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Gli antipapi. Storia e segreti
Gli antipapi. Storia e segreti
Gli antipapi. Storia e segreti
E-book548 pagine6 ore

Gli antipapi. Storia e segreti

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Info su questo ebook

La controstoria della Chiesa

Chi sono i rappresentanti del contropotere della Chiesa che governa da secoli all’ombra di San Pietro?

La storia della Chiesa è sempre stata complessa, difficile, contraddittoria.
Il suo grande protagonista – da san Pietro a papa Francesco – solitamente è il pontefice, somma autorità religiosa e per molti secoli anche politica e temporale. In realtà molte altre figure hanno determinato, nel corso di duemila anni, le intricate vicende del papato: cardinali, vescovi, santi, eretici, imperatori, chierici e laici. E tra questi anche gli “antipapi”, uomini che – individualmente o supportati da fazioni – non hanno accettato il pontefice eletto in via ufficiale e hanno dato vita a veri e propri scismi. Dai primi nebulosi inizi – quando il santo padre era solo vescovo di Roma e non aveva ancora l’universalità che avrebbe poi detenuto nei secoli a venire – fino al grande scisma, il volume racconta la storia dei quarantatré antipapi scelti secondo procedure non canoniche. Considerati degli usurpatori, per questo furono catturati, scomunicati, processati, imprigionati, uccisi. Alcuni fuggirono, altri si ritirarono in convento, altri ancora scomparvero semplicemente nel nulla. Fieri oppositori al papato ufficiale per motivi dottrinali e ideologici, oppure mere pedine mosse dal potere delle famiglie aristocratiche romane e degli imperatori, gli antipapi rivivono in queste pagine non più come comprimari, ma come veri protagonisti.

Fra i temi trattati:

I primi secoli del cristianesimo
Ippolito, Novaziano, Felice II, Ursino, Eulalio, Laurenzio, Dioscuro

L’alto Medioevo
Teodoro II, Pasquale, Teofilatto, Costantino II, Filippo, Giovanni VIII, Anastasio III

L’età ferrea del papato
Cristoforo, Dono II, Bonifacio VII, Giovanni XVI

I conflitti con l’impero
Gregorio VI, Benedetto X, Onorio II, Clemente III, Teodorico, Adalberto, Silvestro IV, Gregorio VIII, Anacleto II, Vittore IV, Vittore IV (V), Pasquale III, Callisto III, Innocenzo III

Il grande scisma
Niccolò V, Clemente VII, Benedetto XIII, Alessandro V, Giovanni XXIII,
Clemente VIII, Benedetto XIV (I), Benedetto XIV (II), Felice V, Benedetto XV

Uno sguardo sull’età contemporanea
Elena Percivaldi
milanese, è storica e saggista. Cura mostre e partecipa a convegni e seminari di studio in Italia e all’estero. È coordinatore scientifico di manifestazioni storico-rievocative e collabora con riviste specializzate, tra cui «Medioevo»; fa parte del Comitato scientifico della rivista «Medioevo Italiano». Autrice di vari libri, tra cui I Celti. Una civiltà europea, con la Newton Compton ha già pubblicato La vita segreta del Medioevo, finalista al Premio Italia Medievale 2014.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2014
ISBN9788854173347
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    Anteprima del libro

    Gli antipapi. Storia e segreti - Elena Percivaldi

    270

    Prima edizione ebook: ottobre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7334-7

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l.

    Elena Percivaldi

    Gli antipapi

    Storia e segreti

    Newton Compton editori

    Premessa

    La storia della Chiesa è sempre stata complessa, difficile, contraddittoria. E forse proprio per questo risulta così accattivante. Il suo grande protagonista, da Pietro a Francesco, è di solito il pontefice, che in quanto vicario di Cristo in terra, è somma autorità della religione cattolica e pastore della Chiesa universale. Da questa prospettiva, e attraverso il succedersi delle vicende umane e spirituali dei papi, questa storia è finora stata sempre narrata.

