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Comunità e democrazia nei quartieri
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E-book251 pagine4 ore

Comunità e democrazia nei quartieri

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Info su questo ebook

Cosa succederebbe se le politiche sociali cominciassero a interessarsi all'intera comunità a partire dai quartieri? Cosa accadrebbe se alla logica dell'emergenza si sostituisse un approccio quotidiano alle problematiche? E come cambierebbe il modo di affrontare il disagio sociale se a uno sguardo specialistico si aggiungesse uno sguardo globale? Come cambierebbe lo stesso modo di vivere la comunità e di gestire i quartieri? "Comunità e democrazia nei quartieri" risponde a queste domande facendo propria una nuova visione di welfare che, partendo dal basso, punti a coinvolgere tutte le dimensioni della vita delle persone. Sulla base dell'esperienza maturata nel concreto sviluppo di comunità viene proposto un nuovo paradigma dialogico-relazionale in grado di farsi carico degli aspetti più essenziali della società ma capace anche, in questo modo, di incidere più profondamente sulla dimensione politica della stessa.


Stefano Sarzi Sartori
Sposato e padre di tre figli, è nato in un piccolo centro della bassa bresciana ed è laureato in Lettere Moderne. Nel 1991 inizia il suo percorso professionale in una casa editrice specializzata in scienze dell’educazione e scuola. Questo lavoro sarà come una finestra sui diversi saperi che incrociano l’esperienza umana, e in particolare la sua. Per rimetterli in gioco generativamente costituisce con alcuni amici un’associazione familiare che diventa la palestra con cui sperimentare forme nuove di connessione tra famiglie, comunità e servizi nei contesti comunali. Gradualmente questa attività di volontariato matura in lui una competenza specifica che lo porta ad assumere una autonoma veste professionale. Dal 2005 vive a Trento e collabora con amministrazioni ed enti, privati e pubblici, nel campo dello sviluppo di comunità, della mediazione di comunità e dei processi partecipativi in genere, utilizzando come strumenti la ricerca, la formazione, la progettazione e la consulenza. Chi volesse dialogare con lui sui temi di questo contributo è sollecitato a farlo utilizzando la casella mail comunita.democrazia@gmail.com.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita23 gen 2024
ISBN9791222499055
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    Anteprima del libro

    Comunità e democrazia nei quartieri - Stefano Sarzi Sartori

    Prefazione

    È difficile immaginare in Europa questioni più attuali della democrazia e del dialogo nelle comunità. Nell’era della rivoluzione mediale l’enorme numero di migranti non solo ha portato alla luce nuove sfide per l’integrazione della società, ma ne ha anche riproposte di vecchie. Chi siamo «noi», chi sono «loro» e chi fa parte di «noi»? Qual è la verità delle cose? A chi credere e a cosa credere nel travolgente flusso di informazioni disponibili e condivisibili con un semplice click da un qualsiasi strumento tecnologico? In tutta Europa la gente pone delle richieste e si mette in ascolto soltanto di chi è già d’accordo. Al posto del dialogo c’è una cacofonia di monologhi rumorosi. È forse già finito il momento dei dialoghi fondati sul rispetto? Possiamo quindi solo scegliere tra due alternative: quella giusta e quella sbagliata? A mio avviso in questo momento non si è ancora iniziato a dialogare a livello di sistema. Tuttavia, fortunatamente, si stanno sviluppando apprezzabili esperienze e sperimentazioni che tentano di unire le persone per trovare soluzioni comuni e strutturali, al fine di generare benessere per tutti. I pazienti e accurati processi di sviluppo locale che Stefano Sarzi Sartori descrive e discute in questo libro riguardano proprio questa fiducia

    e questa speranza.

    Il filosofo e politico statunitense John Dewey vedeva nel dialogo il cuore della democrazia, con un occhio di riguardo in particolare alla democrazia come stile di vita. Pensando alla democrazia si tende a circoscriverla nella sua interpretazione restrittiva come un sistema politico rappresen tativo che implica diritto di voto, rappresentanti eletti e governi a breve mandato. Per quanto importante sia questa forma di stato, la semplice formula non soddisfa da sola la necessità di integrare l’esperienza e avere un impatto sulle condizioni di vita di ciascuno. Dewey osservò come nella società moderna e nel flusso ininterrotto di informazioni fosse sempre più difficile per i cittadini trovare un senso alla propria esperienza di vita e un ruolo nei cambiamenti che li riguardavano. Non riuscendo più ad avere un impatto sul proprio destino, le persone diventano passive, sentendosi sempre più guidate e controllate dall’esterno. La società moderna analizzata da Dewey si riferiva agli Stati Uniti in rapida industrializzazione degli anni Venti. Il suo famoso trattato The Public and its Problems venne pubblicato nel 1927.

