La comunità terapeutica per persone tossicodipendenti
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Ma negli ultimi dieci anni la situazione delle dipendenze e degli strumenti per affrontarle è molto cambiata. Da qui la necessità di un aggiornamento per un testo che resta una guida di grande attualità su potenzialità e limiti del trattamento residenziale nella cura di vecchie e nuove dipendenze. Uno strumento importante per le giovani generazioni di operatori e operatrici, con solidi riferimenti a pratiche ed esperienze, ma anche spunti per affrontare nuove sfide (delle quali si dà conto, in particolare, in apertura e chiusura del testo).
Non solo un classico, dunque, ma anche uno stimolo a riportare l’attenzione e a riaprire un dibattito serio e consapevole, da troppo tempo accantonato, sulla complessa e delicata questione della cura delle persone tossicodipendenti.
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Anteprima del libro
La comunità terapeutica per persone tossicodipendenti - Maurizio Coletti
Maurizio Coletti
Leopoldo Grosso
La comunità terapeutica
per persone tossicodipendenti
284.jpgEdizioni Gruppo Abele
© 2022 Edizioni Gruppo Abele Impresa Sociale srl
corso Trapani 95 - 10141 Torino
tel. 011 3859500
edizionigruppoabele.it
edizioni@gruppoabele.org
ISBN 9788865792803
Prima edizione Edizioni Gruppo Abele
© Associazione Gruppo Abele onlus, 2011
Prima edizione digitale: settembre 2022
In copertina: fotografia di © Luigi Ottani (Modena, febbraio 2006)
Si ringrazia la compagnia di danza Momix per il consenso all’uso dell’immagine
Gli autori ringraziano in particolare il prof. Augusto Palmonari per avere stimolato l’idea del libro, Lucia Bianco, da tanti anni impegnata a tutto campo nelle attività del Gruppo Abele, e Jole P. Stefano, stretta collaboratrice dell’Associazione Itaca, per essersi assunte l’onere della lettura conclusiva e per i loro preziosi suggerimenti.
Gli autori sono inoltre grati a tutti coloro che a vario titolo operano nell’ambito delle dipendenze e alle persone consumatrici che, nei tanti incontri formali e informali, hanno fornito innumerevoli e importanti spunti di riflessione
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Il libro
A dieci anni dalla prima edizione lo studio di Coletti e Grosso sulle comunità terapeutiche è un classico imprescindibile per operatori e operatrici del settore (e non solo): un’analisi unica in Italia, fondata su una lunga esperienza, completa e documentata, con uno sguardo complessivo e trasversale che va oltre i miti, i luoghi comuni e le posizioni preconcette. Sono approfondite, nel testo, la storia delle comunità, le speranze e le delusioni che le hanno accompagnate, i diversi metodi di intervento praticati, i problemi emersi nella vita quotidiana tra gli ospiti e nei rapporti con gli operatori e con il territorio.
Ma negli ultimi dieci anni la situazione delle dipendenze e degli strumenti per affrontarle è molto cambiata. Da qui la necessità di un aggiornamento per un testo che resta una guida di grande attualità su potenzialità e limiti del trattamento residenziale nella cura di vecchie e nuove dipendenze. Uno strumento importante per le giovani generazioni di operatori e operatrici, con solidi riferimenti a pratiche ed esperienze, ma anche spunti per affrontare nuove sfide (delle quali si dà conto, in particolare, in apertura e chiusura del testo).
Non solo un classico, dunque, ma anche uno stimolo a riportare l’attenzione e a riaprire un dibattito serio e consapevole, da troppo tempo accantonato, sulla complessa e delicata questione della cura delle persone tossicodipendenti.
Gli autori
Maurizio Coletti, psicologo e psicoterapeuta, lavora da molti anni nel campo dei consumi di sostanze e delle addiction. Formatore, ricercatore e consulente, è stato presidente di Itaca Europa e supervisore di programmi residenziali in Italia e all’estero.
Leopoldo Grosso, psicologo e psicoterapeuta, è presidente onorario del Gruppo Abele di Torino. Formatore, consulente e autore di numerose pubblicazioni in tema di dipendenze e consumi, insegna Prevenzione e trattamento delle dipendenze presso la facoltà di Psicologia dello Iusto a Torino.