    In realtà molte altre figure hanno determinato, nel corso di duemila anni, le intricate vicende del papato: cardinali, vescovi, santi, eretici, imperatori, chierici e laici. E tra questi anche gli antipapi, uomini che – individualmente o sorretti da fazioni – in certe occasioni non hanno accettato il papa eletto in via ufficiale dall’assemblea dei cardinali e hanno dato vita a veri e propri scismi. Va detto che il termine antipapa non fu subito quello usato per indicare chi si opponeva al papa canonicamente eletto. E questo, come vedremo, perché lungo e travagliato fu anche il percorso che avrebbe portato lo stesso pontefice a imporsi su tutti gli altri vescovi della cristianità. Dai primi nebulosi inizi, quando il papa era solo vescovo di Roma e non aveva ancora raggiunto la posizione di prestigio e universalità che avrebbe poi detenuto nei secoli a venire, fino al grande scisma durato quasi quarant’anni tra Tre e Quattrocento (1378-1417), il volume racconta la storia dei molti antipapi (alcuni dei quali dubbi) eletti secondo procedure non canoniche. Considerati usurpatori ed eretici, subirono umiliazioni pubbliche e condanne, furono catturati, scomunicati, processati, imprigionati, uccisi. Alcuni fuggirono, altri si ritirarono in convento, altri ancora semplicemente, scomparvero nel nulla. Fieri oppositori al papato ufficiale per motivi dottrinali e ideologici, oppure mere pedine mosse dal potere laico (delle famiglie aristocratiche romane ma anche degli imperatori) sul complesso scacchiere politico del tempo, gli antipapi rivivono in queste pagine non più come comprimari ma come protagonisti. Ecco allora una lunga sfilata di varia ed eterogenea umanità: dalle evanescenti personalità dei primi antipapi (per i quali le notizie sono tanto scarse quanto contraddittorie) alle figure mefistofeliche o inette che si agitano sul tetro palcoscenico di una Roma sconvolta dalla corruzione nella cosiddetta età ferrea del papato; dagli antipapi di creazione imperiale (mere pedine mosse da logiche politiche più grandi di loro) alle figure icastiche del Grande Scisma, fino agli originali (e a tratti grotteschi) oppositori moderni e contemporanei. Alcuni di loro, come il Cardinal Luna, antipapa per tre decenni (dal 1394 al 1423) e morto impenitente a novantacinque anni, oppure Roberto di Ginevra, alias Clemente VII, detto anche il boia di Cesena¹, sono personalità che difficilmente si dimenticano.

    Il saggio è frutto di meticolose ricerche, condotte su tutte le fonti documentarie antiche disponibili, inquadrate e interpretate in maniera critica e rilette alla luce delle più recenti acquisizioni storiografiche. Il quadro è stato completato dai dati provenienti da altre discipline, in primis l’archeologia, la filologia, la storia dell’arte. Ho cercato di dipingere, per quanto possibile nei dettagli, questo grande e complesso affresco storico. La fatica maggiore è stata quella di coniugare la massima accuratezza scientifica possibile con la scorrevolezza della narrazione e la chiarezza espositiva. L’auspicio è che, grazie al linguaggio semplice e allo stile (speriamo!) avvincente, si siano resi i più complessi meccanismi della storia comprensibili davvero a tutti.

    ____________________________________________

    ¹ La sua storia ha affascinato anche alcuni autori moderni e contemporanei come Vicente Blasco Ibáñez (1867-1928) e Jean Raspail (1925), che lo hanno immortalato rispettivamente nei romanzi Il Papa del Mare e L’anello del Pescatore.

    PARTE PRIMA

    I primi secoli del Cristianesimo

    (dal III al VI secolo)

    Ippolito, Novaziano, Felice II, Ursino, Eulalio, Laurenzio, Dioscuro

    immagine

    Il volto dell’imperatore Costantino su una moneta antica (Museo di Roma).