    Pensiamo alle sfide che ci attendono oggi e che riguardano l’integrazione di esperienze frammentate, l’orientarsi tra informazioni contrastanti, il tentativo di avere un impatto sul proprio essere nel mondo globalizzato e postmoderno, a novant’anni dalle osservazioni di Dewey! Egli ha sottolineato l’importanza del «significato più ampio di democrazia, quello della democrazia partecipativa nelle comunità locali», per reintegrare le esperienze ed elaborare modalità di cooperazione per il benessere comune. La democrazia in senso lato è uno stile di vita, un modo di stare insieme, solo in senso restrittivo è un sistema politico elettorale. Abbiamo bisogno di entrambi i significati ma, come ha puntualizzato Dewey, «una mente democratica si sviluppa nelle interazioni personali e locali, nella partecipazione diretta». Oltre a questo l’interazione diretta e la partecipazione richiedono dialogo. Senza un’interazione personale le idee, secondo Dewey, diventano meri monologhi destinati a rimanere frammentari e incompleti.

    Ho avuto l’opportunità di conoscere il lavoro stimolante che Stefano ha iniziato a sviluppare a Trento e in altri centri della Provincia, avendo anche l’occasione di confrontarlo con le esperienze finlandesi. Ho notato con piacere che alcune pratiche che avevamo sviluppato in Finlandia erano state adottate anche a Trento e in altri luoghi d’Italia, evolvendosi e inserendosi nel nuovo contesto. Alla stessa maniera anche le esperienze italiane stanno arrivando fino in Finlandia. L’approccio finlandese è diverso rispetto a quello discusso in questo libro e tuttavia vi è un forte nucleo dialogico comune. Per circa trent’anni abbiamo sviluppato metodi e pratiche per il lavoro con gli utenti, attorno e all’interno di organizzazioni che si occupano di salute, welfare, educazione e simili, avendo a che fare con le complicate questioni del lavoro multiprofessionale e del coinvolgimento di più agenzie insieme. In Finlandia — come anche in Italia e nel resto del mondo industrializzato — i sistemi professionali di aiuto sono divisi in gruppi specializzati in cui si verificano spesso situazioni di confusione organizzativa. La vita quotidiana delle persone, nella sua integrità, viene sezionata sulla base di specializzazioni professionali che trattano queste parti separatamente come se esistessero così suddivise nella realtà. In molti casi, i vari professionisti che trattano un utente o una famiglia non sanno cosa stiano facendo gli altri professionisti e molto raramente conoscono davvero le condizioni di vita quotidiana dello stesso utente al di fuori delle loro diagnosi e dei loro programmi di trattamento. La risposta a tutto questo non risiede nell’organizzazione di più incontri tra professionisti o nella creazione di team multiprofessionali, almeno finché il mondo relazionale e le risorse quotidiane degli utenti non verranno messe al centro. Questo atteggiamento, a sua volta, esige di accogliere negli incontri le persone importanti nella vita degli individui e di rendere gli incontri più dialogici possibili. Si tratta con ciò di integrare esperienze frammentate e di progettare la cooperazione per il benessere comune a livello di persona, a livello locale e con la partecipazione diretta degli interessati. Questi dialoghi di rete orientati al lavoro con l’utente sono, in ultima analisi, pratiche democratiche in senso lato: modalità di partecipazione diretta per trovare insieme vie d’uscita a situazioni di smarrimento. In questo risiede il nocciolo comune con il lavoro di comunità che Stefano bene illustra in questo testo.

    Cosa dire poi rispetto al flusso di migranti e al conflitto esistente tra verità contrapposte?

    Nella vita sociale non esiste purtroppo il tasto reset. Non è possibile ricreare l’Italia o la Finlandia di cinque anni fa, nemmeno di cinque mesi fa. Come andare avanti quindi? Io penso che l’unica strada sia quella di non isolare le varie minoranze e di non assecondare i litigi tra le varie fazioni, dando ascolto soltanto a coloro con cui si concorda. Al contrario è fondamentale sviluppare dialoghi diretti nei contesti locali, nei vicinati, nelle scuole, nelle associazioni, nelle comunità, promuovendo, generando vari luoghi e terreni di incontro tra persone, nelle modalità che questo testo descrive e discute perfettamente.

