Observe: Ti osservo
Di Katharós.A
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Anteprima del libro
Observe - Katharós.A
Capitolo 1
Apro gli occhi, sento un gran freddo.
L’unica cosa che riesco a vedere è il cielo con poche stelle a causa delle nubi.
Il pavimento è duro e bagnato.
Le mie palpebre sono pesanti, intorno a me gira tutto, ho tanto sonno e un forte mal di testa.
Chiudo gli occhi per un istante e all’improvviso tutto è buio.
Capitolo 2
Vorrei aprire gli occhi, ma non ho la forza. Sento calore sul mio corpo, la luce m’infastidisce.
Non mi lascio abbattere dalla stanchezza, apro gli occhi, immediatamente è tutto più chiaro.
Accanto a me c’è una donna dall’aria innocente, indossa una lunga veste scura. Si avvicina, mi tocca la fronte e dolcemente mi sussurra: «Finalmente! Ti sei svegliato».
Sono stanco, molto stanco, come se sopra la mia testa avessi un masso di grandi dimensioni.
La donna dal viso angelico mi accarezza ancora una volta il capo e continua a sussurrarmi:
«Sei molto debole… Cerca di riposare».
Socchiudo gli occhi e pian piano cado in un profondissimo sonno.
Sono sveglio già da un po’. Mi soffermo a osservare l’ampia stanza di colore chiaro, disteso su uno strano marchingegno dalle dimensioni poco più grande dalla mia statura.
Un tizio in camice bianco mi chiede: «Come si sente... Signore?».
Non so cosa rispondere, quindi chiedo a voce bassa: «Dove sono?».
«Lei è sotto l’effetto dell’anestesia, ha subìto un forte trauma celebrale dovuto al tragico impatto con l’asfalto, ricorda?».
Lo guardo incredulo, la stanchezza si fa risentire e senza dire una parola chiudo gli occhi e mi riaddormento.
Un bislacco oggetto colpisce i miei occhi, emette una luce pazzesca, per poco non mi acceca.
«Guarda a destra» dice il dottore muovendo l’arnese.
«Guarda a sinistra» continua.
«Tiri fuori la lingua» mi chiede scartando una paletta di legno monouso.
Eseguo l’ordine intimorito e subito dopo mi conficca l’arnese in gola.
«Ha paura?» dice sorridendo. «Alla sua età non dovrebbe, lei è un tipo molto strano sa?» e aggiunge: «Ho cercato in tutti i modi di mettermi in contatto con i suoi familiari, ma non abbiamo trovato nessun recapito telefonico che corrispondesse a questo cognome… eccetto uno» mi accenna.
«Ovvero?» rispondo perplesso.
«Ecco, questo è il numero» mi dice porgendomi un foglio di carta dove è segnato il recapito telefonico.
«Non ha mai risposto nessuno, magari ci vuole riprovare lei?» mi guarda dispiaciuto.
«Senz’altro, la ringrazio» rispondo.
«Riguardo alle sue condizioni di salute penso che possa cavarsela benissimo da solo, non presenta nessun tipo di disturbo.
Dalle sue analisi tutto è nella norma, nessuna alterazione fisica, cognitiva o di motoria. Lei è sano come un pesce, la sua guarigione è stata rapidissima, una sorta di miracolo» dice sorridendo incredulo. Lo guardo e ridacchio con lui.
«Per la sua memoria si faccia seguire da uno psicoterapeuta. Il talamo stranamente non ha avuto nessun tipo di trauma, né tanto meno il lobo parietale inferiore o temporale postero-superiore sono stati lesionati, ma per quanto riguarda i suoi ricordi saranno stati danneggiati a causa dello shock. Con alcune sedute d’ipnosi dovrebbe riuscire a ricordare tutto in modo graduale e con tanta pazienza. Deve pazientare ancora qualche settimana per ulteriori controlli o complicazioni che potrebbero insorgere».
Capitolo 3
L’infermiera dal viso angelico mi porta della biancheria pulita, dei vestiti nuovi e tutto l’occorrente per lavarmi.
«Nel comodino affianco al suo letto ho poggiato una saponetta e dello shampoo per i capelli» mi fa cenno con la mano di seguirla. «Questo è il bagno» sorride con l’aria imbarazzata. «In fondo, dietro la tenda c’è la doccia» arrossisce e va subito via.
Ritorno in stanza e prendo i vestiti, mi soffermo a osservare gli oggetti sul comodino. Afferro la saponetta e noto che rilascia un buon odore, il mio stomaco brontola. Ho tanta fame.
Le do un piccolo morso e cerco di masticarla, uno strano gusto e disgusto invade il mio palato, la sputo velocemente per terra.
Mi dirigo in bagno, mi svesto e cerco la vasca a vapore.
Nessuna vasca a vapore. L’unico sanitario che conosco è l’orinatoio. L’osservo per un attimo e noto che è abbastanza antiquato, sembra il vecchio vaso che usavano i miei antenati, non mi trattengo dall’aspetto e faccio subito pipì.
Continuo a cercare la vasca a vapore, ma nessuna traccia Dove sta la vasca a vapore?
