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Tutta colpa mia
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E-book409 pagine4 ore

Tutta colpa mia

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Info su questo ebook

La droga più potente di tutte è l’amore

Quando si sveglia sul sedile posteriore di un’auto di lusso, Lexi non capisce cosa le sia successo. Mentre tenta di articolare qualche parola, riconosce la voce di suo fratello Nik. Le sta dicendo che va tutto bene, che presto starà meglio. Ed ecco che i primi ricordi della notte precedente cominciano ad affiorare. Il suo vestito da diecimila sterline, le luci, la festa, lo sballo… La sensazione di milioni di glitter iniettati nelle vene. E poi il buio. Quando la macchina si ferma, non ha bisogno di guardare fuori per capire dove l’ha portata Nik. Lexi pensava di aver toccato il fondo con la droga, ma si sbagliava. Il fondo è il Centro Clarity, una lussuosa clinica di riabilitazione. La terapia è durissima, medici e infermieri sono premurosi ma inflessibili: l’unica speranza di uscire dal tunnel è stringere amicizia con gli altri pazienti. E forse anche qualcosa di più… Perché non c’è danno che non si possa riparare e la droga più potente di tutte è l’amore.

Il romanzo più potente dell’anno scritto magistralmente da una delle migliori autrici inglesi

Presto una serie tv

«Si fa leggere compulsivamente, è ironico ed è pieno di verità scomode.»
The Guardian

«Un libro audace e grintoso, incredibilmente brillante e piacevole da leggere.»
Observer

«Tra Gossip Girl e Ragazze interrotte, un romanzo brillante, provocatorio e incredibilmente accattivante grazie a una scrittura affi lata come un rasoio. Uno di quei pochi young adult che ha il coraggio di parlare di dipendenza.»
Bookseller

«Scritto con brio, ironia e una grandissima sensibilità. Leggerlo è un piacere.»
Stylist
Juno Dawson
precedentemente conosciuta come James Dawson, è cresciuta nel West Yorkshire scrivendo delle storie immaginarie sul personaggio di Doctor Who. Si è dedicata al giornalismo, con rubriche settimanali in diverse riviste inglesi. Ha pubblicato dieci romanzi young adult, ottenendo un grandissimo successo di pubblico e critica. Tutta colpa mia è stato tradotto in 8 Paesi e sarà presto una serie TV.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788822724991
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    Anteprima del libro

    Tutta colpa mia - Juno Dawson

    Primo step:

    RICONOSCO DI AVERE UN PROBLEMA

    Sedile di pelle sul viso. Odore di automobile nuova. Deodorante al pino.

    Non riesco a muovermi.

    Sono stata rapita.

    E non riesco a muovermi.

    Braccia e gambe sembrano disossate, molli come anguille di gelatina. Vomito o saliva incrostati sul mento e sulla guancia. Con grande sforzo, stacco il viso dal sedile.

    Ho le labbra e la lingua asciutte come gesso. Apro gli occhi e la luce accecante del giorno li brucia direttamente nelle orbite. Fa male. Li stringo più possibile, ma prima riesco a intravedere Nikolai. Da questa angolazione, scorgo solo la sua nuca, la sfumatura alta dei capelli e le mani sul volante. Riconosco il Rolex.

    Non capisco...

    Dove sono?

    Dov’ero?

    Riavvolgo il nastro della serata. L’ultima cosa che ricordo è che ero in albergo. Sì, esatto. Eravamo in una stanza all’ultimo piano. Avevo preso la chiave dalla reception. Io, Kurt, Baggy e quella ragazza. La festa per la Fashion Week…. Il bar… abbiamo lasciato il bar per andarci a sballare.

    Sì. Chaise-longue blu. Ago.

    Merda.

    È così un’overdose?

    Da quando è iniziato l’effetto non ricordo più niente. Mi passo una mano tremante lungo il corpo: ho ancora il vestito Miu Miu grigio canna di fucile che indossavo ieri sera. Sono sotto un plaid ruvido. Scalza.