Indice
Introduzione alla seconda edizione
Prefazione alla prima edizione
di Luigi Ciotti
Parte prima - La storia e le lezioni apprese
I. Storia e preistoria della comunità terapeutica
1. Gli antecedenti culturali e storici
2. Gli anni Sessanta in Nord America
3. Le prime esperienze italiane
4. Le esperienze europee
II. Il mito delle comunità terapeutiche in Italia
1. La crescita dei numeri
2. La guarigione tra speranza, illusione e dato di realtà
3. La centralità della comunità rispetto alle altre terapie
4. L’illusione dell’autoreferenzialità
III. Il Testo unico 309/90 e gli anni dell’Aids
1. Il riconoscimento istituzionale e il contestuale ridimensionamento
2. L’Aids tra prevenzione, prendersi cura e riduzione del danno
3. L’affermarsi di altre terapie
IV. Le comunità terapeutiche ridefinite
1. De Leon e la comunità terapeutica modificata
2. La differenziazione delle comunità per target e funzioni
3. Le comunità integrate nel sistema dei servizi
4. Capovolgimento dell’utenza della comunità e ribaltamento di funzioni
Parte seconda - Il metodo
I. L’accesso in comunità
1. Il metodo classico: percorso preliminare e selezione dell’utenza
2. L’affinamento del metodo: analisi della domanda e tentativo di matching
3. Rapporti con i servizi ambulatoriali
II. La comunità e le sue fasi
1. Dall’accoglienza al blackout
2. Le funzioni dello stacco e della chiusura
3. La fase del lavoro su di sé
4. La fase della messa alla prova
5. La fase del rientro
6. Il post trattamento e i contatti successivi
III. Le funzioni della comunità terapeutica
1. Il contenimento dell’uso di sostanze
2. La ridefinizione delle abitudini e dei comportamenti
3. L’«individuazione»
4. L’«esperienza affettivo-correttiva»
IV. Gli strumenti della comunità terapeutica
1. Il primato del gruppo in comunità
2. Le dinamiche prevalenti
3. Il colloquio
4. La relazione
5. La regola, la sanzione, il privilegio
6. Il lavoro
7. Le famiglie
8. Il lavoro dello staff
V. Abbandoni, espulsioni, ripetizioni di programma
1. Gli abbandoni: fuga, dimissioni anticipate e concordate
2. Le espulsioni: allontanamenti definitivi e temporanei
3. Il fallimento: vissuti degli utenti e degli operatori
4. I rischi dell’uscita improvvisa dalla comunità
VI. I princìpi terapeutici attivi del trattamento in comunità
1. La volontarietà dell’accesso e della permanenza
2. Attaccamento, evoluzione, identificazione: ruolo dello staff e dei compagni
3. L’investimento degli operatori tra metodo e stile di lavoro
4. Il supporto del Serd e il ruolo dei familiari
VII. Le comunità terapeutiche modificate per popolazioni speciali
1. Le comunità madre-bambino
2. Le comunità per coppie di persone tossicodipendenti
3. Le comunità per doppia diagnosi
4. Le comunità per consumatori di cocaina e giocatori d’azzardo patologici
5. I centri di osservazione e diagnosi
6. Le comunità di reinserimento
7. Le comunità per persone alcoldipendenti
8. Carcere e comunità terapeutiche
9. L’addiction tra i migranti
Parte terza - La comunità e il territorio
I. Dall’autoreferenzialità al rapporto di scambio
1. Gli ospiti della comunità e il territorio: tra rifiuto e aiuto
2. Perché è indispensabile che la comunità lavori con il territorio
3. Comunità terapeutica e territorio di appartenenza: un rapporto sofferto
II. Animazione territoriale e prevenzione
1. Comunità e prevenzione nel territorio
2. Progettazioni in comune: fuori e dentro la comunità
3. La formazione del volontariato
Parte quarta - Le capacità dell’operatore
I. Scelta e selezione degli operatori di comunità
1. Le problematiche nella selezione del personale
2. Operatori professionali, esperti per esperienza e volontari professionalizzati
3. La collaborazione tra le diverse culture operative
II. Sapere, saper fare, saper essere
1. Mansionario e capacità di andare oltre
2. Coerenza, lealtà e trasparenza
3. Sapersi mettere in discussione
III. Sostenere il conflitto
1. La prova del fuoco dell’aggressività dell’utenza
2. La propria aggressività al servizio dell’assertività
3. Le principali spinte a trasgredire
4. La capacità di aprire il conflitto
5. La mediazione del conflitto tra gli ospiti
6. La gestione dell’aggressività nello staff
IV. Ascolto e comunicazione
1. L’ascolto
2. L’osservazione
3. L’importanza dei momenti informali
4. Esplicitazione e chiarezza: le principali virtù della comunicazione
V. Fare i conti con le crisi
1. La crisi in comunità: le sue differenti varianti
2. Risorse dell’operatore e risorse del contesto
3. Gli agiti contro gli altri e contro di sé: interventi possibili
4. Tenacia e flessibilità della relazione
5. La crisi di una comunità terapeutica
VI. Lavorare «con»
1. Empowerment individuale e di gruppo
2. Empowerment e capacità dell’operatore
3. Lavorare con i servizi
4. Il lavoro di rete
VII. Le dinamiche in comunità e gli interventi dell’operatore
1. Il nascosto, tra complicità e omertà
2. I gruppi contrapposti
3. La dinamica del capro espiatorio
4. La presenza femminile in comunità
5. Formazione di coppie e innamoramenti
6. Più egualitari di Robespierre
VIII. Lavorare in équipe
1. Le funzioni dell’équipe
2. Le dinamiche di équipe
3. La cura della comunicazione
4. Il burn-out degli operatori
Parte quinta - Valutazione e ricerca
I. La valutazione del trattamento
1. L’assessment all’entrata
2. La valutazione degli esiti a medio-lungo termine
3. La valutazione dei percorsi intermedi e finali
4. Il dibattito sulla valutazione degli esiti nelle comunità modificate
5. Comunità e accreditamento
6. Il processo di valutazione da parte di operatori e committenze
7. I costi sociali delle dipendenze
II. Le ricerche all’estero e in Italia
1. Gli studi internazionali
2. La ricerca in Italia
Conclusioni
Postfazione alla prima edizione
di Luigi Cancrini
Bibliografia di riferimento
A Walter,
e ai tanti operatori di comunità che, come lui,
impegnano una vita con le persone più fragili
alle prese con i loro aspetti più difficili.
lg
Mia figlia Costanza
ha un nome beneaugurante e significativo per chi
vuole affrontare un trattamento in comunità.
Dedico questo sforzo a lei perché è caparbia
e nella relazione vuole sempre mettere
al primo posto la chiarezza e la sincerità.
Altri aspetti decisivi per riuscire
in un trattamento di comunità.
mc
Introduzione alla seconda edizione
Nell’introduzione alla prima edizione avevamo così sintetizzato la necessità di un rilancio della riflessione sulle comunità terapeutiche: «Osannata e odiata, proposta come soluzione unica
o come prigione, come luogo e percorso di crescita e di emancipazione o come occasione di violenze e sopraffazione, la comunità è ancora, nonostante i suoi limiti (limiti da cui non è esente nessun trattamento), uno strumento multiforme ed efficace. Una riflessione organizzata e coerente con gli attuali dati di realtà può forse permetterci di guardarla con occhi nuovi, di identificarne meglio potenzialità e limiti».