    Chi è un antipapa? Semplice: qualcuno che aspira al papato, viene nominato da un certo numero di persone che lo sostengono, si oppone al papa canonicamente eletto e si comporta in tutto e per tutto come se fosse legittimamente collocato sul soglio di Pietro. Legislazione, scomuniche, convocazioni di concili e nomine di prelati comprese. Quindi, tecnicamente, affinché possa esistere un antipapa deve per forza esserci anche un papa a cui può contrapporsi. L’osservazione, in apparenza pleonastica, è invece importante perché per lunghi secoli a cominciare dall’inizio della storia della Chiesa, il papa inteso come vertice assoluto della Cristianità non è di fatto esistito.

    Il discorso è complesso, e non sarà inutile spendere qualche parola per capire come erano organizzate le comunità cristiane degli albori e seguirne l’evoluzione: quadro fondamentale per comprendere anche come e perché a un certo punto Roma si trovò a esercitare una sorta di primato spirituale sulle altre, e quindi il capo della comunità romana pian piano iniziò a essere percepito come un punto di riferimento anche per il resto del mondo cristiano. Non entreremo troppo nei dettagli perché per seguire il filo di ciò che tratteremo in questo libro interessa comprendere, a grandi linee, le dinamiche di base che determinano lo sfondo sul quale i personaggi che via via incontreremo agiscono e si muovono. Del resto, la bibliografia sul cristianesimo delle origini e su tutte le problematiche che lo riguardano è immensa: rimandiamo dunque i lettori particolarmente esigenti ad approfondire su altri testi². Noi invece cercheremo di essere i più sintetici e chiari possibile.

    Partiamo dunque dall’inizio e diciamo subito che la struttura delle comunità di fedeli delle origini era molto snella e semplice. La guida spirituale non era ancora esercitata da sacerdoti ma da figure altamente carismatiche, che predicavano la Buona Novella alle genti. Subito però si rese necessaria una prima organizzazione dei fedeli, diventati via via sempre più numerosi soprattutto dopo che l’editto di tolleranza, emanato nel febbraio del 313 a Milano dagli imperatori Costantino e Licinio, ebbe equiparato la religione cristiana agli altri culti professati nell’impero, ponendo fine a lunghe persecuzioni. Si passò quindi lentamente a una struttura più complessa, nella quale accanto ai predicatori e ai celebranti la liturgia (i presbyteroi, gli anziani, da cui il nostro termine preti) vi erano alcuni (i diaconoi, diaconi) incaricati di amministrare i beni. Il vero cardine della Chiesa nei primi secoli divenne col tempo il vescovo (dal greco episcopos) che, oltre alla predicazione, aveva il compito di guida spirituale della sua diocesi, cioè delle anime che abitavano il territorio che faceva capo alla chiesa cittadina³. Ai tempi di Costantino si trattava ancora di figure dotate di importanti compiti di coordinamento ma prive di funzioni giurisdizionali. Fu proprio l’imperatore a capire che il prestigio di cui godevano presso i fedeli poteva essere efficacemente utilizzato, anche dall’impero, per controllare capillarmente il territorio, per di più in un momento di crisi e con i barbari che premevano alle porte.

    Costantino dunque si fece promotore di una serie di esenzioni fiscali a carico dei beni ecclesiastici, concesse alle comunità di ricevere beni in eredità ed esaltò il ruolo dei vescovi adottando due misure: la manumissio in ecclesia e la episcopalis audientia⁴. La prima consisteva nella liberazione degli schiavi davanti ai vescovi, la seconda attribuiva all’episcopato cattolico funzioni giudiziarie. In questo modo il vescovo, non più solo guida e capo spirituale dei fedeli, diventava una figura dotata di ampi poteri in campo sia giudiziario sia amministrativo.