«Diamine!» infastidito continuo a cercare. Ricordandomi della doccia mi avvicino a essa, sollevo la tenda e noto un inverosimile tubo che sporge con strani fori sulla punta, in basso una levetta con dei piccoli simboli uno blu e l’altro rosso.
Entro nella strana capsula, spingo la levetta e all’improvviso l’acqua gelata bagna tutto il mio corpo.
«Che diamine!» terrorizzato butto un urlo. Cerco in tutti i modi di chiudere l’acqua, sposto la levetta nella zona inversa.
«Ahi!» quasi mi ustiono. Esco dalla doccia.
Per un soffio non scivolo sul pavimento, il mio cuore è impazzito, i battiti accelerano a dismisura, faccio un respiro profondo e riprendo il controllo di me stesso.
La stanza è ampia e luminosa, le pareti di un color bianco tenue.
La luce del giorno penetra dalla piccola finestra dove, affacciandosi, s’intravedono strutture di edifici e di case in mezzo al verde all’orizzonte.
Un altro letto affianco al mio, lo stesso medesimo comodino accanto al letto e un armadio all’estremità della camera vicino alla porta.
Ogni giorno puntualmente il dottor Adolf viene a visitarci e a controllare il nostro stato di salute. Cortesemente si ferma per fare quattro chiacchiere con i suoi pazienti e come da rituale l’infermiera porta la biancheria pulita in camera.
La notte non riesco a dormire, qualche paziente si lamenta di tanto in tanto per il dolore, qualcuno si alza e passeggia per il lungo corridoio a causa dell’insonnia.
Ogni giorno è sempre lo stesso non cambia mai nulla, tutto monotono a parte le visite specialistiche per qualche accertamento.
Osservandomi allo specchio il mio viso è sempre lo stesso e poco sciupato, capelli castani a doppio taglio corto, viso simmetrico e occhi verdi, con un piccolo particolare… la barba è cresciuta parecchio.
Decido di tornare sul letto per distendermi un attimo.
Mi mancano i sensori massaggiatori, mi manca la sua soffice spugna e i messaggi subliminali di rilassamento, mi manca l’opzione dondolo, amo essere cullato, ovvero amavo essere cullato prima di addormentarmi.
Mi giro sulla schiena e fisso il soffitto. Una serie di ricordi mi vengono in mente e una serie di domande mi frullano in testa.
L’infermiera mi chiama sul ciglio della porta: «È pronto signore?» «Arrivo» rispondo e le faccio mezzo sorriso. Seguo l’infermiera che mi guida verso l’ufficio del dottor Adolf. «Avanti!». La stavo aspettando signor Albacher.
Prego, si sieda» dice l’uomo indicandomi la sedia. «Questi sono i suoi effetti personali che abbiamo trovato nelle tasche della giacca che indossava al momento dell’incidente» aggiunge tirando fuori dal cassetto uno smartphone, un portafoglio e un documento.
Lo guardo perplesso, ma faccio finta di nulla, non vorrei percepisse qualcosa. Afferro gli oggetti e mi soffermo sul documento James Albacher nato il 23/07/1988 a Londra
.
Il mio compagno di stanza, il signor Bordon, è un uomo calmo e tranquillo, la notte dorme come un bambino e prende le proprie medicine senza fiatare.
Guarda fuori dalla piccola finestra aspettando una visita che non arriverà mai. Osserva il suo telefonino sperando invano nell’arrivo di una chiamata.
Il suo sguardo perso nel vuoto ogni qualvolta le sue attese sono deluse, spiazzate via dall’illusione che un giorno il figlio lo venisse a trovare.
La sua fronte è piena di rughe, i suoi capelli bianchi, le borse sotto gli occhi tristi e malinconici riflettono un tempo passato che non ritornerà. Un passato di un tempo felice, dove bisogna farsi forza per andare avanti, accettare che sia ormai passato, accettare che siano soli ricordi.
Un vecchio con la consapevolezza di chi ormai ha vissuto una buona parte della sua vita, una vita vissuta al massimo delle sue potenzialità, nel bene e nel male.
Il suo sguardo riflette le pagine di una vita, una vita umana, una vita piena di gioia, piena di dolore, piena di sorrisi e di pianti, piena di ricordi impressi nella mente che solo la demenza senile potrà cancellare via.
Una sera lo vidi piangere dal foro della porta del bagno. Il suo viso rigato dalle lacrime per il dolore e la frustrazione causate dell’abbandono del figlio che lo rende costantemente avvilito e malinconico.
Un giorno mi disse che benediceva la malattia che aveva colpito sua moglie.
La sensazione di non ricordare nulla, divenire come una tabula rasa, ricordi offuscati e poco definiti, ricordi dolorosi che svaniscono. Il dolore di non ricordare le gioie della vita viste come un sollievo. Di non ricordare l’amore della sua vita, lo sposo che l’ha portata all’altare con il quale ha avuto un bellissimo figlio, lo stesso figlio che per paradosso si è dimenticato di lei.
«Invidio mia moglie, a lei è toccata una sorte più facile. Nello stesso tempo ringrazio Dio che sia stato così. Il dolore di vedere il mio più grande amore soffrire per il figlio indegno mi struggeva. Un dolore che non ti lacera le carni, bensì l’animo. Un dolore che non auguro a nessuno, giacché i figli sono un pezzo di te; anche se ti fanno del male