A più di dieci anni dalla prima edizione di questo libro, un unico evento, peraltro inatteso, ha riaperto il dibattito sulle comunità terapeutiche: il docufilm di Netflix su San Patrignano, visto da decine di migliaia persone. Un pubblico esteso, variegato, anche giovanile, è stato attratto dalla ricostruzione storica degli avvenimenti della comunità di Muccioli: dal tema degli abusi terapeutici e della violazione dei diritti fondamentali delle persone in trattamento alle responsabilità del suo leader carismatico. È rimasta invece sostanzialmente fuori dall’intenso e vivace dibattito che ne è scaturito la delicata questione della cura delle persone tossicodipendenti e dello strumento comunità terapeutica. Dal 2011 a oggi la letteratura nazionale e internazionale non ha prodotto studi significativi in merito¹. Le comunità più attente e rigorose hanno, di quando in quando, redatto dei report descrittivi delle loro attività con l’obiettivo di condurre anche un’onesta autovalutazione degli esiti dei trattamenti delle persone in carico². La Relazione annuale al Parlamento, in merito alle comunità terapeutiche, continua a fornire dati lacunosi e parziali, la cui raccolta è delegata di fatto al contributo volontario del Cnca³. Continuano a mancare dati sistema che il Sind⁴ non è ancora riuscito a ottenere con regolari flussi informativi.
Di quali comunità terapeutiche stiamo parlando? Quali comunità per quali problematiche?
La fotografia dello stato attuale delle comunità terapeutiche, che oggi si riesce a scattare, sembra indicare che:
a) il numero delle comunità e degli ospiti accolti è in continua, leggera e costante diminuzione. Le strutture del privato sociale sono 821 tra residenziali, semiresidenziali e ambulatoriali. Nei Serd al 31 dicembre 2020 erano in carico 125.428 persone, di cui in comunità terapeutica 9.769. Confrontando diverse fonti, in comunità viene trattato il 6-7% dell’utenza complessiva;
b) il supporto economico erogato a sostegno da parte del Ssn (le «rette») non ha avuto incrementi e persevera nel dimostrarsi sperequato sul territorio nazionale, confermando il circolo vizioso tra Regioni (prevalentemente del Sud d’Italia) con un numero molto scarso di comunità terapeutiche e regime di rette decisamente più basse (l’84% delle strutture residenziali è collocato al Centro-Nord);
c) l’età media delle persone accolte supera i 40 anni, a conferma che gli inviati in comunità dai Serd⁵ sono utenti che, in prevalenza, non riescono a trarre sostanziale beneficio dai trattamenti territoriali e hanno bisogno di un periodo di forte contenimento della deriva della loro intera esistenza⁶. Non si tratta pertanto di trattamenti precoci, ma tardivi, che si collocano nella storia già molto avanzata della dipendenza delle persone e dei loro tentativi di cura;
d) l’incidenza degli ingressi giovanili rimane molto bassa, con soggetti prevalentemente caratterizzati da una comorbilità tossico-psichiatrica (la cosiddetta doppia diagnosi). Persone «gravi e gravose» sia sotto il profilo della severità della problematica che dell’onere di gestione a livello di impegno organizzativo e di risorse devolute.
Una comunità terapeutica, molto più che una generica residenzialità per un’utenza tossicodipendente, si caratterizza con riferimento alla tipologia di persone che ha in carico. Gli obiettivi, il programma, la composizione degli strumenti di intervento, le fasi e la durata, lo sbocco del trattamento stesso si declinano in relazione alla specificità delle problematiche da trattare. Le peculiarità degli interventi richiesti si differenziano notevolmente in base allo stato di salute delle persone, al loro livello di autonomia, alle capacità cognitive, alle abilità più o meno compromesse, agli stili relazionali, all’insieme di risorse personali e familiari di cui dispongono, alla motivazione al trattamento… L’individualizzazione della cura è più facilmente esercitabile all’interno di comunità con un’utenza omogenea; gli scostamenti di trattamento e di programma sono meno evidenti e più tollerati, e non richiedono una sottodivisione in moduli separati per gruppi di utenti.
Lavorare con un’utenza omogenea per le sue caratteristiche richiede una scelta precisa sia da parte delle singole comunità sia da parte della struttura dipartimentale territoriale a cui le comunità fanno riferimento. Ogni scelta comporta opportunità e rinunce, e su questo primo snodo si differenziano nuovamente le geografie regionali. Là dove le programmazioni territoriali, nei piani locali di zona, prevedono una logica di sinergie di sistema, le scelte delle singole comunità sono condivise e sostenute a livello dipartimentale in base all’obiettivo di riuscire a soddisfare i bisogni complessivi che emergono dal territorio. Capita invece spesso il contrario dove programmazioni troppo fragili o del tutto inesistenti lasciano spazio a una mera logica di mercato che porta le singole comunità a porsi in relazione all’intero territorio nazionale e non solo regionale, a non specializzarsi ma a mantenere una genericità che offre loro la possibilità di rispondere all’intera varietà delle domande. Può capitare così che, in parallelo, si effettuino percorsi drug free e di stabilizzazione, ospitalità di madre-bambino e old users, trattamenti per eroina, cocaina, alcol e talvolta gioco d’azzardo.
L’«ombrello» della psichiatria sulle dipendenze e la ricaduta sugli invii in comunità
È noto, e altrettanto paradossale, come al difficile e faticoso rapporto di collaborazione tra Centri di salute mentale (Csm) e Serd nei singoli territori faccia riscontro, ai livelli regionali, un progressivo processo di unificazione dipartimentale tra i servizi sotto l’egida della psichiatria. L’operazione sembra avere più ricadute sulla ripartizione del personale e sulla ridefinizione dei budget dedicati ai singoli servizi da parte delle Asl, che non sull’effettiva integrazione degli operatori e del metodo di intervento nell’operatività quotidiana. Il riferimento privato dei Csm sono le case di cura, ancora considerate come fornitori da parte delle Aziende sanitarie locali e non come attori con pari dignità rispetto al ruolo pubblico esercitato, così come avviene per le comunità che sono chiamate a co-programmare e co-gestire gli interventi in ambito dipartimentale. Il rischio che si paventa è che, nello scontro tra diversi modelli faticosamente sedimentati e definiti negli anni, col ricambio di un’intera generazione di operatori ormai giunti alla pensione, il ruolo pubblico a tutto titolo assunto dalle comunità venga ridimensionato, così come ulteriormente tagliato il budget a loro disposizione.