    Chi sceglieva i vescovi? Di solito il popolo. La prassi, efficacemente descritta in un testo risalente al 215 circa e attribuito a Ippolito⁵ (come vedremo, il primo antipapa), prevedeva che dopo la scelta da parte dei fedeli il candidato fosse benedetto tramite imposizione delle mani da parte degli altri vescovi e poi consacrato davanti alla folla in preghiera. Col tempo però al popolo fu riservato sempre minore spazio decisionale, mentre viceversa un ruolo sempre più importante nella sua designazione fu rivestito dagli altri vescovi e in particolare dai metropoliti, cioè quelli che risiedevano nei capoluoghi di provincia. A volte, nei casi più importanti, poteva intervenire lo stesso imperatore, e allora la comunità si limitava ad accettarlo per acclamazione. Il denominatore comune di queste designazioni, comunque, era la provenienza sociale dei prescelti: si trattava di membri dell’aristocrazia senatoria romana – già leader storica dell’impero in campo amministrativo, culturale e politico – che ormai si era convertita. Personaggi dotati di cultura e provenienti da famiglie altolocate e ricche, abituati a gestire il potere, si imposero come ceto dominante e, grazie al loro radicamento nella società civile, si trasformarono essi stessi in centri di potere in grado di catalizzare intorno a sé laici, ecclesiastici, contadini, cittadini. E di crearsi vere e proprie clientele. Così presente sul territorio, complice la progressiva crisi del potere imperiale, il vescovo finì per imporsi come il vero – se non l’unico – punto di riferimento anche della vita civile.

    Al vescovo fu anche riconosciuta un’autorità dottrinale, che gli derivava dalla stessa base su cui poggiava quella degli apostoli (quindi dal fatto di essere discepoli di Cristo), per cui nei primi secoli si incontrano spesso vescovi – basti ricordare Ignazio di Antiochia, Ireneo di Lione, Agostino di Ippona, Ambrogio di Milano – che prendono posizione diretta nei confronti di chi predica dottrine diverse – eretiche, ossia erronee ed eterodosse – e si fanno garanti della salvaguardia dei dogmi accettati per fede. Di questo, nel dettaglio, parleremo più avanti perché su queste basi si giocherà lo scontro che porterà all’elezione dei primi antipapi. Qui diremo ancora che a coordinare l’attività dei vescovi erano, dapprima in Oriente e poi anche in Occidente, i metropoliti, che oltre – come detto – a presiedere all’elezione dei vescovi dovevano convocare periodicamente i sinodi, ovvero le assemblee del clero. Tra le sedi metropolitiche principali vi furono Costantinopoli, Gerusalemme, Alessandria d’Egitto, Antiochia, Roma, Milano, Aquileia (alcune di queste, vista la loro importanza, furono elevate al rango di patriarcato).

    A partire dal IV secolo, però, Roma incominciò a reclamare progressivamente il primato come guida della cristianità. Su cosa basava questa istanza? Intanto, com’è ovvio, sul fatto di essere stata la capitale storica e universale dell’impero romano, sul cui ordinamento amministrativo si basavano anche le strutture del cristianesimo. Il prestigio maggiore le derivava però dall’aver ospitato come primo vescovo nientemeno che l’apostolo Pietro, al quale secondo il Vangelo di Matteo⁶, Cristo stesso aveva conferito il compito di fondare la sua Chiesa. Pietro, inoltre, compariva sempre come primo in tutti gli elenchi degli apostoli. Nella Città Eterna erano presenti luoghi di culto legati in maniera suggestiva e profonda a Pietro e Paolo, che tanto vi avevano predicato fino a ricevervi il martirio: primo fra tutti la Memoria apostolorum, ossia il luogo – lungo l’Appia antica⁷ – che aveva ospitato le loro reliquie (oltre ovviamente alla tomba di Pietro)⁸. Vi era poi una lettera, attribuita al vescovo di Roma Clemente (88-97), in cui lo stesso vescovo, pur non essendone stato richiesto, interveniva a sedare alcuni disordini sorti nella comunità ecclesiastica di Corinto sostenendo di aver scritto sotto la guida dello Spirito Santo, e quindi sentendosi chiamato direttamente da Dio a rivestire il ruolo di arbitro. Tale lettera, che per un certo periodo fu addirittura inserita nel novero dei testi canonici, insieme al legame diretto con Pietro e ad altre testimonianze, è dunque la prova dell’esistenza già nel II secolo di un embrionale primato morale della chiesa romana rispetto a tutte le altre.