    Tom Erik Arnkil

    ( Ricercatore e Professore emerito, Helsinki, Finlandia)

    Introduzione

    Il presente lavoro è il frutto di quasi vent’anni di esperienza nel campo del cosiddetto sviluppo di comunità. Anni in cui è venuta maturando una proposta strutturata di lavoro sufficientemente originale da farci ritenere interessante la sua trasposizione scritta. Questo studio non intende essere qualcosa di conclusivo, anzi: è dichiaratamente aperto a integrazioni, rettifiche e osservazioni. In questa introduzione e nel primo capitolo tenteremo di dare un fondamento a questa proposta, illustrando la prospettiva di fondo che la caratterizza. Nel secondo capitolo ne approfondiremo i cardini concettuali, passando negli ultimi due capitoli alla parte più metodologica e operativa nella quale illustreremo le fasi, gli strumenti e le competenze che sorreggono concretamente la nostra ipotesi di lavoro.

    Il welfare europeo, storicamente improntato all’equità, è posto, ormai da diversi anni, di fronte a una scelta ineludibile: recuperare la responsabilità sociale dal basso e innestarsi su essa per costruire e fornire servizi e prestazioni. Eludere questa prospettiva significa imboccare una strada estremamente rischiosa. Una crescente complessità, unita ultimamente a una crisi economica senza precedenti, sta infatti rendendo insostenibile il suo compito nella logica di servizio universalistico che lo ha sempre caratterizzato.

    Sotto la bandiera di un riscoperto principio, quello della «sussidiarietà», già a cavallo degli anni Novanta si è assistito a una forte spinta al cambiamento, teoricamente ispirata a un rapporto di sostenibilità tra bisogno e risposta al bisogno. Purtroppo quella spinta si è esaurita, di fatto, in un semplice passaggio di consegne dal pubblico al privato. Poco cambiava dal punto di vista della logica con cui i servizi venivano erogati: la logica assistenzialista non muta infatti se un servizio è offerto da un ente privato piuttosto che da uno pubblico. Per un certo periodo c’è stata un’attenuazione del trend di crescita dei costi del welfare ma nel tempo questa attenuazione si è rivelata insufficiente: il passaggio dal pubblico al privato, oltre a non garantire automaticamente maggiore qualità, non garantisce nemmeno minori costi soprattutto in relazione a una domanda che non smette di crescere per qualità e quantità.

    Così oggi il problema si ripropone intatto, appesantito anzi da una grave crisi economica che ne rende ancora più urgente una soluzione. E tuttavia, pur in questa condizione, non ci sembra di cogliere oggi una spinta al cambiamento paragonabile a quella degli anni Novanta. Diversi consorzi di cooperative denunciano apertamente, in effetti, la crisi dei valori e dei principi che ispirarono l’esperienza cooperativa. La crisi oggi colpisce tanto il mondo delle cooperative quanto tutti gli altri soggetti del sistema, senza che nessuno sia in grado di portare una proposta forte ma soprattutto percorribile per l’intero sistema che appare perciò in sofferenza.

    Il sistema di welfare si è inizialmente fondato sulla pretesa che lo Stato potesse rispondere a tutti i bisogni dei cittadini. La visione liberista si è poi opposta a questo statalismo con l’illusione che un semplice «cambio di casacca» (dal pubblico appunto al privato) potesse risolvere i problemi connessi alla gestione del welfare. Oggi ambedue i punti di vista appaiono perdenti. Il cambio di rotta, oggi, sembra configurarsi come una terza via in cui non conta tanto «chi» eroga il servizio quanto piuttosto «come» questo venga erogato. In questo «come» sta tuttavia la sostanza di un cambiamento che non tocca solo questioni tecniche relative all’erogazione dei servizi ma attiene anche a cambiamenti più profondi. È ciò che in questo contributo cercheremo di sviscerare e argomentare.

    In effetti è proprio dalla nostra esperienza di impegno sul campo che si sono colte la necessità e il profilo stesso del cambiamento come qualcosa di profondo e per nulla riconducibile a un mero «passaggio di consegne» tra erogatori di servizi. Molti addetti ai lavori oggi percepiscono la necessità del cambiamento nonostante questa parola faccia, come sempre, paura, anche perché in questa situazione non se ne vedono con chiarezza il senso, la direzione e neppure la regia.