    «Nik?», gracchio. Mi sembra di avere del filo spinato in gola.

    «È tutto okay, Lexi. Ti ho trovato aiuto».

    E adesso?

    Porca puttana, è un ricovero.

    Faccio per ribattere, ma gli occhi prendono fuoco di nuovo. Li strizzo forte e mi lascio avvolgere dall’oscurità come un sushi dall’alga.

    Non posso dormire ora.

    Mi devo svegliare.

    Mi trascino fuori dal pantano che ho nel cervello e torno in auto. Sto precipitando nel vuoto, di schiena e curva. Ho freddo e la pelle screpolata. Di solito dormendo mi passa, oppure mi faccio di qualcos’altro per smussare gli angoli. Basta anche una pasticca. Ossicodone, Vicodin, tramadolo o diazepam. Qualunque cosa sia a portata di mano.

    Voce maschile. Non è Nikolai. «La ragazza sta bene?»

    «Ha preso un sonnifero», risponde Nik. «Sarà fuori gioco per un po’».

    Dove siamo? Provo a girarmi ma non ci riesco. Sento odore di mare: abissi salati, aria salmastra e alghe. Gridi di gabbiani come demoni malvagi. State zitti, coglioni con le ali. Mi scoppia la testa. Sono disidratata. Mummificata.

    Dove mi sta portando? Sulla spiaggia? Da quanto tempo siamo in viaggio? Come mai c’è tutta questa luce? Da quanto sono svenuta? Dov’è Kurt? Le domande gridano più forte dei gabbiani. Forse quest’uomo può salvarmi. Gli dirò che mi hanno rapito. Stuprato.

    «Aiuto…», mormoro. Con le labbra screpolate e la lingua ovattata non riesco a emettere altro che un mugugno. «Aiuto…», ritento.

    «È mia sorella». Nikolai alza la voce e mi parla sopra. «È ubriaca. Le servono i passaporti? Certo, eccoli».

    La BMW riparte, sussultando su un dosso. «Nik…. Nik… dove stiamo andando?».

    Lui si volta giusto il tempo di lanciarmi un’occhiata. «Starai bene. Ora cerca di riposare».

    Ricordo di essermi stesa sulla chaise-longue. Ricordo Kurt che mi infilava l’ago nel braccio… non l’ho mai fatto da sola, è inquietante. Ricordo di aver guardato fuori dalla finestra e di aver visto le luci, tutte le piccole luci di Londra. Ambra, oro, lustrini. Le imbarcazioni sul Tamigi, le insegne, lo Shard all’orizzonte. Era tutto sfocato, tutte lucciole.

    Lucciole.

    Sogno le lucciole.

    Le ruote scricchiolano sulla ghiaia. Dormire non è servito a niente. Dentro, mi sento ancora come se mi avessero grattata con degli ami da pesca. I denti sembrano di spugna, porosi.

    Lo sportello si apre e Nikolai esce. Dei passi si avvicinano. Molti piedi.

    Ovunque sia, siamo arrivati.

    Dov’è Kurt?

    Con uno sforzo immane, mi drizzo a sedere aggrappandomi alla maniglia della portiera e al bordo del finestrino posteriore. La luce è ancora accecante. Ah, vedo che Nik si è ricordato i Ray-Ban, ma non ha pensato di prendere anche i miei. Mi serve il telefono. Controllo il sedile in cerca della borsa, poi ricordo che avevo collegato il telefono alle casse nella stanza d’albergo. Deve essere rimasto lì. Merda.

    Strizzo gli occhi. Nik stringe la mano a un uomo altissimo e barbuto. Potrebbe essere il fratello attraente di Hagrid. Giacca, colletto aperto, niente cravatta. Lo accompagnano due donne in abbaglianti e futuristici camici bianchi da infermiera.

