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L'Insonne
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E-book344 pagine4 ore

L'Insonne

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Info su questo ebook

In una piccola città portuale, l’ombra di un serial killer ritorna a tormentare la polizia e i cittadini con i suoi efferati omicidi dal misterioso rituale e dall’iconica frase scritta con il sangue: Finalmente posso dormire. L’ispettore Nicola Billi, dopo anni di assenza, cercherà di risolvere il caso che lo aveva visto già quindici anni prima coinvolto in prima persona, a causa del rapimento di sua figlia Luna da parte dell’assassino. Oltre a catturare il killer, dovrà riconquistare l’amore di sua figlia e riprendere il controllo della propria vita, in una città dove il male sembra essersi impossessato delle strade e dei cuori della gente. La narrazione si dipana tra le spire di tradimenti e colpi di scena, in cui ogni personaggio si ritrova implicato lungo una scia di sangue.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2022
ISBN9788893692564
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    Anteprima del libro

    L'Insonne - Daniele Zaccone

    Capitolo I

    Una città marcia

    «Ispettore, ha novità per me oggi?»

    L’aria fredda non aiutava i pensieri; avrebbe voluto rispondere che tutto stava andando alla grande e che il caso era vicino dall’essere risolto, ma con quel freddo anche le balle uscivano con difficoltà allo scoperto.

    Tutto ciò che rimaneva all’ispettore Nicola Billi era solo la verità.

    «Niente di nuovo dottor Mazzoni, appena avrò novità sarà il primo a saperlo.» Spense il telefono senza neppure salutare il Pubblico Ministero e le sue snervanti continue pressioni.

    Gli era venuta solo voglia di un buon punch caldo, magari al mandarino, con quell’alcool così rassicurante che distendeva i nervi e rendeva tutto più sopportabile.

    Potevano anche andarsene a fanculo tutti quella sera, perché lui aveva una missione e non intendeva venirne meno.

    Voleva solo ubriacarsi, e non pensare a quei poveracci sbudellati nei vicoli della città, senza alcuna pietà, senza qualche cristo che ne reclamasse i corpi martoriati dalla vita e da un pazzo, che ormai da alcuni mesi uccideva senza uno schema o un movente.

    Era un serial killer che, stando alla scientifica, con un coltello dalla grossa lama affilata al pari di un bisturi, sgozzava le sue vittime e apriva loro la parte addominale facendo uscire le viscere.

    Non era ancora abbastanza vecchio per andarsene in pensione ma lo era abbastanza per affermare che con quella brutta storia la misura iniziava a essere colma.

    Aveva assistito ai controlli del coroner, era stato uno dei primi ad accorrere sulle scene del crimine e, aveva vomitato anche l’anima ogni singola volta alla vista delle budella delle vittime sull’asfalto.

    Era entrato in quei vicoli in penombra e maleodoranti di urina calciando via i ratti che si erano riuniti per il banchetto.

    Nessun uomo nel pieno delle sue facoltà mentali avrebbe mai dovuto essere spettatore di un simile scempio della vita umana.

    Nonostante gli omicidi fossero opera di un vero e proprio macellaio, nessuna impronta e alcuna prova era mai emersa dai controlli.

    Il pazzo, ammesso che fosse stato solo quello, sapeva muoversi.

    Dentro di sé, nel frattempo, sentiva farsi strada una sensazione di familiarità a mano a mano che indagava su quel caso. Non riusciva in realtà a mettere insieme i tasselli del puzzle ancora, ma ne riconosceva vagamente l’immagine che si sarebbe composta alla fine.

    Ma cosa spingesse un assassino a infierire in quella maniera sulla propria vittima, che sembrava del tutto scelta a caso, non poteva ancora saperlo né immaginarlo.

    Il taglio addominale, atto a far fuoriuscire le viscere, veniva effettuato da una cresta iliaca all’altra, sempre post mortem con un’incisione netta, effettuata con una lama ben affilata. Ciò portava gli intestini a fuoriuscire dalla zona dell’obliquo interno per forza di gravità.