Flessione della domanda?
Se storicamente, dalla metà degli anni Novanta, la domanda di comunità è risultata in drastica diminuzione per i noti motivi (Aids, netta riduzione dell’uso endovenoso dell’eroina, progressiva prevalenza del consumo di cocaina e crack, mutata rappresentazione sociale delle comunità rispetto a un’aspettativa salvifica andata delusa, percorso impegnativo e richiedente, concorrenza del trattamento con sostitutivo…), ancora oggi il numero di utenti trattati continua a essere in lenta ma costante diminuzione (in 20 anni si è passati dal 10% al 6-7% dell’utenza complessiva dei Serd). Più difficile è rintracciarne le cause ma, comparando le modalità di accesso alle comunità tra le Regioni che hanno reso possibile un ingresso svincolato dai Serd e quelle che lo mantengono, si evidenzia una strozzatura dovuta sostanzialmente ai vincoli di budget a cui sono sottoposti i Serd per gli invii in comunità terapeutica, che creano una lista di attesa per l’ammissione in struttura residenziale a causa della scarsità di risorse in dotazione per soddisfarla. Il filtro dei Serd, pensato come un provvedimento di natura tecnica volto a determinare «quale miglior trattamento per quale paziente», si è progressivamente trasformato in un mero stop economico, dovuto ai tagli della spesa sanitaria per ragioni di risparmio, in particolare rispetto ai servizi territoriali.
Le nuove addiction: è possibile una risposta di comunità?
L’auto-mutuo-aiuto e la clinica ambulatoriale hanno già adattato i loro sistemi di trattamento alle nuove dipendenze, intese sia come disturbo d’uso di nuove sostanze psicoattive che come dipendenze comportamentali. Di nuovo, antesignani, sono stati gli Aa, gli Alcolisti anonimi, che hanno esteso il loro metodo a nuovi gruppi: i narcotici anonimi (Na), i Cocaine anonimi (Ca), i Gamblers anonimi (Ga), le dipendenze alimentari, gli «emotivi anonimi» etc. La clinica ambulatoriale dei Serd e del privato sociale ha a sua volta aggiornato le modalità di accoglienza e di cura alle nuove situazioni. Le comunità sono in movimento: dapprima interpellate per consentire alle persone di staccare dai loro comportamenti, a cui non riuscivano a rinunciare all’interno dei contesti di vita abituali, si sono successivamente interrogate rispetto a come definire un intervento di comunità che non si configuri unicamente come opportunità di luogo protetto in cui riuscire a portare avanti una scelta di rinuncia, per poi riconsegnare il fruitore dell’intervento al trattamento ambulatoriale, dopo un periodo di astinenza e una riguadagnata parziale capacità di controllo. Che fare nel frattempo, durante il tempo sofferente, ma liberato, della rinuncia? Portare avanti programmi psicoeducativi? Cercare di approcciare o quantomeno motivare all’approfondimento delle problematiche retrostanti l’addiction? Insistere su programmi di prevenzione alla ricaduta formando e creando confidenza con l’uso di tecniche cognitiviste, nelle loro diverse varianti? Mediare e iniziare a ricostruire i legami familiari in crisi e compromessi dal comportamento di addiction? Anticipare la fase centrale del reinserimento lavorativo, individuare e facilitare l’emersione di abilità della persona, inventandosi o appoggiandosi a percorsi di pre-professionalizzazione per un ingresso (reingresso) più gratificante nel mercato del lavoro? La variabile tempo necessaria per riacquisire una minima capacità di controllo del proprio comportamento rispetto all’addiction e che richiede uno sforzo di faticosa rinuncia volontaria ha bisogno di essere accompagnata da qualcosa che accade in questo periodo: a) per occupare il tempo e fungere quantomeno da fattore distraente rispetto alla configurazione dell’idea ossessiva compulsiva comportata dalla sofferenza della mancanza della sostanza; b) per sperimentarsi, testarsi, riadattarsi alla normalità della quotidianità, ritrovare le connessioni rispetto a un diverso modo di stare con gli altri; c) per dare un senso personale al fare: dalla gratificazione del piacere sperimentato al riconoscimento di un aspetto di sé che si è messo in gioco, al sentirsi parte attiva all’interno di un nuovo gruppo che condivide obiettivi comuni di affrancamento.
Nelle comunità tradizionali il percorso si dipanava su un anno e mezzo-due anni e il primo periodo era considerato il tempo dell’adattamento al nuovo contesto: due-tre mesi di ambientamento, in genere i più faticosi perché si accompagnavano alla fase più dura della rinuncia alla sostanza, supportata dal cosiddetto blackout (l’eliminazione di qualsiasi possibilità di legame col mondo precedente che potesse fare da richiamo) in modo che distacco e ambientazione ne fossero facilitati. Con le persone dipendenti da eroina per via endovenosa o alcoldipendenti quest’impostazione ha dato i suoi risultati. La velocità, l’urgenza e l’immediatezza oggi imposte dall’abuso di cocaina, dal gioco d’azzardo e da altre dipendenze comportamentali, insieme alle scorciatoie dei percorsi di trattamento – in particolare quelli residenziali – richiesti dalla frenesia delle condotte in atto e dai tagli ai budget delle cure, sembrano imporre programmi di breve durata in cui un trattamento residenziale di sei mesi si colloca come un tempo massimo d’eccezione. Due mesi o più di autoreclusione in una residenzialità di contenimento come possono essere resi più efficaci dai programmi che li caratterizzano? Le comunità terapeutiche brevi per le nuove dipendenze, che non obbediscono solo alla necessità di staccare dal consumo, che si collocano tra un prima e un dopo il trattamento ambulatoriale, come si sono attrezzate e si stanno ancora attrezzando per lavorare con un’utenza caratterizzata dalla dipendenza, ma profondamente diversa per struttura di vita, capacità, capitale relazionale di cui dispone? Un confronto sistematico e soprattutto una valutazione dei risultati ottenuti è ancora assente. Diverso invece è il discorso per il disturbo d’uso da crack e per il policonsumo. Nonostante la diversità delle sostanze utilizzate, per le biografie dei consumatori, per gli stili di vita adottati, per l’etichettamento sociale, il loro discorso terapeutico è più riconducibile nell’alveo del trattamento delle comunità simil-tradizionali.