    Stavolta sono davvero nella merda. Oddio. Mi aveva già minacciato altre volte – Lex, hai bisogno di aiuto – ma ho sempre pensato che non dicesse sul serio. Invece l’ha fatto davvero. Sono in ospedale.

    In una clinica per la disintossicazione.

    Non esiste.

    Con il vestito sollevato sui fianchi, mi intrufolo tra i sedili e mi lascio cadere al posto di guida cercando l’accensione. Ha portato via la chiave. Merda. Dovrò filarmela a piedi. Tiro la maniglia dello sportello, ma il mio equilibrio è instabile. Mentre lo apro, un colpo di vento lo spalanca del tutto facendomi finire sull’asfalto. Metto le mani avanti per attutire la caduta e i sassolini mi si infilano nei palmi come borchie.

    «Lexi, aspetta! Attenta», esclama Nikolai.

    Corpi e ombre scure mi circondano. Mani mi afferrano, dita sul viso. Agito le braccia come un mulino impazzito, cercando di scacciarli.

    «Portiamola dentro, okay?», dice il dottor Barba.

    «No!», grido. Il mio tasto del volume deve essere rotto. Urlo a squarciagola e il grido riecheggia nel giardino.

    Scruto attraverso la foresta di gambe e vedo che siamo sul vialetto di una splendida tenuta di campagna. Una cazzo di Downton Abbey. Segnata dalle intemperie, grigia e chiazzata, parzialmente coperta di edera. L’entrata principale è fiancheggiata da eleganti colonne. Intorno, acri e acri di terreno, per miglia intere non si vede che un prato perfetto circondato da un bosco rigoglioso.

    Mi tirano su, ma la ghiaia mi fa male sotto i piedi. «Ahiaaa!», ululo come se stessi per morire, anche se non fa poi così male. Le infermiere un po’ mi sostengono e un po’ mi trascinano in direzione della casa. «Nik! Ti prego!».

    Mi giro e lo guardo in faccia, con occhi grandi e innocenti, come solo io so farli. La sorellina Lexi. La piccola, dolce, Lexi. Proteggila, è una bambina, una bambolina di porcellana cinese.

    «Mi dispiace, Lexi… hai bisogno di aiuto». Non mi guarda negli occhi.

    «Andiamo a parlare nel mio ufficio», dice rassicurante il dottor Barba. Ma sono tutt’altro che rassicurata. Non posso andare in riabilitazione, anche perché tra circa quattro ore avrò davvero bisogno di una dose. Inizio a scalciare e agitarmi ma, visto che non funziona, mi abbandono a peso morto come un bambino nella corsia del supermercato. Le infermiere, che evidentemente si nutrono di frullati proteici o roba simile, mi sollevano utilizzando qualche tecnica sorprendente che devono aver imparato al Centro addestramento reclute per infermiere.

    «Mettetemi giù, troie ambulanti!», grido. «Lasciatemi andare!».

    Mi ignorano, quindi inizio a gridare «troie» all’infinito perché è l’insulto peggiore che conosco.

    Siedo nell’ufficio del dottor Barba, le ginocchia al petto, su una lucida sedia di pelle scura. Quello che ho sul davanti del vestito è sicuramente vomito. Puzza. Lui mi passa una bottiglia di Evian e ne prendo un sorso. Un po’ del saporaccio se ne va.

    Altro che acqua minerale, ve lo dico io cosa mi ci vorrebbe: eroina.

    Nikolai siede a disagio accanto a me. «Stai bene?», mi chiede a bassa voce.

    «Vaffanculo».

    «Ha fatto la cosa giusta, signor Volkov», dice il dottor Barba prendendo posto dietro una massiccia scrivania di noce. Tutto l’arredamento sembra voler dimostrare virilità a ogni costo e mi chiedo se non sia per compensare le ridotte dimensioni del pene. «Piacere di conoscerti, Lexi».