    Le cause del decesso invece, erano dovute dal profondo taglio alla trachea, eseguito subito dopo aver sedato la vittima con il Propofol, iniettato direttamente nella giugulare.

    L’ispettore Nicola Billi conosceva bene la crudeltà umana. Sapeva che gli assassini, soprattutto seriali, amavano ricamarci sui propri omicidi, con rituali dettati dalla follia e dal sadismo.

    Ricordava bene il caso de Il Rubacuori di appena tre anni prima in alta Italia, quando era riuscito a braccare e arrestare l’omicida, che asportava il cuore alle proprie vittime ancora vive, per il piacere di sentirne tra le mani gli ultimi battiti di vita.

    Ma, nonostante fosse convinto che la pazzia della mente umana non avesse davvero confini, c’era dell’altro che lo turbava quando pensava a quella particolare indagine e gli faceva venire in mente sempre la stessa domanda: «Ti conosco bastardo?»

    Era una domanda che si perdeva nel vento gelido di una notte come tante mentre, lasciata l’auto all’angolo della strada, s’incamminava infreddolito verso il locale.

    L’uomo spalancò la porta come se fosse stata la sua unica via di salvezza dall’inferno che lo stava per raggiungere e andò diretto al bancone.

    «Che ti porto sbirro?» chiese la donna dall’altra parte.

    «Qualcosa di caldo come l’inferno e soprattutto forte come le fiamme dell’inferno.»

    «Siamo di buon umore vedo.»

    «Gina, se un giorno mi vedessi di buon umore non mi riconosceresti nemmeno, credimi.»

    Andò dritto al solito tavolino, lontano dal casino, dai ragazzi molesti per il troppo alcol e le prostitute pronte a portarseli via appena fossero adeguatamente ubriachi.

    Da alcuni mesi una banda di papponi dell’est avevano sguinzagliato le loro ragazze per diversi quartieri della città; ma le priorità della polizia oramai erano cambiate in quel buco di posto, e non potevano sprecare energie per cose del genere.

    C’era un pluriomicida che faceva riversare su di sé tutte le attenzioni, mentre le puttane, in fondo, avrebbero potuto aspettare insieme ai loro sfruttatori bastardi.

    L’ispettore osservava quelle scene da lontano.

    Le ragazze, poco più che ventenni, giocavano con quei figli di papà su di giri, con tanta grana e con poco cervello, proprio come il gatto con il topo.

    Probabilmente quella sera qualcuno si sarebbe fatto molto male. Bisognava solo cercare di capire chi tra tutti quei geni avrebbe fatto la mossa sbagliata.

    Ma chi se ne frega disse tra sé e sé, mentre con l’unghia del pollice ricalcava la parola A.C.A.B. incisa sul legno del tavolo da qualche ragazzino che aveva giocato al sovversivo: All Cops Are Bastards.

    In fondo pensò l’uomo, siamo tutti dei bastardi, rinchiusi in un eterno e inutile gioco di guardie e ladri; un continuo correre, dove c’è chi scappa e chi cerca di prenderti.

    È la vita. Ma in fondo non esistono né buoni né cattivi in questo gioco ma, solo bastardi.

    La cameriera arrivò dopo pochi minuti con un vassoio e quattro shottini interrompendo le sue dissertazioni filosofiche.

    Lui la guardò incuriosito.

    Era poco più di una ragazzina dalle braccia e le gambe troppo magre e i capelli troppo biondi e sottili. Aveva gli occhi troppo grandi e un viso troppo ingenuo, per lavorare in mezzo a quella gentaglia.

    Se non ci fosse stata Gina a vegliare su di lei, con tutta probabilità, se la sarebbero già mangiata viva da un pezzo in quel posto. Specie i clienti dei turni serali.

    «Gina ha detto che ne avevi bisogno.»

    L’uomo sorrise stanco e le fece cenno di lasciare tutto sul tavolo.

    Poi rivolse un altro cenno, stavolta di ringraziamento, direttamente all’amica barista poco distante, che a malapena ricambiò con un gesto del capo e un sorriso tornando al suo lavoro.

