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Melkitsedek: Il mistero di una figura biblica
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E-book191 pagine2 ore

Melkitsedek: Il mistero di una figura biblica

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Il personaggio di Melkitsedek è uno dei più enigmatici fra quanti ne presenta la Bibbia. Menzionato solamente tre volte, tuttavia mostra di avere un rapporto particolarissimo con Abramo, il fondatore della tradizione israelitica, con il re Davide e con il Cristo. Presentato come il re di Salem e il sacerdote dell’Altissimo, Melkitsedek copre già agli inizi della storia della salvezza una funzione spirituale molto importante che non può essere confinata in quella di un insignificante reuccio dei primordi. Al contrario, assume un ruolo e una funzione universale che gli ha consentito di orientare prima la tradizione abramica, poi la strutturazione spirituale del mondo israelitico operata dal re Davide e, infine, di essere considerato il typus dello stesso Cristo, il Messia annunciato dalle tante profezie.
LinguaItaliano
Data di uscita8 set 2022
ISBN9788865804261
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    Anteprima del libro

    Melkitsedek - Nuccio D'Anna

    Melkitsedek_copertina.jpg

    L’isola

    16

    Nuccio D’Anna

    Melkitsedek

    Il mistero di una figura biblica

    Il leone verde

    In copertina: Dieric Bouts, Incontro tra il Patriarca Abramo e Melkitsedek, 1464–67.

    ISBN: 978-88-6580-426-1

    © 2014

    Edizioni Il leone verde

    Via Santa Chiara 30bis, Torino

    Tel 011 52.11.790

    info@leoneverde.it

    www.leoneverde.it

    Volgi sulla nostra offerta

    il Tuo sguardo sereno e benigno,

    come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto,

    il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede,

    e l’oblazione pura e santa di Melkitsedek,

    Tuo sommo sacerdote.

    1a Anamnesi della Messa

    Introduzione

    La figura di Melkitsedek si trova menzionata nell’Antico Testamento solamente nel Genesi (14, 18-20) e nel Salmo CX (v. 4). Nel canone neotestamentario, indirizzando ad una comunità cristiana la sua Epistola agli Ebrei (7, 1-18), anche San Paolo si sofferma sul significato ontologico di questo straordinario personaggio con un’ampia esegesi che per molti aspetti sembra persino rimodulare formule midrashiche. Melkitsedek ritorna ancora con mansioni particolari in un paio di rotoli scoperti a Qumrân, affiora in alcuni aspetti del simbolismo e delle speculazioni rabbiniche (Targum di Gerusalemme, Talmud di Babilonia, Targum della Biblioteca Vaticana, Midrash Rabba, ecc.), infine lo ritroviamo in vari scritti gnostici e in qualche rara opera dei primi Padri cristiani. Tuttavia, rispetto ai testi biblici tutte queste speculazioni presentano importanti variazioni che spesso ne cambiano la funzione, i riferimenti simbolici, il radicamento dottrinale e la stessa prospettiva complessiva.

    Gli elementi essenziali del sostrato spirituale che è stato sempre saldamente connesso con Melkitsedek vanno ricercati nello speciale radicamento dottrinale che ha alimentato la sua apparizione biblica e ne ha fatto senza alcuna incertezza "il re di Salem e il sacerdote dell’Altissimo. C’è una continuità profonda che lega il Melkitsedek re e sacerdote" del Genesi, la sua fugace menzione nel Salmo CX (concordemente considerato il più ricco di princìpi e dottrine messianico-regali) e l’articolata esegesi sul sacerdozio eterno fatta da San Paolo nella sua Epistola agli Ebrei. Né si può ritenere frutto di una pura casualità il fatto che la prima apparizione biblica di Melkitsedek ha comportato la missione tutta particolare di Abramo quale artefice del Patto di Alleanza con Dio; la seconda menzione ha toccato la funzione assiale della regalità di Davide, l’Unto del Signore che avrà il compito di edificare la Città Santa di Gerusalemme; e infine l’esegesi paolina ha indirizzato l’intero sostrato messianico emerso attraverso le precedenti apparizioni antico-testamentarie verso la figura di Gesù Cristo, il Sacerdote Universale. D’altronde, la presenza di Melkitsedek nella storia della spiritualità cristiana non è stata certo episodica e può farsi rientrare nell’ambito di quegli eccezionali personaggi che il p. Jean Daniélou ha definito non senza acume storiografico santi pagani dell’Antico Testamento. La sua importanza nella vita ecclesiale è testimoniata persino dall’elevazione agli onori degli altari di un San Melkitsedek celebrato il 26 luglio nel calendario liturgico armeno, il 26 agosto in quello della Chiesa Cattolica e l’8 settembre in quello etiope.