Lo stato delle ricerche e la formazione degli operatori di comunità
Da almeno vent’anni non constano contributi rilevanti nel campo delle ricerche sulle comunità terapeutiche in Italia. Si potrebbero interrogare Enti di ricerca e Università su questo tema. La ricerca scientifica sia quantitativa che qualitativa, ma anche quella aneddotica, non è stata significativa, probabilmente a causa del diminuito interesse generale e specifico per le addiction e, in particolare, per quel settore di trattamenti che concerne le residenzialità⁷. Ciò in particolare sul punto di maggiore interesse generale, che riguarda le valutazioni degli esiti dei trattamenti residenziali. Pur essendosi ormai attestato il dibattito in merito agli indicatori d’esito, su cui si registra un più che discreto consenso, la ricerca rimane sostanzialmente ferma, fatta eccezione per le lodevoli iniziative di autovalutazione, che tuttavia non sfuggono a critiche metodologiche e all’impossibilità di comparazione.
Se si dà anche un solo sguardo ai capitoli della Parte quarta del libro (Le capacità dell’operatore), si può comprendere quante e quali siano le skills richieste agli operatori delle comunità. Che andrebbero implementate, modificate, supportate come solo una formazione e una politica di aggiornamento continuo possono almeno parzialmente garantire. Invece, restano ancora casi isolati i corsi di laurea che includono percorsi centrati sulle addiction. Così come la necessità di una supervisione metodica esterna in grado di accompagnare, almeno ogni quindici giorni, il lavoro delle équipe viene recepita solo dalle comunità più rigorose e responsabili, che riescono a fare rientrare questa ulteriore spesa non richiesta nel budget di un risicato pareggio di bilancio. E sono spesso le comunità a dimensioni più ridotte – che hanno scelto di non beneficiare di un’economia di scala – a garantire il diritto degli operatori, il cui impegno professionale qualificato costituisce, a propria volta, il tramite del rispetto del diritto degli utenti di fruire di prestazioni di più alto livello. Le supervisioni costituiscono uno strumento che aiuta gli operatori a comprendere meglio le difficoltà che sperimentano con l’utenza, rendendoli maggiormente consapevoli di alcuni loro atteggiamenti, ma focalizzano anche le dinamiche ingarbugliate che si vengono a creare all’interno dello staff che incidono negativamente sull’operatività, e consentono altresì di raccogliere ed elaborare la sofferenza più o meno nascosta riposta nei vissuti degli operatori che lavorano in comunità. Le già ripetutamente citate politiche del risparmio e dei tagli hanno cancellato molte di queste opportunità.
Associazioni di operatori, di utenti, di familiari, di società scientifiche
Già nella prima edizione del libro, si dava parzialmente conto dell’esistenza e dell’evoluzione di numerose realtà associative, di carattere locale, regionale, nazionale ed europeo, soprattutto quelle relative alle comunità terapeutiche, ma non solo. Questo associazionismo, per lo più scaturito dal basso, ha permesso, su base esclusivamente volontaria, di alimentare il confronto e l’interfaccia tra le varie esperienze. Ha consentito non solo di apprendere dal lavoro comune, ma di redigere progetti di elaborazione dei dati di cui si era in possesso e di riflettere su possibili, ulteriori progettualità. Inoltre ha aperto possibilità di un maggiore confronto con i decisori politici a tutti i livelli. La necessità di mantenere un’interlocuzione costante con le rappresentanze politiche significa formarle sulle problematiche in atto e sensibilizzarle sugli interventi da prendere, accompagnando, all’occorrenza, il decision making nei diversi passaggi. Tutto questo è maggiormente realizzabile se, al contempo, l’opinione pubblica è stimolata dalla problematica, ne viene innanzitutto informata e sollecitata, suscitando un interesse che non può essere solo demandato ai fattacci che invece richiamano ripetutamente l’attenzione dei media, evocando riprovazione, rifiuto e «mano forte» per risolvere lo scandalo. Si rende necessario, per l’associazionismo, un forte investimento sulla comunicazione e sulla narrazione del lavoro che si sta compiendo da parte delle comunità terapeutiche e di tutto il sistema dei servizi.
L’inaspettato successo di Sanpa realizzato da Netflix ha ribadito quanto sia importante il racconto, ben documentato e sapientemente narrato, per riportare attenzione su temi da troppo tempo accantonati, per informare e formare su questioni difficili, contraddittorie e complesse, rispetto a cui tende a prevalere la rimozione o la ricerca di scorciatoie semplicistiche e illusoriamente rassicuranti. La comunicazione – ce lo si è detto tante volte – costituisce oggi un passaggio cruciale e rappresenta una sfida che non è più possibile eludere, pena il parziale dissolvimento e la perdita di riverbero della significatività sociale di quanto faticosamente si costruisce ogni giorno. Ed è anche su questo nodo che l’associazionismo delle comunità terapeutiche e dei tanti altri servizi coinvolti è chiamato a operare.
1 La riflessione sulle innovazioni e ricerca in comunità terapeutica è stata portata avanti in Italia in particolare da Mauro Cibin anche in relazione all’esperienza da lui condotta a Villa Soranzo.
2 Le ultime ricerche condotte dalle comunità sugli esiti dei propri trattamenti, di cui si è a conoscenza, riguardano: 2020, La casa di Giano (
Tn
), Cascina Verde (
Mi
); 2019, Centro Soranzo (
Ve
); 2004, S’Aspru (
Ss
) e altre.