    «Vaffanculo».

    Il dottore ha la faccia tosta di sorridere mentre stringe tra le mani una tazza di caffè nero. «Sono certo che abbia un bel po’ di domande da porre, signorina Volkov».

    «Solo una. Potete andare tutti a fare in culo e lasciarmi in pace?»

    «Tecnicamente parlando, queste sono due domande e comunque no, mi dispiace, non posso. Non ancora, perlomeno. Questa non è una prigione e lei non è internata. È libera di andarsene, ma mi auguro che voglia restare». Sto per protestare, ma prosegue. «Mi permetta di aggiornarla velocemente. Il mio nome è Isaac Goldstein e sono il primario del Centro Clarity».

    «Per la riabilitazione, vero?»

    «È una struttura residenziale di cura».

    «Cioè, riabilitazione».

    «Se preferisce».

    «Lexi», si intromette Nik, «è la migliore, okay? Il meglio del meglio».

    «Ma davvero?», dico tornando su Goldstein. «Chi è la persona più famosa che sia mai stata qui?»

    «La nostra reputazione si basa sulla riservatezza, signorina Volkov».

    Talmente riservati che non ne ho mai sentito parlare. Nik avrebbe almeno potuto portarmi al Priory. «Una dei Kardashian? Khloé? Kylie?».

    Il dottor Goldstein mi ignora. «Non mi fraintenda… non siamo un albergo, ma abbiamo strutture di prima classe: stanze lussuose e villette, piscine riscaldate interne ed esterne, palestra, spa e chef stellati da guida Michelin. Sarà trattata molto bene durante il suo recupero».

    Bel tentativo. Recupero è la parola chiave. «Ma resta sempre riabilitazione. Cioè, si può avere almeno un vodka tonic?»

    «Ovviamente no».

    «Cristo santo. Posso fumare qui dentro? Ha una sigaretta?»

    «Sì, fumare è permesso. Io, però, non ho sigarette».

    Nik infila la mano nella tasca interna e tira fuori un pacchetto di Marlboro Light e un accendino. Glieli strappo di mano e accendo. Cavolo, così va meglio. Con un unico, avido tiro, la aspiro fin quasi al filtro, poi mi accorgo dello sguardo di Nikolai: un misto di orrore, pena e schifo. Quello che riservereste a un barbone che mangia direttamente dal cassonetto. «Che c’è?»

    «Pensavo fossi morta, Lexi». La patina che ha sugli occhi sembra la glassa sulle ciambelle.

    «Ehi ehi! Siamo tutti adulti e vaccinati. Possiamo andare a casa adesso?»

    «No». Si tampona gli occhi con un kleenex. «Non ti riporto indietro».

    Alzo gli occhi al cielo. «Bene. Allora chiamo Kurt e mi verrà a prendere lui».

    «Il Clarity si trova su un’isola privata lungo la costa meridionale», replica Goldstein. Ecco spiegato l’odore di mare. «Siamo una casa di cura con un’altissima percentuale di successo, signorina Volkov, e non è permesso a chiunque di prendere il traghetto: ogni veicolo che si imbarca deve avere un’autorizzazione. E naturalmente possiamo vietare l’accesso… dobbiamo prestare la massima attenzione quando ammettiamo qualcuno sull’isola, per ovvie ragioni».

    «Sta scherzando? E questa non sarebbe una prigione?»

    «Come ho già detto, è libera di andarsene quando vuole».

    «E come? A nuoto?». Mi giro verso Nik. «È una follia. Nik, non posso stare qui». Spingo indietro la sedia e mi avvio alla porta. «Andiamocene».

    «È stato Kurt a chiamarmi». Mi fermo. «Pensavano fossi in overdose. Quando sono arrivato in quella camera eri blu, Lexi. Avevi le labbra blu, cazzo». Fruga di nuovo in tasca e tira fuori il mio telefono. L’ha portato! Solo che lo fa scivolare sulla scrivania verso Goldstein.