    E tuttavia, nonostante le continue menzioni Melkitsedek resta una figura enigmatica con una sua particolare storia che ha toccato ambienti culturali e spirituali diversissimi. Alois Dempf e Ernst Hartwig Kantorowicz hanno potuto documentare l’esistenza di una vera e propria religione regale che durante tutto il Medioevo si è richiamata costantemente a Melkitsedek, alle radici spirituali che ne hanno sostanziato l’importanza e al ruolo dottrinale sotteso dalla sua presenza nel Salmo CX. I loro studi li convincevano che il richiamo a Melkitsedek da parte di molti dottori e scrittori di teologia politica indicava una sorta di riferimento esemplare inteso a realizzare una organizzazione della società medievale fondata sulla centralità spirituale del sovrano e sulla sacralità della sua persona. Persino Dante fa fuggevolmente menzione di Melkitsedek e nel Paradiso (VIII, 125) lo raffigura come l’esempio tipico di colui che ha corrisposto felicemente agli influssi celesti che ne hanno indirizzato la specialissima vocazione sacerdotale. La sostanza umana è stata plasmata totalmente dall’essenza divina e perciò nella sua persona si è realizzata in pienezza la Volontà del Creatore. Ma il Medioevo ha visto anche la circolazione del De tribus impostoribus, uno strano libello attribuito dal papa Gregorio IX agli intrighi politici e alle mene anti-ecclesiali dell’imperatore Federico II e del suo cancelliere Pier delle Vigne. In realtà, gli elementi essenziali di questo racconto erano affiorati per la prima volta nel mondo culturale degli Ebrei di Spagna (poi nel XV secolo verranno trascritti nello Schévet Jehudà di Salomon ben Verga), ma li ritroviamo anche nel Li dis dou vrai aniel, nei Gesta Romanorum (cap. 89), nel Novellino (LXXIII), nell’Avventuroso Ciciliano (III, 5) di Bosone da Gubbio e con più dottrina, completezza e perizia narrativa nella celebre terza novella del Decameron di Giovanni Boccaccio. Dietro il velo di una divertente, ma feroce satira contro i falsi profeti Mosè, il Cristo e Maometto, veniva orgogliosamente rivendicato non uno sconsolato scetticismo, ma l’esistenza di un’unica tradizione spirituale rimasta sempre nascosta dietro queste forme esteriori rispetto alla quale le tre religioni di origine abramica si sarebbero configurate come semplici anelli di un’unica catena. E l’autore di questa straordinaria favola raccontata certo non casualmente al sultano Salah-ed-din (considerato dagli scrittori cristiani del tempo un autorevole rappresentante di quella cavalleria spirituale che attraversava senza distinzione alcuna il Cristianesimo e l’Islam), era un savio giudeo di nome Melkitsedek…

    L’intento del presente studio non è solamente quello di delineare i tratti di un interessante personaggio che, pur presente autorevolmente in alcuni momenti del canone liturgico, per tanti aspetti sembrerebbe essere rimasto comunque impenetrabile, ma essenzialmente quello di fare emergere l’ambientazione religiosa e la dimensione ontologica dalla quale è fuoruscito Melkitsedek, i suoi legami con la storia spirituale israelitica, il ruolo esemplare che ha avuto nella fondazione della monarchia sacra davidica e la portata universale delle sue apparizioni nei momenti epocali delle vicende di questo popolo e della sua specialissima tradizione spirituale. Solo dopo aver delineato il valore universale della sua presenza nell’Antico Testamento si potrà capire perché San Paolo si sia premurato di soffermarsi con inusuale ampiezza esegetica sul significato spirituale di un personaggio così enigmaticamente poco presente nella Bibbia tratteggiandolo come il Typus del sacerdote eterno che il Cristo incarnerà nella Sua stessa persona e proclamando senza dubbio alcuno la sua uguaglianza (aphōmoiōmenos) reale ed effettiva con il Figlio di Dio.