    Erano cresciuti insieme e insieme avevano visto il mondo cambiare negli anni, quasi sempre in peggio.

    Lei era una donna scafata ormai, piacente ma vissuta, come solo chi ha davvero saputo consumarla la vita poteva essere; lui invece era solo uno sbirro con tutto ciò che ne conseguiva, come avrebbe detto lei, come se stesse recitando in qualche film americano pieno di cliché.

    Ma Nicola Billi, nella realtà, era solo un poliziotto troppo cresciuto e troppo ferito da tutto quello che aveva dovuto vedere e, non c’era davvero nulla di poetico o cinematografico in questo.

    Aveva visto genitori assassini dei propri figli, figli assassini dei propri genitori, e poi ancora, mariti assassini delle proprie mogli e mogli assassine dei propri mariti. C’erano stati anche pazzi di ogni genere che finivano per far fuori perfetti sconosciuti solo a causa di voci nella testa, o per precedenze stradali non rispettate o per chissà quale altra assurda motivazione, che andava solo ad alimentare l’ennesima tragedia.

    Ormai tutto andava a rotoli e neppure lui poteva farci più nulla.

    C’era davvero da chiederselo se ci fosse stato da qualche parte ancora qualcuno in grado di amare in quel mondo perso. In fondo era un romantico e gli capitava, con l’andare su con gli anni, di perdersi in pensieri di quel genere sempre più spesso.

    A intervalli regolari, uno dopo l’altro, mandò giù gli shot di tequila.

    Ogni tanto usciva nella gelida notte per fumarsi una sigaretta e una di quelle volte lo accolse la neve.

    Fiocchi spessi scendevano come cotone bagnato dal cielo ricoprendo le strade.

    «Merda, come diavolo farò a tornare a casa?» disse ad alta voce.

    Una nevicata di quella portata non riusciva nemmeno a ricordarsela.

    In una città di mare era raro vederlo succedere. Gettò il mozzicone e tornò dentro rimandando il problema a più tardi.

    La sera era diventata notte e l’ultimo bicchiere gli scese come fuoco liquido dalla gola fino allo stomaco.

    Mentre deglutiva teneva la testa all’indietro e gli occhi chiusi e, all’improvviso, sentì un urlo terrificante che gli trafisse il cervello.

    Aprì gli occhi di scatto guardandosi intorno, eppure tutto era rimasto immutato. La musica, i ragazzi ubriachi e le squillo ormai sedute con loro.

    Gina continuava a versare da bere e la gracile cameriera a portarlo ai tavoli.

    Lo stress pensò, ormai ho i nervi a pezzi si convinse.

    Eppure convenne che quel grido era stato così dannatamente reale e disumano.

    Guardò l’orologio sospirando, ancora scosso. Erano le tre.

    Si alzò dalla sedia.

    Si sentiva pesante e stanco.

    Le gambe avevano iniziato a essere deboli, e nonostante tutto prese il cappotto, se lo infilò e andò dritto al bancone.

    «Ce la farai a tornare a casa?»

    «Non ho bevuto così tanto» rispose lui alzando le sopracciglia sapendo di mentire.

    «No, intendevo per la neve. Fuori è un disastro. Ce le hai le catene?» chiese la donna.

    «No.»

    «Me lo immaginavo» sospirò lei, «se hai pazienza di aspettare la chiusura ti accompagno io con il fuori strada.»

    «Ok, ma allora versami da bere che la notte sarà lunga» concluse l’uomo, appoggiando sul bancone logoro e bagnato d’alcool un biglietto da cinquanta.

    Le ore trascorsero e il locale a poco a poco iniziò a svuotarsi quasi del tutto e arrivò l’orario di chiusura.

    Nicola non ricordava un granché di quello che era successo quella notte dopo l’ennesimo whisky.

    Gina era accanto a lui e russava come una vecchia locomotiva a vapore, eppure in quella luce fioca dei lampioni che entrava dalle imposte socchiuse, la trovava davvero bella.