    «Ehi!».

    «Per il momento lo custodiamo noi», dice il dottore, infilandolo nel cassetto.

    «Non potete farlo! Conosco i miei diritti!».

    «È la prassi».

    Mi butto a terra accanto alla sedia di Nik. Se ce ne andiamo ora, saremo a Londra prima che cominci la crisi di astinenza vera e propria. «Ascoltami, Nikolai. La prendo solo a scopo ricreativo… non è niente di che».

    «Ma ti senti? Pensavo già che le cose ti stessero sfuggendo di mano quando erano solo pasticche e cocaina. Ma l’eroina? Lexi, nessuno si fa di eroina a scopo ricreativo!».

    «Sì, invece! È per questo che non l’ho retta… non la uso praticamente mai. Era solo per divertirsi un po’, giuro. Non sono dipendente! Ti sembro forse una tossica?».

    Mio fratello strabuzza gli occhi. Scende un’altra lacrima. Rimane in silenzio per un attimo. «Sì», dice alla fine. «Sembri proprio una tossica».

    L’ho perso. Tutto quello che dico è inutile. Devo contare solo su me stessa. Marcio verso la porta e abbasso la maniglia. È chiusa a chiave. «Fammi uscire! Fammi uscire subito, lurido figlio di puttana!».

    «Si sieda, per favore, signorina Volkov».

    «Datti pace, Lexi. Tu resti qui e basta».

    «Non mi puoi costringere!».

    Nik si alza, le mani sui fianchi. «Be’, con me non ci torni e a quegli schifosi dei tuoi amici non sarà permesso salire sul traghetto, quindi immagino che non ti resti altro da fare che chiedere a papà di venirti a prendere. Solo che dovrai spiegargli perché ti ho portato qui».

    E così mi incastra. Papà mi ucciderà. O peggio, mi bloccherà le carte di credito. «Non puoi farlo».

    «Accidenti se lo faccio. Basta così. Non ti coprirò più. Ho scattato delle foto ieri sera, Lexi. O rimani qui o gli farò vedere la sua principessina ricoperta di vomito e di buchi sul braccio».

    Grido, grido e grido. Vedo rosso. Scaravento giù una scaffalatura. Butto a terra una marea di stronzate dalla scrivania del dottore. Cerco di lanciare una poltrona fuori dalla finestra, ma è troppo pesante e faccio la figura della stupida.

    Entrano due energumeni con la stessa divisa bianca inamidata e si fermano ai lati della porta, in attesa di istruzioni da Goldstein che, nel bel mezzo del caos che sto facendo, rimane così calmo da farmi infuriare ancora di più. «Signor Volkov, dal momento che Lexi è ancora minorenne e lei è il parente più prossimo e adulto, può darci l’autorizzazione a sedarla in caso di bisogno».

    «Non vi azzardate!», urlo. «Non potete farlo!».

    «Fate tutto quello che serve», dice Nikolai senza esitare.

    Mentre i due infermieri mi si avvicinano, mi rintano come un animale in trappola nel casino che ho creato. Uno di loro da un colpetto alla punta di un ago. Per quanto contorto possa sembrare, per un attimo la vista di quell’ipodermica mi calma, ma poi mi ricordo che non è una dose. Detto ciò, se c’è una cosa che ho imparato è che una droga è una droga. Probabilmente è un calmante, quindi mi placherà definitivamente, ma significa che dovrò restare in questo inferno. Dilemma. I due avanzano minacciosi. Mi resta poco tempo. Devo decidere. E decido che voglio restare cosciente. «Santo Dio, va bene. Non c’è bisogno di sedarmi. Guardate! Sono calma. Calma zen. Ora raccolgo i libri. Cristo».