    Si è citato poc’anzi Ireneo di Lione, ed è proprio il dotto vescovo originario di Smirne (130-202) tra i primi a fornire una lista dei vescovi romani (e non quelli di altre sedi), mostrando di tenere in particolare considerazione ai fini del suo discorso proprio la chiesa «fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo»⁹. Il suo esempio sarà seguito da Eusebio di Cesarea (265-340) nella sua monumentale e importantissima Storia ecclesiastica (che ritroveremo più avanti), nonché dall’anonimo estensore del cosiddetto Catalogo Liberiano (contenuto nel Cronografo romano del 354), che contiene la lista dei primi papi da Pietro a Liberio (352-366) compreso¹⁰. Tra le fonti fondamentali troviamo poi il Liber Pontificalis, vera e propria raccolta delle vite dei singoli papi redatta in seno alla corte papale stessa: fumosa e superficiale sui primi pontefici, inizia a prendere via via corpo e accuratezza con le biografie dal IV secolo in poi, di pari passo con la progressiva presa di coscienza del primato del vescovo di Roma su tutti gli altri.

    Figura chiave in questo processo fu Damaso (366-384), che dopo aver ottenuto dall’imperatore Graziano (367-383) il potere giurisdizionale sui suoi omologhi d’Occidente, nel 381 ottenne da Teodosio il primato morale anche sull’Oriente. La sua eredità fu raccolta da Leone Magno (440-461) e, soprattutto, da Gelasio (492-496) che, utilizzando come titolo quello, da poco entrato nella prassi, di papa (ovvero, padre, dal lessico familiare greco), distinse per primo, in una lettera all’imperatore, il potere temporale da quello spirituale precisandone nel contempo la reciproca autonomia e la comune derivazione dalla volontà divina. Una presa di posizione che si sarebbe rivelata fondamentale e avrebbe determinato la storia degli equilibri fra i due poteri per tutto il Medioevo. La loro distinzione, tuttavia, non ne implicava la separazione: così come i governanti erano soggetti ai sacerdoti in materia spirituale, questi ultimi lo erano ai primi per quanto concerneva l’aspetto temporale. Ma mentre in Oriente gli imperatori avrebbero continuato ad agire unendo nella propria figura entrambi i poteri, con complessi e suggestivi cerimoniali annessi (il fenomeno, ben noto, è quello del cosiddetto cesaropapismo), in Occidente l’autorità del papato avrebbe finito per soppiantare quella, ormai lontana e fatiscente, dell’impero. I pontefici, elevatisi a contraltare pressoché unico dei barbari, avrebbero difeso Roma dalle invasioni e gettato le basi per la costruzione di un vero e proprio dominio temporale che avrebbe avuto la sua prima legittimazione – come vedremo nel prossimo capitolo – in età longobarda.

    ____________________________________________

    ² Si veda la bibliografia alla fine del presente volume.

    ³ Lo avrebbe stabilito nel 343 il concilio di Sardica.

    ⁴ Esse sarebbero confluite nel V secolo, all’epoca di Teodosio II, nel Codice Teodosiano, la raccolta ufficiale di leggi emanate dall’autorità imperiale.

    ⁵ Si tratta della Tradizione apostolica. In italiano la si legge nell’edizione curata da E.Peretto: Pseudo-Ippolito, Tradizione apostolica, Città Nuova, Roma 1996.