    Un problema di metodo

    In questa sorta di paralisi generale si coglie dunque un primo grande problema che esula dai contenuti specifici di qualunque riforma o cambiamento immaginato. Viviamo infatti in un periodo in cui un po’ tutti, in diversi ambiti (pensiamo alla scuola, al lavoro, alla sanità, ecc.), invocano delle riforme. Se ne parla, se ne discute, si elaborano proposte, per poi giungere (quando ci si riesce) a riforme di scarsa o dubbia consistenza che non funzionano o funzionano male, spesso perché calate dall’alto senza il coinvolgimento degli attori effettivi e principali. Le riforme attuali, poi, sembrano in generale ispirate e dettate più dalla necessità di risparmio economico che non da un desiderio di miglioramento. In tutto questo, a prescindere dai contenuti, si rileva un enorme problema di metodo relativo al processo riformatore, che vorremmo sintetizzare in due punti.

    Di fronte alla complessità e alla rapidità dei cambiamenti che caratterizzano la nostra epoca (condizione che non si attenuerà per il futuro) è ormai velleitario immaginare riforme che possano reggere tempi più lunghi di cinque anni. Se questi sono anche i tempi istituzionali necessari per introdurre le riforme, si capisce come queste, tutte o in parte, rischino di arrivare all’implementazione già «vecchie», superate dai cambiamenti in atto nella realtà.

    Se la realtà, poi, è caratterizzata da complessità e cambiamenti continui, non si può non partire, per qualsivoglia movimento di riforma, dall’effettiva e attenta considerazione dei contesti e dei soggetti reali che vivono nelle singole realtà. Non si tratta semplicemente di riformare dal basso (un punto di vista che potrebbe far sembrare superflua l’interazione con altri soggetti istituzionali o amministrativi) ma di riformare con il basso.

    Occorre dunque immaginare uno «status» strutturale di (micro) «riforma permanente» (connessa strutturalmente al macro) che abbia minori pretese di longevità e maggiori di efficacia. Questo status permanente di riforma deve essere strutturalmente connesso con il basso per costruire una circolarità di rapporto continua tra up e bottom. Non si può più immaginare un processo di riforma che sia «una tantum» (le grandi riforme) e che coinvolga solo i vertici — sia quelli politici, sia quelli accademici o delle altre categorie professionali interessate. Questa tradizionale modalità di muovere il cambiamento, praticata non solo a livello nazionale ma anche locale, si rivela sempre più inefficace, anche quando tenta di veicolare novità assolutamente positive.

    La prima riforma è dunque a nostro avviso innanzitutto di metodo: come si intendono approcciare e stimolare nei tempi odierni la realtà e la sua trasformazione? Il tema è cruciale nella prospettiva di lavoro qui proposta proprio perché essa intende prospettare una modalità nuova di riconnessione generativa tra i diversi livelli della vita socioistituzionale: da quello della cittadinanza, al livello politico-istituzionale, passando attraverso la realtà dei servizi e dei corpi intermedi.

    Nel cosiddetto «sviluppo di comunità» sono insite, in particolare nel termine comunità, due dimensioni spesso trascurate da chi svolge azioni in questa direzione: la dimensione politica e quella di sistema o istituzionale. Con questa trascuratezza si accredita una separazione tra sociale e politico-istituzionale che si sta oggi rivelando nefasta. Recuperare queste dimensioni ci pare invece fondamentale non solo per ragioni di ordine sociale e politico, ma anche per dare corpo effettivo allo stesso sviluppo di comunità. Questa prospettiva di lavoro, infatti, produce appieno i suoi effetti solo se sostanzialmente innestata sulla dimensione politica e di sistema. Dimensione politico-istituzionale e dimensione sociale sono infatti come le due gambe di uno stesso corpo, indispensabili perché il corpo si muova e funzioni. Tutto ciò fa da sfondo alla nostra proposta di lavoro e ci introduce alla prospettiva di cambiamento a essa sottesa che cercheremo, nel corso del primo capitolo, di visualizzare attraverso l’utilizzo di una metafora.

    Quale comunità?

    Ci pare tuttavia prioritariamente necessaria ancora una puntualizzazione riguardo al termine «comunità» che, in effetti, porta con sé significati diversi e controversi. Entreremo perciò rapidamente nel merito, per chiarire in che modo utilizzeremo tale termine nella nostra prospettiva.

    Le analisi sul concetto e sulla realtà definite col termine «comunità» in epoca moderna partono dai primi anni Sessanta 1 per giungere in anni recenti a Zygmunt Bauman, il sociologo che più di tutti ne ha analizzato il significato. Si tratta di analisi molto interessanti condotte da un punto di vista essenzialmente sociologico. Non si vuole in questa sede riprendere il loro contenuto, ma solo riferirsi genericamente a esse per sottolineare alcuni aspetti relativi al nostro utilizzo del termine «comunità».