    L’infermiere si ferma. Per il momento collaborerò. Ho bisogno di tempo per mettere a punto un piano. Non posso lasciare che papà mi tagli i viveri. Farò la brava e, quando si renderanno conto che è solo un catastrofico errore e che non sono come quella cavolo di Amy Winehouse, mi lasceranno andar via da quest’isola della Riabilitazione.

    Tento di risollevare la scaffalatura, ma è troppo pesante. «Lasci stare, signorina Volkov. Manderò qualcuno a sistemare l’ufficio», mi dice Goldstein. «Per il momento saluti suo fratello e poi l’accompagneremo nella sua stanza».

    «Devo andarmene?», chiede Nikolai. «Di già?»

    «Penso sia la cosa migliore».

    Nikolai va in bagno e poi si avvia alla macchina. Sono avvolta in una coperta e ai piedi ho delle Vans bianche nuove di zecca che mi hanno dato qui. Alle nostre spalle incombono Goldstein e un infermiere.

    «Tra poco devo andare e prendere Tabitha a Heathrow, ma farò in modo che qualcuno dell’albergo ti mandi la tua roba e i vestiti», mi dice. Cerco di ricordare dov’è stata la sua ragazza in questo periodo. Milano? Sta facendo un tirocinio da Tatler. «Assicurerò la massima discrezione».

    Mi stringo le braccia al corpo come se davvero dovessi sostenere l’intero scheletro. Le articolazioni stanno cedendo, ma non posso farglielo vedere. È l’effetto che i tossici definirebbero clucking, ma io non sono una tossica per cui non lo definisco e basta. «Nik, è una follia», gli dico, con voce dolce come zucchero. «Non mi serve restare qui. Ascoltami, giuro che se mi porti a casa non prenderò mai, mai più né coca né ossicodone né Vicodin. Promesso. E, da brava bambina, andrò dalla psicologa due volte alla settimana».

    Lo vedo tentennare, solo per un secondo. Poi scuote la testa. «No, Lexi. Devi staccarti da quella merda di amici che hai. Senti… penso davvero che questo posto sia il massimo. Fai solo un tentativo. Per favore».

    «Nik… non posso stare qui!».

    «È solo per un paio di mesi, Lexi».

    «Mesi?»

    «È un programma di settanta giorni».

    «Fai prima a uccidermi subito».

    Mi stringe in un abbraccio, ma lo caccio via. Giuda bastardo. «Starai bene, Lexi. Dirò a papà che sei andata a stare da mamma. Tanto non la chiamerà mai per controllare, no?». Sale sulla BMW. «Pensa a stare meglio. Tornerò a trovarti».

    Mi aggrappo alla portiera. «Ti prego…». Ora sto piangendo, non faccio neanche finta.

    «Lascia lo sportello, Lex. È la cosa migliore». Me lo strappa dalle mani e accende il motore.

    «Non posso credere che tu mi stia facendo questo!», strillo, prendendo a pugni il finestrino mentre si allontana.

    Il dottor Goldstein è già al mio fianco con l’infermiere. «Venga, signorina Volkov. Andiamo a vedere la suite».

    Guardo il casale. Le finestre mi osservano come occhi. Occhi condiscendenti, giudicatori.

    Mi hanno fregato.

    Stavolta mi hanno fregato proprio bene, cazzo.

    Perlomeno la stanza è carina. Sono al piano terra – solitamente avrei da ridire – ma mi ricordo che non è un hotel, anche se lo ricorda molto. Mentre vengo accompagnata in fretta verso la mia stanza, colgo l’essenza del centro Clarity: tappeti morbidi di un rilassante verde giada, pareti écru, rifiniture in noce, luci soffuse, orchidee color crema in bocce per i pesci. Il paradigma della classe.

    Goldstein mi ha affidato all’infermiere nerboruto. Dopo vari corridoi che mi hanno seriamente disorientata – e dire che dovrei esserci abituata – si ferma davanti alla stanza 11 e la apre. Senza bagaglio, lo seguo all’interno sentendomi l’orfanella Annie. «Ecco la sua camera», dice semplicemente. «Se le serve qualcosa, chiami. C’è un pulsante accanto al letto».