    I suoi capelli corvini spettinati, le ciglia lunghe e quel taglio felino degli occhi.

    Le labbra morbide e la sua sagoma sinuosa sotto le lenzuola.

    Si ritrovò di nuovo eccitato, la testa gli doleva e sembrava pulsare fino a esplodere in certi momenti, eppure aveva ancora voglia di fare l’amore con lei.

    La accarezzò piano, passando il palmo della mano dolcemente sulla gamba e appena lei fu sveglia tornarono ad avvinghiarsi cercando di lasciare fuori dalla porta ogni dolore e ogni veleno del mondo esterno.

    Il mattino arrivò con il suono irritante e inopportuno della suoneria del cellulare.

    «P-pronto...» rispose ancora con gli occhi chiusi.

    «Ispettore sono l’agente Paggi, è successo di nuovo.»

    «Oh cazzo... Dove?» la testa sembrava avere all’interno tanti piccoli fottuti operai intenti a sfondargli il cranio con i loro piccoli fottuti martelli pneumatici.

    «Vicino al porto, stanotte.»

    «Arrivo» poi fece una pausa e subito realizzò «anzi no, vienimi a prendere che sono senza auto, ti do l’indirizzo.»

    «Sì signore.»

    «E... Paggi?»

    «Sì, ispettore?»

    «Portami un caffè per favore. Lungo, senza zucchero e bollente.»

    Uscì con gran fatica dal letto ancora nudo.

    I vestiti erano sparsi ovunque. Non trovò gli slip e alla fine decise di farne a meno.

    «Dove vai?» Chiese Gina ancora in parte addormentata.

    «Lavoro. Grazie per stanotte.»

    «Avevo proprio bisogno di scaricare la tensione. Dovremo rifarlo qualche volta» concluse lei tornando a dormire.

    «Sono d’accordo» rispose l’uomo allacciandosi l’ultimo bottone della camicia: «Dovremo rifarlo.»

    L’aria era fredda e gli serviva per riprendere conoscenza. Le strade erano già sgombre grazie al lavoro degli spazzaneve e degli spargisale.

    Ai bordi e sui marciapiedi c’era qualcosa come mezzo metro di neve.

    «Ma quanto cazzo ha nevicato stanotte?» disse ad alta voce.

    «Tanto, ma non ci vedi?» Gli rispose un ragazzino di poco più di dieci anni con lo zaino della scuola in spalla, mentre poco più in là il pulmino giallo lo aspettava per portarlo via.

    Piccolo stronzetto!, pensò.

    Poi si accese una sigaretta aspettando Paggi.

    Le macchine passavano lente sull’asfalto ancora scivoloso per il ghiaccio, ma il solito traffico e il solito tran tran quotidiano neanche la nevicata peggiore degli ultimi cento anni era riuscita a fermarlo.

    Finalmente l’auto di servizio arrivò.

    «Buongiorno ispettore.»

    «È un buongiorno? Non lo sapevo» rispose acido, «il mio caffè?»

    «Qui» disse il giovane indicando il portabicchiere vicino al freno a mano.

    «Bravo e adesso andiamo.» Alla prima sgasata le ruote girarono senza alcun grip.

    «Piano però, andiamo, ma piano, che tanto il morto è già morto» concluse rassicurandolo.

    Il giovane annuì rosso in viso per l’imbarazzo, ingranò la marcia e, giocando con cautela con frizione e acceleratore ripartì.

    Al porto, tra i container provenienti dalla Cina, probabilmente pieni di merce illegale e senza nessuna certificazione, la scientifica era già all’opera con le rilevazioni del caso.

    Tra i flash delle macchine fotografiche, le tute bianche, gli alambicchi e le diavolerie varie, appena arrivati sulla scena delimitata dai nastri della polizia, i due si dovettero fare largo tra i giornalisti e i curiosi ammassati.

    «Buongiorno ispettore» esordì l’incaricato alle rilevazioni dell’E.R.T. (Esperti nella ricerca delle tracce sulla scena del crimine).

    «Eccone un altro che crede lo sia» rispose l’uomo finendo di sorseggiare il suo caffè lungo dal bicchiere termico.