    ⁶ E non solo. I riferimenti più importanti sono comunque Matteo 16, 13-16; Luca 22, 31-32, Giovanni 21, 15-17.

    ⁷ Presso le catacombe di San Sebastiano. Il posto esatto è ancora oggi costellato dagli antichissimi graffiti, coi nomi di Pietro e Paolo, lasciati dai pellegrini. Per la storia: A. Ferrua, La basilica e la catacomba di S. Sebastiano, Città del Vaticano 1990.

    ⁸ Sulle vicende della sua scoperta si veda C. Rendina, Il Vaticano. Storia e segreti, Newton Compton, Roma 1986, pp. 15-22.

    ⁹ Ireneo di Lione, Adversus haereses, l. III, 3, 2.

    ¹⁰ Anche di queste fonti si parlerà diffusamente più avanti trattando le biografie dei singoli antipapi.

    Ippolito di Roma

    (217-235)

    Il primo antipapa della storia può essere considerato Ippolito di Roma. Diciamo può perché in realtà il papa, in quanto capo universale della Chiesa cattolica, non esisteva ancora (e quindi, a ben vedere, nemmeno il suo antagonista). La sua è una figura oscura e controversa, tanto pochi sono i dati biografici accertati. All’ambiguità dei documenti si aggiunge la confusione che, sin dall’età antica, agiografi e scrittori fecero sul suo conto mischiando alcune notizie, equivocandone altre, confondendo la storia con la leggenda e sovrapponendo tra loro persone diverse. Cercare di capire chi fu davvero Ippolito e cosa fece è una specie di rompicapo, un compito arduo. Ma proveremo ad affrontarlo partendo dall’analisi dell’unica cosa che conosciamo bene: le fonti. Anche se, come vedremo, porranno molti più interrogativi di quanti ne possano risolvere.

    Andiamo con ordine. Il Martirologio Romano, il libro che sta alla base del calendario liturgico della Chiesa cattolica, alla data del 10 agosto riporta: «Festa dei santi martiri Ponziano, papa, e Ippolito, presbitero, furono deportati insieme in Sardegna, dove entrambi scontarono la loro condanna e vennero coronati della corona del martirio; ambedue furono seppelliti a Roma, Ippolito nel cimitero sulla Via Tiburtina, Ponziano invece nel Cimitero di Callisto»¹¹. Secondo la versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, che approva il testo, Ippolito fu dunque un uomo di Chiesa. Catturato durante le persecuzioni che a ondate, fino all’Editto di Tolleranza emanato nel 313 da Costantino e da Licinio, travolgevano la comunità degli aderenti al cristianesimo, finì i suoi giorni in Sardegna, dove subì il martirio insieme a Ponziano, che in quel tempo era papa. La morte avvenne il 10 agosto, probabilmente del 235, e questo suo dies natalis – il giorno della nascita alla vita eterna – è ancora oggi il giorno in cui se ne celebra la ricorrenza.

    Poche notizie… ma confuse

    Si diceva poc’anzi che i dati biografici che lo riguardano sono molto scarni e dipendono dal racconto degli scrittori antichi. Vediamo allora cosa dicono.

