi. Pareva nata

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