    «Un po’ di Vicodin?». È un bel maschione: spalle robuste, collo massiccio, capelli rossi. Gli rivolgo un gran sorriso.

    Risponde con una risata educata, anche se finta. Di sicuro non è la prima volta che sente quella battuta. All’interno, la gamma di colori è la stessa della hall, verde acqua e grigio pallido. Tutto molto feng shui, sicuro. C’è perfino una boccia decorativa piena di sassolini e un tavolinetto accanto alla porta. Le classiche stronzate. Cazzo, se trovo una sola statua di Buddha, giuro che la prendo e ci ammazzo qualcuno. Letto king size con testiera in cuoio, scrivania e divanetto; porta finestra che dà su una specie di terrazza… piscina esterna, coperta. Al di là vedo acque argentate ondeggiare all’infinito. Vista mare, che fortuna. «Il dottor Goldstein arriva subito con le sue medicine».

    «Come ti chiami?»

    «Marcus, signorina Volkov».

    «Ciao, Marcus», sorrido di nuovo dolcemente, la testa inclinata di lato come una ragazzina provocante da fantasia pornografica. Conviene sempre tenersi buoni gli infermieri. «Posso vedere la terrazza?». Voglio studiare possibili vie di fuga.

    Scuote il capo. «Non ancora, non finché non si sarà disintossicata». Si gira per andarsene. «Sarò in servizio tutto il giorno. Chiami se ha bisogno di qualcosa». Disinteresse professionale. Se ne va.

    E ora che faccio?

    È assurdo. A casa, ho una mani-piedi prenotata per oggi pomeriggio alle due.

    C’è un pacchetto di benvenuto al Clarity appoggiato tra due bottiglie di acqua minerale – una liscia e una frizzante – sul tavolo. Wow. Non lo degno di uno sguardo.

    Entro nel bagno. Lavandino in marmo, una vasca da bagno grande abbastanza da distendersi. Be’, potrebbe andare peggio. Accendo la luce e, vedendomi riflessa nello specchio, sussulto. Non mi meraviglia che Nikolai abbia dato di matto, sembro uscita da The Walking Dead. Sarà anche questa luce che non mi dona, ma ho un colorito verdognolo; terreo e cadaverico. Merda. Mi chiedo se non mi sia capitata una partita cattiva. Ho gli occhi iniettati di sangue e occhiaie tipo panda, per via del mascara e dell’eyeliner di ieri sera ormai sciolti. I capelli sono un nido biondastro e unto.

    Eppure lassù qualcuno mi ama perché, in un bicchiere insieme al dentifricio, mi aspetta uno spazzolino da denti incellofanato. Lo prendo e cerco di aprirlo, ma le mani mi tremano da morire. Sta arrivando. Cazzo.

    Inizia come una febbre, dalle ossa. Ma poi diventa molto peggio.

    Riesco a lavarmi i denti e decido che una doccia mi aiuterà a sentirmi più umana. Con un po’ di fortuna, il calo sarà facile e bello, come il volo di una piuma. Infilo la testa sotto il getto più bollente possibile, sperando così di scacciare il dolore sotto pelle.

    Non funziona. Non appena chiudo la doccia, comincio a tremare. Un freddo gelido che parte dal midollo. Batto i denti.

    Mi asciugo e, nell’armadio, trovo un pigiama pulito Calvin Klein. Non ho una spazzola – mi passa per la testa di chiamare Marcus perché me ne porti una, ma poi ci ripenso – quindi mi tampono alla meglio i capelli con l’asciugamano e li pettino con le dita.

    Me ne sto a gambe incrociate sul letto a fumare una sigaretta (Nik mi ha lasciato tutto il pacchetto) quando bussano alla porta. «Signorina Volkov, sono il dottor Goldstein».