    Il primo a citarlo è Eusebio di Cesarea (265-340), vescovo greco tra i fedelissimi dell’imperatore Costantino e autore di un’importante Storia ecclesiastica in dieci libri che aveva l’ambizione di ricostruire le vicende della Chiesa dalla sua fondazione da parte degli apostoli ai suoi giorni. Nel libro VI, presenta Ippolito come un personaggio «a capo di una qualche chiesa»¹² e ne elenca varie opere: «Oltre a numerosi altri commenti – scrive Ippolito compose in quel tempo anche il trattato Sulla Pasqua, in cui stabilisce una cronografia e propone per la Pasqua un canone costituito da un ciclo di sedici anni, calcolando le date in base al primo anno dell’imperatore Alessandro. Delle altre sue opere, quelle pervenuteci sono le seguenti: Sull’Hexaemeron, Su ciò che segue l’Hexaemeron, Contro Marcione, Sul Cantico, Su brani di Ezechiele, Sulla Pasqua, Contro tutte le eresie, e numerose altre che si possono trovare conservate presso molti»¹³. Grazie a Eusebio, apprendiamo dunque che Ippolito fu un teologo e che fu forse vescovo: non ci dice di dove, ma probabilmente di Roma. C’è però un’altra fonte importante e di pochi anni posteriore a Eusebio, che fornisce su Ippolito informazioni diverse: il Cronografo dell’anno 354. Questo testo, fondamentale per molte ragioni (ad esempio, vi troviamo la prima attestazione della celebrazione del Natale il 25 dicembre, introdotta poco prima dall’imperatore Costantino), ci dice che Ippolito, definito «presbitero», fu deportato in Sardegna insieme al vescovo di Roma Ponziano¹⁴, e che lì entrambi subirono il martirio¹⁵: il giorno 13 agosto, non si sa di che anno, Ippolito fu, come detto, sepolto sulla via Tiburtina e Ponziano nel cimitero di Callisto.

    Poco dopo, troviamo un epigramma dettato da papa Damaso (305-384) al suo calligrafo Furio Dionisio Filocalo e collocato sulla tomba posta lungo la via Tiburtina¹⁶: nei versi si sostiene che Ippolito aderì a uno scisma, quello di Novaziano, ma poi col tempo si sarebbe ravveduto e, anzi, prima di morire avrebbe esortato i suoi seguaci a riconciliarsi con la Chiesa cattolica. A parte la frammentarietà del testo, ricomposta solo in epoca moderna¹⁷ (alcuni pezzi si trovavano nella pavimentazione della basilica di San Giovanni in Laterano), sorge un altro problema: tale scisma ebbe luogo dopo la morte di Ippolito, quindi come date non ci siamo. Né ci aiuta san Gerolamo, collaboratore di Damaso, che a proposito di Ippolito si limita a riprendere quanto già scritto da Eusebio allungando l’elenco delle sue opere letterarie¹⁸ e aggiungendo che tenne un’omelia di fronte a uno dei più grandi teologi della sua epoca, Origene di Alessandria. Il legame tra Ippolito e Origene sarà ribadito molto più tardi da Fozio (820 ca.-893), che avrebbe dedicato al nostro ben due capitoletti della sua Biblioteca¹⁹, monumentale raccolta di recensioni di volumi che il dotto patriarca di Costantinopoli aveva letto e meditato. Secondo Fozio, Ippolito avrebbe esortato Origene a comporre un commento sulle Sacre Scritture mettendogli a disposizione (a sue spese) sette scribi stenografi e altrettanti calligrafi. Ed era talmente insistente nel pretendere la fine dell’opera che Origene, sfinito, a un certo punto gli diede dello «schiavista».

    Il patriarca aggiunse anche un particolare piccolo ma significativo: Ippolito era stato discepolo di Ireneo di Lione. E non vi era nulla di strano: Ireneo, nativo di Smirne (oggi in Turchia), era noto per la sua forza polemica contro le eresie prima di diventare vescovo a Lione, in Francia, e trovarvi il martirio nel 202. Il suo trattato più celebre, intitolato Smascheramento e confutazione della falsa gnosi (ma è più noto col più semplice e diretto Contro le eresie), confutava una serie di dottrine molto popolari tra il II e il IV secolo secondo le quali l’anima, in buona sostanza, non si salvava per grazia di Dio tramite la Fede, ma in virtù della Conoscenza (gnosi, dal greco) che portava ad acquisire la Verità. A contatto col nascente Cristianesimo, i movimenti di carattere gnostico ne assunsero molti princìpi rivestendoli, però, di un carattere iniziatico: i teologi, quindi, dovettero impegnarsi nella confutazione per evitare che il nuovo credo diventasse una religione non rivolta alle masse ma solo per pochi eletti. Sicuramente, l’opera di Ippolito seguiva la stessa falsariga del maestro.