    La mattinata era gelida, la neve aveva ricoperto tutta la zona del porto.

    Le grandi gru sembravano tanti dinosauri che sullo sfondo fungevano da guardiani fatti di metallo e ruggine.

    «È quasi impossibile riuscire a rilevare qualcosa tra la neve e la contaminazione dei gatti randagi e dei gabbiani» si affrettò a spiegare il personaggio dalla tuta bianca e la mascherina abbassata sul mento.

    «Insomma come al solito non abbiamo niente.»

    Si accese una sigaretta e fece una lunga e lenta boccata di fumo, poi espirando lo rigettò nell’aria mescolato alla condensa.

    «L’ora della morte?» chiese l’ispettore.

    «Il Coroner deve ancora arrivare ma comunque è difficile a dirsi. Questa notte la temperatura era ben sotto gli zero gradi. È come se fosse rimasto in un frigorifero.»

    Rispose l’agente mortificato.

    «Ce la fai a darmi almeno una buona notizia o ce l’hai proprio con me stamattina?» chiese «Si sa qualcosa della vittima?»

    «Ancora non siamo riusciti a risalire alla sua identità. Non aveva documenti con sé. Ha tutta l’aria di essere stato un senza tetto.»

    L’ispettore sbuffò nel vento un’altra consistente boccata di fumo e disappunto.

    «Ci sono degli elementi nuovi in questo omicidio ispettore. Sono certo che neanche questo le piacerà» aggiunse il tecnico voltandosi in direzione del container proprio dietro di lui.

    Per un momento tutto sembrò bloccarsi come in un fermo immagine; i gabbiani si zittirono insieme alle sirene delle navi, mentre il vento gelido diventava ancora più gelido.

    «Non è possibile» bisbigliò l’ispettore portandosi una mano alla bocca in segno di stupore «è quello che credo io?»

    L’altro annuì abbassando gli occhi.

    Poi la sirena di una nave cargo tornò a ululare, come un mostro marino, facendolo trasalire.

    I gabbiani invece iniziarono a urlare, colti da una assurda frenesia alimentare, attratti dagli scarichi dell’imbarcazione che attraccava in una banchina poco lontano.

    L’ispettore fu attraversato da un brivido lungo la schiena.

    Sopra al corpo parzialmente ricoperto da un telo, con le viscere riverse sulla neve oramai cremisi, capeggiava una frase, probabilmente scritta con il sangue; quelle parole terribilmente familiari gli riportarono alla mente incubi che sperava oramai dimenticati.

    Quanto era passato da quella volta? si domandò. Forse una decina di anni, forse qualcosa di più.

    Quindici per l’esattezza.

    A quel tempo era solo un semplice agente e, ricordava ancora il volto del suo compagno Podestà, pace all’anima sua, quella sera di dicembre, quando in seguito alla chiamata di una vicina si erano precipitati in quell’appartamento.

    Gli occhi dell’amico si erano spalancati all’improvviso e i folti baffi avevano preso a tremare.

    Entrambi non erano riusciti a dire una parola davanti a quello scenario grottesco.

    Il corpo del dottor Mainardi, posto sulla sedia in mezzo alla stanza, aveva la gola recisa da parte a parte; le palpebre gli erano state cucite insieme per tenere gli occhi chiusi, mentre la bocca restava fissa in una eterna smorfia di dolore; la camicia aperta e il profondo taglio al basso addome avevano lasciato fuoriuscire le viscere, che in parte si erano riversate sulle gambe e sul pavimento.

    Dietro di lui, sulla parete, l’assassino aveva scritto con il sangue della vittima la stessa frase, che a distanza di anni era di nuovo davanti agli occhi dell’ispettore Billi, come un proclamo attraverso il tempo che non poteva e non voleva essere cancellato: FINALMENTE POSSO DORMIRE.

    «Ispettore, gli sono stati anche cuciti gli occhi per farli restare chiusi» l’agente della scientifica fece una pausa, osservando l’espressione dell’altro che sembrava profondamente angosciato, poi continuò: «Sa cosa significa vero?»

