Il portone rosso
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Ludovica ha trascorso buona parte della sua vita a inseguire modelli ideali e sfidare le sue paure, ritrovandosi spesso, senza sapere il perché, in situazioni estreme o ambigue. Intuito, lucidità, una non comune capacità di analisi e una certa dose di fortuna l’hanno sempre salvata da strade senza ritorno.
Oggi è un attraente avvocato di successo, le piace apparire, si sente vicina alla realizzazione e la sensazione di vuoto che avverte da sempre le sembra sotto controllo.
Ma non è così.
Quando i violenti terremoti del 2016 devastano l’entroterra marchigiano, anche la vita di Ludovica viene scossa nel profondo. Proprio in quei giorni entra nella sua vita S., un uomo di poco più grande di lei, e tra i due nasce un’affinità intensa. Da subito, però, qualcosa non quadra. S. è bugiardo, gioca su più tavoli, ha accessi di collera, mostra strane perversioni, dà segnali sempre più evidenti di delirio, tenta di controllarla. Ludovica se ne accorge, ma non riesce ad allontanarlo.
Mentre lei si interroga su cosa le stia accadendo, gli eventi precipitano. La notte oscura dell’anima ha inizio: incubi e personaggi inquietanti si susseguono; l’esito di un test per malattie veneree potrebbe distruggerla, la Paura prende la forma di un’entità senziente che uccide, come in una vecchia leggenda di paese. Sconcertanti verità sulle perversioni sessuali di Italo, il suo ex socio di studio, si rivelano a Ludovica durante la conversazione con il barista di un privee.
Tutto diventa incomprensibile, niente ha senso, e a un tratto Ludovica si trova a guardare oltre il Portone Rosso. Così, comprende fino a che punto un omicidio infame abbia lasciato il segno, anche se sono passati 70 anni; che il suo nome avrebbe dovuto essere Olivia; che un amore può davvero durare per sempre, come una maledizione.
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Anteprima del libro
Il portone rosso - Alessandra Piccinini
aspetta
Capitolo I
Codice Rosso
"I was wandering in the rain
Mask of life, feelin’ insane
Swift and sudden fall from grace
Sunny days seem far away
Kremlin’s shadow belittlin’ me
Stalin’s tomb won’t let me be
On and on and on it came
Wish the rain would just let me"
"Vagavo nella pioggia
Maschera di vita, sensazione di follia
Rapida e improvvisa caduta dalla grazia
Le belle giornate sembrano lontane
L’ombra del Cremlino mi sminuisce
La tomba di Stalin non mi dà pace
Ancora, ancora e ancora
Vorrei che la pioggia mi lasciasse in pace"
Michael Jackson, Stranger In Moscow
«Verde.»
«Verde.»
Il paramedico si gira di scatto, si avvicina e mi guarda con attenzione. Cerca di comunicare con me. Poco dopo, ad alta voce: «Rosso! Rosso!»
Sento voci confuse.
«Accendi… passa… Gianicolo.»
«Gianicolo.»
L’eco dell’ultima parola che sono riuscita a distinguere mi rimbalza ancora in testa. Ora non sento altro che un dolore forte alla tempia destra, mentre l’eco della parola Gianicolo va e viene.
Non ho idea di come il mio corpo sia disposto nello spazio. Cerco di capire dove mi trovo, ma un altro insopportabile malessere mi assale. Mi sembra di scivolare all’indietro, come se l’ambulanza stesse percorrendo un’ardua salita.
Mi gira la testa. Provo ad aprire gli occhi. Credo di essere distesa ma non riesco a sollevare la testa. Lo sforzo che faccio per rialzarla, però, inverte la direzione della mia vertigine ed ecco che mi sembra di cadere in avanti, come se l’ambulanza stesse percorrendo una ripida discesa. Mi irrigidisco per non scivolare, o almeno così mi sembra.
Il dolore a destra ha preso l’occhio, la fronte, il braccio. Non riesco a tenere gli occhi aperti, mi sembra di non respirare.
Cerco il paramedico con lo sguardo, ma mi rendo conto che le palpebre sono troppo pesanti per perlustrare l’interno dell’ambulanza. Riesco a malapena a tenere gli occhi fissi davanti a me. Poi, il buio.
Mi sveglio e vedo una tenda grigia, una specie di scatola, un neon bianco. Qualcuno mi parla, c’è una mano sulla mia fronte, ma non sento altro, solo freddo.