    La comunità è sociologicamente un insieme di persone accomunate da alcuni elementi caratteristici che ne definiscono perciò una particolare identità. Facilmente il termine comunità viene perciò associato al termine identità. Il sociologo britannico Jock Young nota anzi che «nel momento in cui crolla la comunità viene inventata la nozione di identità» (Young, 1999; Bauman 2003b, p. 16). Lo stesso Bauman, subito dopo aver citato l’acuta osservazione di Young, definisce l’identità stessa come una sorta di «surrogato della comunità». Senza voler approfondire il senso di queste affermazioni ci interessa qui sottolineare il nesso già colto da illustri studiosi tra comunità, appartenenza e identità.

    Le analisi condotte in particolare da Bauman evidenziano la profonda nostalgia dell’uomo verso la comunità, percepita come qualcosa di caldo, rassicurante, stabile, definito, riconoscibile e dai confini chiusi. Ma si tratterebbe comunque di un ideale utopico, che si è prodotto storicamente in tempi passati solo come fenomeno irriflesso e naturale in un mondo fatto di contesti piccoli e sostanzialmente chiusi. Dunque, come altri studiosi, Bauman sottolinea l’impossibilità oggettiva di ricondursi ex novo e artificialmente a una realtà di comunità come quella passata, tanto meno in una situazione storica segnata da fenomeni come quello della globalizzazione (che per ultimo ha contribuito alla rottura di quei confini tipici delle comunità).

    La lucida e amara analisi di questi sociologi sembrerebbe tarpare le ali alla possibilità stessa di parlare di comunità. Tuttavia, ci pare di poter affermare che la negazione è relativa a un certo tipo di comunità che oggi effettivamente non può più esistere. In questa nostra prospettiva non si intende parlare di comunità come di un’entità definita, riferibile a una precisa identità sociale. Siamo d’accordo: una comunità così pensata, se mai è esistita, oggi non esiste più né potrà più esistere. L’obiettivo della nostra ipotesi di lavoro non è quindi quello di creare un’entità definita chiamata comunità: essa, lungi dall’essere obiettivo, è piuttosto un orizzonte del lavoro qui proposto o un esito aperto, continuamente in divenire. Il termine, in questo senso, ci pare ancora l’unico in grado comunque di rendere semanticamente visibile un orizzonte fondamentale nella vita del singolo e della collettività umana. Il concetto di comunità non è quindi neppure un contenitore nel quale inserire contenuti. La comunità come insieme di persone non ha una connotazione specifica di contenuto: l’insieme si dà per quello che è. Il suo essere concetto così rassicurante per l’interiorità umana dipende però dalla qualità di due elementi che la caratterizzano e che rappresentano (questo sì) il cardine del nostro lavoro:

    la qualità delle relazioni interne al microcontesto (rapporti di prossimità tra le persone);

    la qualità delle relazioni delle persone con il contesto (inteso come contesto innanzitutto urbano-territoriale).

    Il dipendere da questi due elementi rende sia il concetto di comunità sia il concetto di identità — a esso strettamente connesso — non definibili a priori. Essi si ridefiniscono continuamente nella dinamica delle relazioni tra le persone e tra le persone e il contesto.

    Per esserci la comunità non ha bisogno di riflettersi o pensarsi in quanto tale. La si può definire da uno sguardo esterno e dall’analisi delle sue caratteristiche in rapporto ai due elementi qui evidenziati.

    Il bisogno costitutivo che ogni essere umano avverte dentro di sé è innanzitutto un bisogno di relazioni. La relazionalità è costitutiva del nostro essere e sono le relazioni che nel tempo costruiscono la personalità, il carattere e, in ultima analisi, l’identità di ogni persona (nel bene e nel male). 2 Il processo di graduale e continuo strutturarsi dell’identità di ogni persona si configura come un movimento dialogico interiore: costruiamo continuamente la nostra storia e la nostra identità peculiari, introiettando elementi o aspetti delle persone e dei contesti con cui ci relazioniamo. Con ciò noi costruiamo (o contribuiamo a costruire) contemporaneamente le identità degli altri e le identità collettive (nei contesti in cui viviamo) che diventano nel tempo «culture di appartenenza». Nel presente lavoro il termine «comunità» identifica dunque genericamente (non concettualizza) tali identità collettive. Molte delle cosiddette culture di contesto si sono definite in archi di tempo lunghissimi, costruendo attorno a sé «confini statutari» forti ma non per questo codificati. Tali culture sono imponenti contenitori all’interno dei quali le persone definiscono, nel tempo e spesso in modo inconsapevole, la propria identità (può trattarsi anche dell’identità professionale, pensiamo, ad esempio, all’insegnante che

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