3 Ogni anno il
Cnca
si fa promotore, attraverso l’attivazione dei diversi coordinamenti regionali delle comunità terapeutiche e dei servizi del privato-sociale, della raccolta dei dati dell’utenza in carico, contribuendo ad ampliare i dati che confluiscono nella Relazione al Parlamento.
4 Il
Sind
(Sistema informativo dipendenze), in carico all’Istituto superiore di sanità, ha il compito di raccogliere i dati sui Servizi delle dipendenze provenienti dalle Regioni.
5 Da questo punto in poi, utilizzeremo per semplicità l’acronimo
Serd
(Servizi per le dipendenze), pur essendo consapevoli che per indicare i servizi territoriali che si occupano di addiction, vengono utilizzati altri nomi e altri acronimi (ad esempio, Servizi per le dipendenze patologiche, Dipartimenti per le dipendenze etc.).
6 Già a partire dalla fine degli anni Novanta, cessato il fenomeno del boom delle richieste, l’utenza delle comunità viene prevalentemente selezionata dai
Serd (
fino al 2014
denominati
Sert,
Servizi per le tossicodipendenze), che inviano, quando ci riescono, le situazioni più difficili e con cui fanno fatica a ottenere risultati con gli strumenti a loro disposizione.
7 Diverso sembra invece essere l’interesse – e relativi finanziamenti – mirato agli esiti di alcuni trattamenti più strettamente collegati a indicazioni che sortirebbero da alcune interpretazioni delle evidenze delle neuroscienze. Ci si riferisce al recente entusiasmo e agli investimenti di ricerca relativi alla Stimolazione Transcranica.
Prefazione alla prima edizione
di Luigi Ciotti
1. Nell’affrontare, come Gruppo Abele, il problema delle dipendenze cerchiamo, da sempre, di mettere al centro del nostro riflettere e del nostro fare la persona e non la sostanza. Abbiamo ben chiari la forza della chimica e il suo potere di condizionamento sulle scelte umane; e tuttavia continuiamo a ritenere che le persone che assumono sostanze non obbediscano unicamente alla sollecitazione e all’inseguimento del piacere, ma usino con costanza le «droghe», illegali e legali, perché in esse trovano anche un rifugio. Un rimedio a difficoltà delle quali spesso non sono neppure del tutto consapevoli, un benessere che va oltre la semplice e dirompente soddisfazione del momento.
All’inizio, la prima generazione dei consumatori fu catturata dalla curiosità e dalla trasgressione. In alcuni però, già si intravedeva un malessere, un disagio – come si cercò di sintetizzare in una formula poi divenuta ricorrente – che univa fragilità personali e relazionali, problemi familiari e sociali di diverso tipo, che in qualche modo alimentavano il ricorso all’effetto anestetico della sostanza. Quando poi, negli anni Sessanta, i giovani delusi dalla contestazione e dalla politica lasciarono il posto ai figli della grande immigrazione dal Sud al Nord Italia, la questione si complicò ulteriormente. A incrementare la diffusione del consumo di eroina furono soprattutto i più ribelli e difficili tra i giovani che, nelle periferie dormitorio delle grandi città, non si riconoscevano nel percorso di sacrificio dei loro genitori, e, attraverso comportamenti di rottura, mostravano la propria indisponibilità a realizzarne i sogni di promozione individuale e familiare. L’uso di sostanze psicoattive riguardava tutte le classi sociali, ma i suoi effetti distruttivi, ieri come oggi, colpivano più duramente le fasce e le persone maggiormente vulnerabili, meno attrezzate culturalmente e più socialmente esposte.
Fu allora che si tentò di dare risposte a un fenomeno sempre più drammatico e rispetto al quale gli strumenti a disposizione apparivano insufficienti, spuntati, a volte addirittura controproducenti. Fu una proposta di condivisione di vita e di progetti, un fare insieme comunità.
2. Il movimento delle comunità che accolgono persone tossicodipendenti ha espresso, soprattutto alle sue origini all’inizio degli anni Settanta in Italia, due esigenze strettamente legate. Da un lato il rifiuto della segregazione e della soluzione autoritaria (tipiche del manicomio e del carcere). Dall’altro, in positivo, il tentativo di sperimentare modalità alternative di intervento, che ponessero al centro una ricerca di senso per la propria esistenza.
Fu, da subito, il tentativo di tenere insieme la denuncia con la proposta. Se era doveroso smascherare il tabù della tossicodipendenza e squarciare il velo di ipocrisia che lo nascondeva, bisognava anche costruire percorsi credibili, efficaci, in grado di essere davvero di aiuto e di stimolare il cambiamento delle persone e dei loro comportamenti.
Accogliere, accompagnare, non abbandonare i consumatori di droghe al loro destino, provare a camminare insieme con loro almeno per un tratto di strada fu la scelta di molti gruppi e associazioni.
Si trattava di far convivere esperienze diverse, di condividere la lotta per affermare princìpi di giustizia e di uguaglianza, di impegnarsi per un cambiamento individuale e sociale, di mettere in gioco anche il proprio privato. Trovare le strade migliori per essere gruppo, per fare comunità, era allora tutto tranne che un fatto tecnico. Richiedeva una scelta di vita personale, era una proposta di coinvolgimento forte, rivolta ai giovani pronti a impegnarsi per e insieme agli altri e a quei loro coetanei in difficoltà che volevano tentare di riprendere in mano la propria esistenza.
La comunità per le persone tossicodipendenti, e la comunità terapeutica in particolare, è stata, fin dal principio, uno strumento delicato e controverso. Le difficoltà dei percorsi, il dato di realtà dei fallimenti e soprattutto la grande domanda sociale che si creò intorno a quelle esperienze ne condizionarono in parte l’evoluzione e aprirono di fatto, in Italia, un enorme cantiere di ricerca e sperimentazione. Fu un periodo fertile ma necessariamente confuso; nel tentativo di definirsi si forzarono talvolta le contrapposizioni; spesso, purtroppo, la competizione prevalse sulla collaborazione.