Mi rendo conto che posso parlare, riesco a dire è freddo
, e mi accorgo che sto battendo i denti.
Arriva su di me qualcosa che mi sembra una coperta. Non basta, ho bisogno di altro, mi viene da vomitare, ma non riesco a dire altro. Di nuovo buio; stavolta però riesco a capire qualche parola. Stanno parlando di me, dicono che non rispondo, che ho freddo, pronunciano il mio nome, domandano istruzioni.
Mi sveglio in una stanza diversa, dal tipo di luce che c’è nella stanza capisco che è giorno. Vedo altri letti, accanto ci sono delle persone in piedi. Mi rendo conto di avere gli occhi aperti e di riuscire a girare la testa. Osservo la stanza. Le persone in piedi si sono accorte che sono sveglia, mi guardano. Vengo sopraffatta da un senso di vergogna.
Mi sento smarrita, mi fanno domande e io non voglio parlare. Vorrei solo andare via.
Quella sera Alessandro, il mio coinquilino che lavorava come aiuto regista, era uscito alle 22:00 per andare a girare una notturna a Sabaudia.
Ero sola in casa. Continuavo ad accendere e spegnere le luci del corridoio e della camera, poi decisi di provare a dormire, senza riuscirci.
A poco a poco mi tolsi tutti gli indumenti per porre rimedio a un forte senso di oppressione al petto, ma non passava, era come se indossassi qualcosa di così stretto da fare male.
Mi resi conto che era troppo tardi; avrei dovuto fermare in tempo questa mania di ripercorrere gli eventi, analizzare ossessivamente i dettagli, cercare spiegazioni. Ormai l’ansia mi aveva sopraffatta e, sebbene fossi sfinita, dormire mi era impossibile. Sentivo il rumore del cuore che pulsava con un ritmo irregolare: all’improvviso accelerava, poi si fermava, poi ripartiva da un altro punto, come se fosse fuori dalla sua sede naturale. Pulsazioni regolari, poi di nuovo battiti anomali, sempre più frequenti.
Calmati, mi dicevo, ce la farai, qualcuno ti aiuterà.
Dimentica oggi, dimentica questi ultimi due anni, dimentica tutto, abbi fiducia, non ci pensare, prova a riposare, non arrovellarti. Fermati.
Pochi minuti e di nuovo il rumore delle pulsazioni, più forte di prima. La voce che tentava di calmarmi si faceva in realtà sempre più agitata. Le pulsazioni, sempre più forti, si facevano sentire di nuovo nel collo e nei polsi. Non riuscivo più a deglutire.
No, stavolta non torna a posto da sola, questa cosa.
A quel punto accesi la luce, entrai nel bagno e mi guardai allo specchio. Osservai per un attimo la vasca in cui avevo fatto il bagno qualche ora prima ed ebbi paura.
Mi devo sbrigare, in cucina c’è il numero della guardia medica.
Temevo di non riuscire a parlare. Nel descrivere come mi sentivo mi agitai ancora di più. Il medico, dall’altro capo del telefono, consigliò di andare in ospedale e mi chiese di fornire il numero di telefono e l’indirizzo. Mi assaliva sempre più forte il timore di non farcela. Sforzandomi di rimanere lucida, mi vestii, scesi le scale, aprii il portone di ingresso, mi sedetti su un gradino e iniziai ad aspettare.
Arrivata lì, però, la sequenza di queste azioni sembrò aver annullato tutti i sintomi; al loro posto sopraggiunse un sonno che sembrò naturale. Anzi, iniziai a vergognarmi, sentendomi esagerata per avere chiamato la guardia medica.
Avevo esaurito le forze, desideravo soltanto tornare in casa e rimettermi a dormire, però non potevo perché stavo aspettando l’arrivo dell’ambulanza. Restai seduta sulle scale, pensando che mi sarei scusata con medici e paramedici per il falso allarme e sarei tornata a dormire. Mi sforzai di tenere gli occhi aperti, ma la stanchezza e il sonno presero il sopravvento.
Venni svegliata dal paramedico, che mi chiese il mio nome e le altre generalità. Seppur sveglia, non riuscivo a rispondergli, mi limitai a fissarlo, immobile. Capii solo alcune parole.
«Verde.»
«Verde.»
Cercai di alzarmi per seguirlo, ma sentii le ginocchia che si piegavano. Feci resistenza, sorretta dal paramedico riuscii ad arrivare al portone, poi persi di nuovo il controllo delle gambe. Mi appoggiai e la testa scivolò lungo il portone, fino al muro.