    Lo faccio entrare.

    «Volkov o Volkova?»

    «Volkov». In realtà sarei Alexandria Volkova, ma il femminile non lo usiamo mai. Le declinazioni non fanno che confondere gli inglesi e poi è un vantaggio, per me e mia mamma, avere lo stesso cognome di papà.

    «Come va?»

    «Di merda». Vado al divano e mi siedo con le gambe all’indietro. La doccia non è servita; mi prude ovunque. Le formiche mi scavano tunnel sotto pelle. E il peggio è che ho la nausea, la lingua sa di latte rancido.

    Goldstein scosta la sedia dalla scrivania. Vedo che ha con sé una busta di farmaci e ci vuole tutta me stessa per non strappargliela dalle mani. «Prima un paio di domande. Quando ti sei fatta l’ultima volta, Lexi?».

    Farsi. Detto così sembra un gesto abituale. Alzo gli occhi al cielo. «Oddio, è questo che facciamo?»

    «La cosa più importante, prima di iniziare il vero lavoro, è disintossicare l’organismo. Finché al suo interno ci sarà della droga, non riuscirai a pensare ad altro».

    Cerco di riderci sopra… non pensare ad altro che alle droghe. «Dottor Goldstein! È tutto un enorme malinteso», dico, serrando la mascella come se fossi sotto l’effetto di una dozzina di pasticche. «Non sono un’eroinomane. È solo un po’ di coca, per rilassarmi a fine serata dopo l’ecstasy o la cocaina».

    Non si scompone minimamente. «Ed è un comportamento normale a diciassette anni?».

    Scrollo le spalle. «Sì. Cioè, se è una gran bella serata, sì».

    «Lexi, in realtà non è così. Ascoltami. Qui al Clarity adottiamo un programma speciale basato su Dieci step…».

    Che sorpresona.

    «E il Primo step è quello di riconoscere di avere un problema».

    «Ma io non ho un problema! Non sono mica una tossica che vive per strada e fa pompini in cambio di una dose o cazzate del genere, no?». Mi fa male la spina dorsale e mi sposto sul divano, cercando di mettermi comoda.

    «Quando ti sei fatta l’ultima volta?», ripete.

    Sospiro. Se sto al gioco uscirò prima. «Stanotte. Intorno all’una…».

    Il bello della Fashion Week non sono le sfilate – anche se a qualcuna vale ancora la pena fare una comparsa – ed è sempre divertente vedere le blogger e i loro folli tentativi di prevaricarsi a vicenda indovinando i vestiti («Oooh, indossi un Wendy, innovativo, molto da Fashion Week»). No, il bello sono le feste.

    Quella di Burdock & Rasputin era all’hotel Shoreditch. Sapete che mio padre è il proprietario della catena V Hotels? Eh, già.

    Vestivo Miu Miu e stivali Jimmy Choo con una finta pelliccia vintage. Mi sembrava pacchiano scegliere Burdock & Rasputin per la loro stessa festa. Non è stata niente male. Miguel, il nostro mixologist, aveva creato un cocktail ispirato alla linea. Sapeva di collutorio, ma in senso buono. Il party era pieno zeppo, ovviamente. E anche di serie A, in effetti, niente partecipanti a reality o band femminili: Chloe Sevigny, Rihanna, Lupita, Karlie e Gigi. Adoro Gigi, è una bambola.

    Non so perché mi aveva sorpreso trovarci Nevada, avevo dimenticato del suo tirocinio proprio da B&R, quindi, era ovvio che ci fosse. Imbarazzante. Ci siamo quasi scontrate nella zona fumatori, assolutamente impossibile ignorarci. «Tesoro!», le ho detto. Era, o fingeva di essere, la mia gemella separata alla nascita.

    «Lex! Mi chiedevo se ci fossi anche tu». Be’, oh, è il mio albergo. Nevada è originaria di Hong Kong e destinata da sempre

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