    Nicola Billi si voltò in direzione del mare, dando le spalle ai colleghi e alla raccapricciante scenografia che aveva tutta l’aria di una resa dei conti con il passato.

    Riusciva a capire finalmente, il perché della sensazione di familiarità che gli avevano fatto provare quegli omicidi fino a quel giorno.

    Nessuno in quella città aveva mai dimenticato, men che meno la polizia, ma nessuno in quella città aveva mai creduto che potesse succedere di nuovo. Men che meno la polizia.

    Eppure sembrava proprio che non ci fossero dubbi.

    Lui era tornato.

    Capitolo II

    Convivenza? No, grazie

    «Ma tu starai scherzando spero.»

    Così sbottò Luna durante la cena a casa, quando Francesca, seduta davanti a Marco le aveva semplicemente fatto quella che a lei era sembrata una legittima quanto innocua domanda. Pur conoscendo bene la risposta che avrebbe ricevuto.

    Marco l’aveva guardata sorpreso continuando a mangiare, e con un gesto della mano, tenendo ancora la forchetta, le aveva fatto cenno di lasciar perdere.

    «Non ho alcuna intenzione di andare a convivere» continuò Luna.

    «Io nemmeno, te lo assicuro» si affrettò ad aggiungere lui facendo un occhiolino d’intesa a Francesca.

    «Ok ok, non avevo intenzione di farti salire l’embolo. Mangiamo e passiamo oltre» concluse la ragazza per poi riprendere, «anche se non ci vedo niente di male nella convivenza, io se fossi innamorata lo farei.»

    L’altro trasalì e quasi si strozzò con il boccone che aveva in bocca.

    «Ti prego basta e non ne parliamo più» disse in tono perentorio Luna riempiendosi il bicchiere fino all’orlo di un ottimo Nero d’Avola.

    La cena continuò tra i discorsi più disparati, restando ben lontani da quel sentiero impervio che per l’amica risultava essere l’argomento di una possibile convivenza.

    Era una serata di fine gennaio dannatamente fredda e fuori il cielo minacciava neve.

    «Mamma mia e se iniziasse a nevicare?» domandò retoricamente Luna affacciata al finestrone della porta cucina.

    Tra le tendine gialle con delle stampe di girasoli i suoi grandi occhi azzurri scrutavano il cielo con fare inquieto.

    Solo toccando i vetri si riusciva a sentire il gelo che da fuori, con cattiveria e insistenza cercava di insinuarsi tra gli spiragli delle vecchie imposte di legno.

    «Se iniziasse a nevicare forte potreste restare tutte e due qua a dormire» disse Marco rivolto a Francesca.

    La ragazza lo guardò con sospetto.

    «Hai le termiche no?» chiese Luna all’amica.

    «Ma non li leggi i giornali? Fuori, di notte, non è sicuro con quel pazzo che ammazza la gente nei vicoli della città» disse lui incalzando.

    Luna non replicò, ormai si era persa di nuovo nei suoi pensieri, tornando a guardare fuori dalla finestra.

    Francesca cambiò discorso urlando: «Allora iniziamo la maratona nostalgia Ritorno al futuro? Giusto per ricordarci quanto Marco sia vecchio?»

    Concluse con un sorriso rivolto all’altro.

    «Non sei affatto divertente. Ho appena trentotto anni cara e sono nel pieno del mio vigore fisico» rispose lui mostrandole i muscoli.

    Dopo poco i tre si ritrovarono davanti alla tv a mangiare pop corn, mentre Marti McFly con la sua Delorean, saltellava e correva frenetico tra il passato e il futuro, con il suo solito fare pieno di energie.

    A metà del terzo episodio, senza essersi accorti dell’ora tarda, si ritrovarono Luna e Marco ancora svegli a guardare Francesca, ormai in compagnia di Morfeo, addormentata profondamente.

    Lui prese dalla tasca dei jeans la sigaretta elettronica e al primo tiro già accusò la mancanza delle sue amate e odiate bionde.