Il paramedico mi sostenne per un braccio, impedendomi di cadere a terra. Sentii che mi sollevava, anche se non avvertivo più le gambe, né le braccia.
«Rosso, rosso! Codice rosso!»
Poco dopo mi resi conto che il mezzo era partito e capii di avere sul polso e forse sul petto quei quadratini di gomma fredda che si usano per fare l’elettrocardiogramma.
«Chiama per radio il San Camillo. Una extrasistole dietro l’altra, sospetto arresto cardiocircolatorio. Passa dal Gianicolo.»
Capitolo II
G.
"Supposed former infatuation junkie
I sink three pointers and you wax poetically
I love you when you dance
when you freestyle in trance
So pure such an expression"
"Sospetta ex-drogata di infatuazioni,
io perdo di tre punti e tu segni poeticamente,
ti amo quando balli
quando improvvisi in trance,
con un’espressione così pura"
Alanis Morissette, So Pure
Questa sensazione di essere esattamente al mio posto e la luce diversa che illuminava quelle giornate romane mi fecero comprendere all’istante che amavo quel ragazzo. Parlava senza interruzioni e pensava con profondità; i suoi occhi erano azzurri e di forma allungata, la pelle chiara, tendente all’avorio, e aveva efelidi chiarissime che si vedevano appena. Bisognava osservarlo con attenzione per notarle, appena sopra la barba nera che spesso faceva crescere troppo, come se volesse nascondere i suoi tratti delicati, che lo facevano apparire molto più giovane. I capelli, come la barba, nerissimi e ricci, sembravano quelli di un uomo di colore. Aveva un fisico molto esile e mani nodose, che muoveva appena quando parlava, e l’aria indefinibile di chi nasconde qualcosa. Se, infatti, sulla carta G. era il tipico esemplare di primo della classe che frequenta cerchie di altissimo livello - già professore a trentotto anni, eccellente avvocato, intuito creativo fatto persona – e se pure i più grandi studi di Roma si rivolgevano a lui per le questioni più difficili, aveva un non so che di anarchico, tipico del genio incompreso che mal sopporta gli ambienti formali. A volte mostrava in modo esplicito questa indole da studente indisciplinato, altre manifestava una spinta solidaristica che spiazzava, visto che lui non aveva bisogno di nulla e nessuno mai avrebbe potuto eguagliare la sua competenza.
Modificando il punto di osservazione, in lui si potevano cogliere le mille sfumature di una intelligenza fuori dal comune, sempre propositiva.
E questo mi lasciava senza parole.
Il suo carattere ingestibile gli aveva creato grossi problemi: era stato cacciato da tre studi – compreso il mio – perché non rispettava orari e regole, né scendeva a patti.
In qualità di indiscusso fuoriclasse, G. avrebbe ben potuto pretendere di fare come gli pareva, eppure, quando gli si domandava come mai le precedenti collaborazioni si fossero concluse, non mostrava alcun sintomo di rancore nei confronti dei suoi superiori idioti, sfruttatori e poco lungimiranti. Si limitava a dire non ci andavo d’accordo
, come chi in cuor suo sa di avere ragione, ma non gli interessa che gli sia riconosciuta.
Lui stesso, d’altra parte, cambiava di continuo il punto di osservazione, analizzava, sintetizzava e riassumeva con ironia tagliente; era instancabile e vivace, stava al suo posto ma allo stesso tempo era avanti, ascoltava assorto senza mai distrarsi per poi far capire che non glie ne fregava niente, perché sapeva già ogni cosa, e già pensava ad altro.
Anche l’alternarsi della sua presenza e della sua assenza era un mistero insondabile: un attimo prima c’era, un attimo dopo era sparito, poi era di nuovo lì, senza che avesse mai perso il filo.
Non potevo fare a meno di domandarmi che vita avesse mai avuto per raggiungere quello stato, quante prove avesse dovuto superare e come facesse a rimanere sempre buono.
Perché sì, era buono d’animo, sincero, leale e profondamente rispettoso, anche quando esprimeva commenti volgari all’indirizzo di ragazze carine. Quando parlava con persone meno intelligenti di lui, mai faceva pesare la sua superiorità. Le volte che eravamo insieme ad altre persone, a me riservava sempre un sorriso nascosto, accennato con gli occhi. Era buono d’animo anche quando provava a fare il prepotente, l’unica cosa che proprio non gli riuscisse.