Fu inevitabile il rapporto con la politica: la «riabilitazione» non poteva prescindere dai diritti delle persone, dall’istituzione dei servizi, dall’offerta di opportunità di cura. E anche la politica fu ambivalente: oscillò tra i grandi progetti, che avevano come obiettivo l’integrazione degli apporti professionali e della ricerca scientifica col volontariato e l’impegno sociale, e operazioni di più piccolo cabotaggio, che potevano trasformare una questione dagli inevitabili risvolti sociali in rendite di posizione ideologiche ed elettorali.
Una comunità terapeutica può essere tutto e il contrario di tutto. Può essere una delle espressioni più alte in cui si organizzano e si esprimono un territorio e la società civile che lo abita, come può divenire, anche in poco tempo, un’istituzione totale, separata, avulsa dal contesto e senza controllo democratico al proprio interno. Può produrre importanti risultati sul piano del «recupero» e del reinserimento delle persone, o, al contrario, danni e sofferenze aggiuntive. Di certo, è più facile che essa funzioni quando non è lasciata sola e non pretende di «fare da sola».
Non basta fare comunità al proprio interno, bisogna saper creare legami anche col territorio, imparare a fare rete. Si tratta di mettere a disposizione le proprie risorse, e non solo richiedere quelle altrui. Si tratta di animare e farsi animare dalla comunità circostante.
3. Il lavoro di Maurizio e Leopoldo cerca di fare il punto sul metodo, che è la questione centrale nel fare comunità: materia tanto complessa quanto delicata. Il metodo scientifico, infatti, si contamina con le pratiche umane, le relazioni, le emozioni. Può trovare in esse sinergie come resistenze, formidabili alleanze come ostacoli insuperabili.
Negli anni si è fatta esperienza, ma nello stesso tempo i cambiamenti del contesto si sono susseguiti a grande velocità e quello che ieri valeva e sembrava finalmente funzionare, oggi, di fronte a nuove situazioni e a nuovi bisogni, sembra divenuto inefficace. In questo campo, aperto a tante interferenze, la ricerca è davvero difficile.
Il tentativo del libro è di mettere un po’ di ordine, di fissare qualche punto fermo, per dare respiro al fare e continuare a ricercare.
Orizzonte comune di questo impegno culturale, di quello di ricerca e di quello sul campo – o meglio, come ci piace dire al Gruppo Abele, sulla strada –, è il tentativo di alimentare la speranza. Il cammino di questi anni – del quale l’esperienza delle comunità rappresenta una parte, ma una parte fondamentale – è stato capace di dare speranza a tante persone. È stato un cammino nel segno del noi, che ha voluto richiamare ciascuno alle proprie responsabilità: le persone che abbiamo accolto, le loro famiglie, il contesto sociale, le istituzioni. È stato, per noi e per coloro con cui l’abbiamo condiviso, un cammino di liberazione: dalle fatiche, dalle forme di dipendenza, dalle paure e dai pregiudizi ad esse legati. Molte delle storie che abbiamo incontrato hanno ritrovato libertà, dignità e senso, altre no, e su questo non smettiamo di interrogarci. Anche per loro, il cammino continua.
Parte prima
La storia e le lezioni apprese
Il consumo e la dipendenza di e da sostanze psicoattive illegali è un fenomeno che prende corpo in Italia nella seconda metà degli anni Sessanta, quale effetto secondario del boom economico del periodo precedente e del nuovo benessere materiale a seguito della ricostruzione del dopoguerra. Negli
Usa
e nel Nord Europa il fenomeno è anticipato di una decina d’anni.
La prima vera e propria legge organica sul contrasto dei consumi e dei problemi droga-correlati in Italia venne approvata nel 1975 e prevedeva, tra l’altro, anche l’apertura di servizi specifici di trattamento. Prima di allora, i tentativi – ingenui, provvisori, sperimentali – erano calati in un contesto legislativo per il quale i consumatori non erano persone in difficoltà, ma viziosi e delinquenti. Tra le strade tentate in attesa della nuova legge, c’era la comunità terapeutica.
Nel Regno Unito (specialmente in Inghilterra) e nel Nord America (
Usa
e Canada) la comunità era già stata sperimentata e alcune realtà di quello che poi divenne il modello italiano inizialmente vi si ispirarono. L’Italia è ancora oggi il Paese al mondo che annovera il maggior numero di comunità terapeutiche. Sono il risultato sia di iniziative spontanee, sia di un Sistema sanitario nazionale che le ha valorizzate e sostenute attraverso una funzione di regia, di accreditamento e di finanziamento economico.
In questi anni di attività, le comunità terapeutiche non si sono solo sviluppate, ma anche modificate, in sintonia con il cambiamento del fenomeno, con le nuove evidenze scientifiche acquisite sui trattamenti delle persone dipendenti e con i mutamenti avvenuti nel più complessivo sistema dei servizi sanitari e sociali. Questi anni hanno visto l’avvio di un processo di ricerca per tentativi ed errori in cui molto si è imparato; le comunità, quelle terapeutiche in particolare, hanno ridefinito obiettivi, metodi e strumenti di lavoro a fronte di un’utenza che mutava anch’essa, continuamente e rapidamente.
Questa prima parte del volume cerca di descrivere quanto è avvenuto negli anni, facendo riferimento alle principali realtà che hanno assunto particolare rilevanza, soprattutto nel contesto nazionale. Il tentativo, sintetico e inevitabilmente arbitrario, di ricostruzione storica e di scelta di questa o quella esperienza non rende sicuramente giustizia di tutte le realtà che più silenziosamente, senza clamore, hanno operato e continuano a operare. Sono soprattutto piccole entità, ma non minori, per le quali, pur non essendo possibile citare la storia e le caratteristiche dell’organizzazione, si deve mantenere rispetto e attenzione.