    Una bottiglia di vino e mezzo in tre e due shot di rum insieme ai film, gli avevano aumentato la voglia di fumare, ma fumare per davvero.

    Luna si alzò dal divano e tornò ancora alla finestra.

    Fuori le strade e il mondo erano diventate una distesa bianca mentre ancora la neve scendeva senza sosta.

    Percorse il salotto che la divideva dalla cucina del piccolo appartamento, raggiunse la penisola, si sedette e dalla tasca tirò fuori un pacchetto di sigarette.

    Con gesto abitudinario se ne portò una alla bocca e ridacchiando chiese: «Hai da accendere?»

    Lui fece una smorfia simile a quella di chi ha appena ricevuto un pugno al fianco.

    Le andò incontro e le rubò la sigaretta dalla bocca portandola alla sua: «Ok hai vinto» ammise.

    «Ma dai se devi stare sempre così in pena fuma e non rompere» poi gli si avvicinò schioccandogli un bacio all’angolo delle labbra.

    Dopo un altro paio di shot a testa e qualche sigaretta si alzarono e lasciando l’amica addormentata, se ne andarono in camera da letto a fare l’amore.

    Fuori la neve continuava a scendere sotto forma di grossi e candidi fiocchi, ovattando i rumori, imbiancando le strade e creando un’atmosfera surreale.

    Intorno alle tre di notte Marco si alzò per andare in bagno.

    Appena entrato nel salotto venne investito da un’aria fredda che lo raggelò facendolo rabbrividire.

    La finestra del salotto era stata dimenticata aperta per far passare l’odore di fumo.

    Proveniente dalla zona del sofà si accorse di uno strano borbottio indistinguibile, parole sommesse, un chiacchiericcio impossibile da decifrare.

    Arrivò fino alla cucina e accese la luce dell’aspiratore sopra i fornelli voltandosi poi nella direzione del salotto.

    Ciò che vide lo fece trasalire a tal punto che il cuore prese a battergli nel petto all’impazzata.

    Francesca se ne stava seduta sul divano in slip e maglietta a testa bassa. I suoi lunghi capelli castani scendendo le ricoprivano completamente il volto.

    Nella penombra della stanza era lei che continuava con quella che sembrava essere diventata un’incomprensibile cantilena spettrale.

    Iniziò a chiedersi che diavolo stesse succedendo.

    «Francy» chiamò con voce incerta «Francy?» continuò.

    Nessuna risposta.

    La ragazza, in un moto altalenante, continuava a oscillare avanti e indietro come in preda all’autismo più assoluto, mentre quella che sembrava prendere ogni momento di più i connotati di una strana preghiera non accennava a smettere.

    Nonostante fosse un uomo adulto, grande e grosso, la paura lo ancorava al pavimento. Voleva cercare di tornare da Luna, aveva anche pensato di chiamarla urlando, ma era completamente impietrito.

    Tentò ancora: «Francy!» ora con tono più deciso nonostante la paura.

    La ragazza fermò la cantilena.

    Lentamente alzò la testa lasciando intravedere nella penombra degli occhi brillanti, incavati in tremende occhiaie nere, ma ciò che lasciò il ragazzo completamente atterrito fu il ghigno terribile, simile a una ferita sul viso della giovane amica.

    «Ma che cazz...» non fece in tempo a finire la frase che un urlo agghiacciante trafisse l’aria.

    Il tempo sembrò fermarsi.

    Potevano essere passati attimi o ore, ma non riusciva a rendersene conto e, mentre il freddo nella stanza addensava il respiro che gli usciva dalla bocca rimasta spalancata, qualcosa lo riportò alla realtà.

    «Marco? Che stai facendo? Sono le tre» chiese Luna sbadigliando in slip e reggiseno uscendo dalla camera da letto.

    «È un freddo da pazzi qui dentro. Chiudi quella maledetta finestra.»

    Lui la guardò e con stupore le chiese: «Ma non vedi?» indicando Francesca sul divano.

    «Sì... e allora?»

    Lui si voltò di nuovo ma

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