Il suo fascino era al massimo quando rimaneva in silenzio, immobile, assorto. A volte sbucava fuori all’improvviso, con la sciarpa annodata intorno al collo e una scia di profumo, quasi impercettibile ma sufficiente a far scattare in me l’istinto, che trattenevo a forza, di seguirlo ovunque andasse.
Avevo conosciuto G. qualche anno prima, in occasione di un colloquio di lavoro.
Il mio socio e io lo avevamo fatto aspettare più di un’ora a causa di una sopravvenuta urgenza.
Come al solito, era toccato a me accoglierlo e scusarmi per l’attesa, visto che il mio socio non ne aveva alcuna intenzione e, se mai l’avesse avuta, avrebbe senz’altro delegato a me il compito di scusarmi anche a suo nome.
Appena lo vidi mi colse un’indefinibile curiosità, ma nulla lasciava presagire ciò che sarebbe accaduto qualche anno più tardi. Mi scusai con educazione, raccontandogli anche più del necessario circa il contrattempo al quale avevamo dovuto fare fronte.
Capii all’istante che persona intelligente avessi davanti e, altrettanto immediatamente, mi resi conto che al mio socio non sarebbe mai piaciuto. Troppo bravo, troppo veloce nel parlare, troppo sicuro di sé.
Fui io a condurre il colloquio, rendendomi a stento conto che stavo proteggendo il mio eroe dalle domandine meschine di Matteo, il braccio armato del mio socio, che se ne stava lì, un po’ defilato e in silenzio, a studiarlo. Alla fine, come avevo previsto, fu etichettato come saccente e tronfio, incapace di ascoltare e bravo solo a parlare di sé.
La mia difesa a spada tratta fu una sorpresa per tutti, specie per il mio socio, che, meravigliato, mi chiese se non temessi che potesse mettersi in competizione con me.
In realtà l’idea di competere con G. non mi sfiorava nemmeno. Anzitutto perché, a dispetto delle apparenze, non mi aveva colto l’idea di competere. In secondo luogo perché G. non era affatto ambizioso. Di primo acchito la sua superiorità poteva sembrare una forma di ostentazione che aveva a che fare con l’arrivismo, ma a me era stato subito chiaro che lui vinceva sempre per valore e non per calcolo: l’unica competizione che davvero gli importava era la sfida con se stesso. Solo una persona stupida avrebbe potuto temerlo, non io. Io gli avrei dato carta bianca, sempre e comunque.
Ogni singola analisi fatta da G. rispecchiava il mio pensiero, che non avrei saputo comunicare in nessun altro modo. Formulavo le domande da porgli in modo che potesse rispondere al meglio. L’unica cosa che facevo, e devo dire che mi riusciva davvero bene, era suggerirgli un campo d’indagine. Da quel punto di partenza, che io mettevo a fuoco, G. si entusiasmava e coinvolgeva tutti con le sue risposte. Mi ringraziava per questo. In effetti ero l’unica a cui dicesse grazie.
A distanza di anni, quando avevo già da tempo lasciato lo studio di Roma, lo ritrovai a un corso di specializzazione obbligatorio. Mi raccontò che in mia assenza non si era più trovato bene con i miei soci e così, dopo tre esperienze fallimentari in studi legali, aveva pensato di concentrarsi sulla carriera accademica. Aveva quindi dismesso progressivamente i vari impegni professionali e, vista anche l’imminente scadenza della sua docenza a contratto a Roma, per un lungo periodo si era concentrato sul concorso per la cattedra di professore ordinario a Trento.
Il concorso, però, non era andato bene e così, scaduto anche il contratto a Roma, non aveva potuto far altro che tornare alla professione di avvocato. La sua delusione si intuiva: i toni del racconto erano pacati, ma lo sguardo basso lasciava intendere altro. Quella fu l’unica volta nella quale lo sentii parlare di vacanze, squadre di calcio, testi di canzoni e donne. A quest’ultimo proposito, ogni volta che toccava l’argomento, guardava me.
Già il primo giorno mi aveva fissata a lungo; subito dopo mi aveva inviato un messaggio nella chat di Messenger. Voleva uscire con me.
Accettai con entusiasmo e poco dopo mi inondò di messaggi con i quali mi indicava nel dettaglio come avrei dovuto vestirmi. Le sue prescrizioni