    Infine, in un capitolo specifico del libro si avrà cura di esaminare la portata teologica del personaggio di Melkitsedek quale appare in alcuni rotoli di Qumrân, nelle sette eterodosse, nelle correnti gnostiche e nel folklore. Si tratta di una variegata quantità di narrazioni che a volte mostrano rilevanti aperture dottrinali, ma che in massima parte fluiscono da una forma di cultura crepuscolare ormai definitivamente staccata dal radicamento rituale che l’aveva animata e spesso si presentano come pure sopravvivenze di cicli spirituali ormai spenti.

    I

    Melkitsedek

    I versetti di Gn 14, 18-20 così recitano: "Ora Melkitsedek¹, re di Salem, portò del pane e del vino; egli era sacerdote di El-Elyôn (l’Altissimo) e lo benedisse dicendo: "Benedetto Abramo² da El-Elyôn, creatore del cielo e della terra, e benedetto El-Elyôn che ha consegnato i tuoi nemici nelle tue mani. E Abramo gli diede la decima di tutto quello che aveva. Il brano è particolarmente sintetico e appare congegnato secondo una struttura narrativa che lo rende quasi completamente autonomo rispetto al racconto biblico nel quale è inserito e al quale intende dare significato³. Il primo problema tocca lo stesso nome del protagonista. Il termine Melkitsedek è un nome di persona considerato unanimemente un composto formato da mlky e ṣdq. Mlky si ritrova anche nei linguaggi cananei contemporanei al primo giudaismo ed ha una forte carica teoforica che esalta in modo precipuo il valore sacro della funzione regale assieme alla dimensione sovrana delle divinità con le quali il termine molto spesso si trova collegato⁴. Con il suffisso possessivo di prima persona -y il termine dà mlky, mio re, sicché se in Ger 21, 1 mlky continua a significare il mio re, in Zac 6, 11 e in 1Re 22, 11, 24 Yhṣdq assume invece il significato di Yhwh è Giustizia, Dio è Giustizia⁵, come nell’ugaritico Yhṣdq⁶ o nel fenicio Şdqmlk documentato a Karkemish.

    Anche il termine ṣdq, giustizia, attestato persino nel nome di quell’Adoniṣedek, re di Jébus, la cui grande coalizione cananea del Sud fu annientata dagli Israeliti sotto le mura di Gibeon (Gdc I, 4-7), viene usato con un valore teoforico identico a quello che si ritrova nell’onomastica amorrea del tempo della prima dinastia di Babilonia, come aveva cura di precisare Paul Dhorme sulla scorta dei paralleli Ahî-Şaduq, mio fratello è giusto, e Ammî-Şaduq, mio zio è giusto⁷. Come si vede, qui affiora con tutta evidenza una accentuazione particolare insistente sulla funzione della giustizia in quanto valore spirituale che qualifica in modo indelebile il personaggio e trae la propria ragion d’essere dal mondo divino. Volendo seguire le indicazioni di un attento biblista come André Neher che ritrova in ṣdq anche i significati di vittoria e di innocenza, in una mentalità arcaica permeata interamente dall’esperienza del sacro quale doveva essere necessariamente quella degli Israeliti dei primordi, la pratica di questa particolare forma di giustizia suppone una vera e propria vocazione religiosa che si estende sul piano dei princìpi primi e intende esaltare quella che André Neher chiamava l’innocenza di Dio (ossia l’armonia, l’equilibrio, la perfezione, la purezza immacolata, retta e giusta che sostanzia ogni Suo atto creativo) ed assicurare la vittoria divina in ogni aspetto del creato.