I. Storia e preistoria
della comunità terapeutica
La comunità terapeutica per persone tossicodipendenti, così come oggi è configurata pur nelle sue molte varianti, è il risultato di una lunga serie di apporti e sperimentazioni, che hanno radici lontane nel tempo e percorrono una storia di ormai quasi un secolo. Inizialmente lo strumento della residenzialità è stato pensato e predisposto per persone con problematiche psichiatriche e per adolescenti «difficili e in difficoltà» e successivamente adattato ai consumatori di sostanze psicoattive legali e illegali.
1. Gli antecedenti culturali e storici
È frequente che l’origine delle comunità terapeutiche per dipendenti da sostanze stupefacenti si faccia risalire al lavoro pionieristico e antesignano di Maxwell Jones all’interno del movimento britannico per una riforma e un rinnovamento dell’intervento psichiatrico. Ancora prima, verso i primi anni Venti del XX secolo, lo psichiatra Harry Stack Sullivan, negli Usa, aveva iniziato a riflettere e a sperimentare la cosiddetta Milieau Therapy¹, un approccio che rivolgeva interesse e intervento all’ambito familiare e sociale in cui i pazienti psichiatrici vivevano. Jones, immerso nella fase di ripensamento della psichiatria nel Regno Unito, nel 1952 organizzò la prima vera comunità terapeutica, basata su un concetto veramente rivoluzionario: i pazienti dovevano (e potevano) partecipare direttamente alla gestione della collettività e, quindi, alla loro stessa cura. La partecipazione alle attività fu considerata come un importante elemento terapeutico.
A ben vedere, tuttavia, le potenzialità di una comunità di soggetti portatori di disagio, organizzata e gestita per affrontare problemi di comportamento, sociali e psicologici in genere, avevano marcato una tappa importante addirittura agli inizi del XX secolo. Sempre in Gran Bretagna, prima della Grande guerra, si erano gettate le basi per affrontare in maniera innovativa l’emergente problema dei minori cosiddetti deprivati emozionalmente. Testimonianza di una sensibilità nuova all’affettività nella crescita psicologica dei bambini, questa attenzione si focalizzava nell’importanza di una risposta correttiva a situazioni in cui i bambini e gli adolescenti sviluppavano sintomi e comportamenti problematici a causa di un ambiente che non riusciva a dare sufficiente supporto, attenzione, protezione, interesse per la loro vita emotiva.
Il contesto storico-professionale affondava le sue radici nel periodo addirittura precedente, quando alla fine del XIX secolo si era sviluppata l’esigenza di una profonda revisione degli approcci tradizionali (principalmente custodialistici e repressivi) verso i minori in difficoltà. Sul versante teoretico, si faceva strada la cosiddetta pedagogia funzionale (siamo nell’epoca del sorgere della pedagogia stessa e della psicologia), che ruotava attorno all’esigenza di adattare l’insegnamento e in generale la scuola alle esigenze specifiche e progressive del bambino e dell’adolescente, non più visto come un «adulto imperfetto» ma come soggetto in evoluzione e, quindi, bisognoso di interventi e relazioni speciali.
L’obiettivo era quello di un recupero personale, sociale ed emozionale di soggetti minori, appunto. La cornice era quella dello sviluppo dei servizi sociali e della nuova sensibilità per i disagi psicologici e sociali degli adolescenti.
La comunità terapeutica divenne, così, uno strumento eccezionale per affrontare questi aspetti, attraverso una rieducazione a funzioni individuali, familiari e sociali più adeguate. Un luogo che permetteva ai soggetti di apprendere strumenti consoni, di riconoscere le emozioni e di vivere in un ambiente sano e accogliente (la cosiddetta educazione terapeutica). Nel periodo a cavallo tra le due guerre mondiali le comunità terapeutiche per minori aumentarono considerevolmente di numero, potendo anche contare sull’influenza del pensiero di Freud, Jung, Reich e Adler.
Il disagio veniva sempre più visto come un prodotto di fattori sociali, accompagnati da profondi problemi emozionali. Poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, Maxwell Jones iniziò a mettere mano a un’intensa riorganizzazione delle strutture ospedaliere per malati mentali e ipotizzò la nascita di strutture comunitarie per questi pazienti. Nacquero, così, i «club socioterapeutici»², un’alternativa alle istituzioni psichiatriche tradizionali, che saranno anche la base teorica e clinica per lo sviluppo successivo dei gruppi di autoaiuto e per l’esperienza di Vladimir Hudolin nel campo dell’alcolismo.
Dopo il conflitto, sempre e soprattutto nel Regno Unito, il disagio venne percepito come una sorta di emergenza nazionale, a causa delle condizioni psicologiche e sociali dei soldati che rientravano da una guerra drammatica e anche per le terribili situazioni vissute da chi era rimasto a casa: mogli, vedove e figli orfani, tra l’altro. Ancora, quindi, la comunità terapeutica si affermò come metodo efficace per queste problematiche. I problemi comportamentali, legati agli stress post traumatici da guerra, suggerirono un approccio che consolidava le comunità terapeutiche per i disagi psichici e sociali.
Il termine «comunità terapeutica» iniziò a essere usato sempre più spesso, identificando strutture i cui programmi riconoscevano l’importanza dell’ambiente nella sua totalità e si basavano su una sorta di «democrazia guidata» (centrata sulla partecipazione del paziente alla vita e alle attività della comunità, sul gruppo come elemento motore generale, ma senza annullare il contributo specialistico e professionale degli operatori). Divenne rilevante, infine, l’accento posto sulla qualità della relazione tra operatore e paziente.
Nello stesso filone, è riconoscibile e assai importante il contributo di Bion, Richman e Foulkes con i Northfield Esperiments (1942-1948), ospedali psichiatrici trasformati in comunità per reduci di guerra, in cui si applicavano teorie e pratiche cliniche basate sulla psicoterapia del «qui e ora», della terapia di gruppo e dell’interesse per il contesto di provenienza e di vita dei pazienti. Anche nell’esperienza di Northfield si riconoscevano tutti gli elementi di