    Il nome di Melkitsedek sembrerebbe perciò significare il mio Re è Giustizia, un’espressione in grado di coniugare due appellativi, la regalità e la giustizia che, insieme, designano la funzione sovrana in quanto riflesso terreno di una delle qualificazioni più rilevanti che gli Israeliti di ogni tempo hanno attribuito a Dio: il reggimento, la conservazione e la custodia continua, ininterrotta, provvidenziale dell’immacolata armonia cosmica e della legge divina che ne ordina l’esistenza. Nel versetto che stiamo analizzando, proprio per il tipo speciale di sovranità che si configura nella persona di Melkitsedek, "re di Salem e sacerdote di El-Elyôn", l’attributo della giustizia così connaturato indissolubilmente con il suo stesso nome, non scaturisce affatto da una qualche forma di glorificazione del potere temporale o dalla sublimazione di una virtù morale che qui in realtà appare come un semplice esito dello status ontologico incarnato da Melkitsedek. Al contrario, è una qualità divina, un principio primo che si svela come un valore cosmico inteso ad assicurare stabilità ad un mondo che a causa delle leggi cicliche che ne regolano l’andamento, tende invece alla trasformazione e al divenire ed è per questo motivo che si trova a designare una delle funzioni fondamentali appartenenti in proprio al personaggio biblico.

    Il versetto di Gn 14, 19 addirittura precisa un aspetto di questa funzione sovrana quando afferma che è lo stesso "El-Elyôn che ha consegnato i tuoi nemici nelle tue mani. Questa particolare formulazione di una modalità dell’intervento diretto" del Dio Altissimo nella storia si ritroverà molte altre volte nel testo biblico secondo schemi particolari e in contesti parecchio diversificati, ma in sé precisa alcuni aspetti dell’azione della giustizia divina:

    1. l’eliminazione del disordine e del male dal regno di Melkitsedek considerato come l’immagine archetipica di un originario cosmo immacolato;

    2. la partecipazione divina nella lotta condotta da Israele contro i propri avversari percepiti come veicoli delle forze delle tenebre;

    3. la conduzione diretta da parte di Dio degli eserciti protagonisti di questo combattimento.

    Proprio per le speciali caratteristiche assunte, questa lotta contro le potenze delle tenebre non può essere altro che una guerra santa⁸ che tocca il modo stesso di concepire il significato storico del più antico Israele a partire dal suo ingresso nella Terra Promessa e presenta due aspetti fondamentali. Il primo riguarda la dimensione interiore e spirituale dei più antichi guerrieri israeliti che verrà coltivata anche nel prosieguo delle vicende storiche di queste popolazioni e prevedeva astinenze preparatorie, un rigido digiuno (1Sam 14, 24), continenza sessuale (1Sam 21, 6), un incantesimo-esorcismo (ḥērem) inteso a paralizzare i nemici e infine l’offerta sacrificale a Dio del bottino conquistato che in tal modo si trasfigura in una vera e propria oblazione rituale. Il secondo ne era in qualche modo l’aspetto esteriore e perciò intendeva garantire l’integrità dell’ordine cosmico contro l’assalto dei popoli ostili considerati sempre non nemici semplicemente umani, ma veicoli consapevoli dell’azione distruttrice e dissolvente condotta dalle potenze del caos. È la tipica prospettiva mitica presente anche in un gran numero di popoli antichi che spesso hanno considerato la guerra come un sacrificio sacro o un rituale di restaurazione cosmica, le popolazioni autoctone contro cui lottavano pure immagini del male o del disordine e i conquistatori in strumenti dell’ordine divino che assumono consapevolmente la funzione quasi demiurgica di convertire quel particolare territorio, dargli una nuova forma spirituale e ordinarlo attorno alla legge del Dio vittorioso.

    Come si può vedere, questo tipo di guerra santa ha una particolarità che evidenzia aspetti non presenti in altri contesti dottrinali o negli organismi guerrieri dei popoli confinanti. Qui non è il singolo guerriero o lo stesso eventuale re-divino che offre se stesso come vittima sacrificale per la vittoria del proprio schieramento, il trionfo dell’ordine sacro o l’esaltazione della giusta religione, come accade quasi sempre in altri contesti culturali, ma è lo stesso Dio che interviene nel combattimento proteggendo lo schieramento israelitico. È Dio che

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