    Dunque, ricapitolando, si può dire che tutte le fonti antiche sono praticamente concordi nel ritenere Ippolito un personaggio eminente in ambito ecclesiastico e autore di varie opere di argomento teologico. Qualcuno sostiene che fosse vescovo, qualcun altro martire, altri ancora entrambe le cose. Ma oltre, di fatto, non si spinge nessuno²⁰.

    La scoperta del millennio

    A restituire una personalità a questa figura tutto sommato piuttosto scialba fu una fortunata scoperta avvenuta in età moderna, e precisamente nel 1842. L’artefice fu Minoide Mynas, originale figura di archeologo ed erudito greco di origine macedone. Durante la sanguinosa guerra che i patrioti greci combattevano per ottenere l’indipendenza dall’impero ottomano, era fuggito a Parigi e qui aveva messo tutto il suo impegno per promuovere e divulgare la conoscenza della lingua dei suoi padri, sia antica che moderna. Ci era riuscito. Al punto che Abel Vuillemin, ministro dell’Educazione di re Luigi Filippo, lo aveva invitato a partecipare a una serie di spedizioni promosse dal governo in Turchia e Asia Minore. Sotto lo pseudonimo di Constant Ménas, Mynas passò dunque al setaccio monasteri e conventi sul Monte Athos trovandovi una vera e propria fortuna. Tra i titoli riscoperti, tornarono alla luce l’Introduzione alla Dialettica, opera del celebre medico greco Galeno (II-III secolo) di cui non si conosceva ancora l’esistenza, e alcune favole dello scrittore latino Valerio Babrio. Ma soprattutto, emersero dall’ombra i Philosophumena, un corposo trattato in dieci libri che conteneva la confutazione delle principali eresie e religioni professate nella sua epoca. Il titolo, si ricorderà, compariva nell’elenco di opere note come Contro tutte le eresie. Ma il testo non era finora mai stato trovato.

    I Philosophumena si celavano in un manoscritto del Trecento, ma mancavano i libri secondo e terzo. Dopo una prima analisi, furono erroneamente attribuiti a Origene e pubblicati per la prima volta nove anni dopo, nel 1851, da Emmanuel Miller. Successivi studi però rivelarono non solo che l’autore era in realtà Ippolito, ma anche che il testo conteneva particolari decisivi per ricostruirne la biografia.

    Quali sono? Innanzitutto, l’autore – pur non nominandosi mai – si attribuisce un ruolo di primo piano nell’organizzazione ecclesiastica del tempo, definendosi anzi senza mezzi termini legittima guida della Chiesa di Roma. E questo in un momento di forti difficoltà e polemiche.

    Ippolito era infatti entrato in contrasto con papa Zefirino (198-217) e poi con il suo successore Callisto (+222) sulla questione della natura di Cristo. Non entreremo troppo addentro alle questioni teologiche, che esulano dal tema di questo libro. Diremo solo che nei primi secoli del cristianesimo le controversie sulla natura, divina o umana o entrambe, di Cristo furono tra le più dibattute. Contro i modalisti, che sostenevano che il Padre e il Figlio fossero mere manifestazioni (modi appunto) della natura divina, Ippolito ribatteva che Padre e Figlio erano distinti e separati e il Figlio era subordinato al Padre. La polemica però era rivolta soprattutto a Zefirino, reo a suo dire di non aver preso posizione contro di essa. A ciò aggiunse una severa critica personale nei confronti dello stesso Zefirino, dipinto come un uomo debole, zotico e ignorante. Nel mirino c’era però soprattutto Callisto, definito senza mezzi termini «uomo industrioso per il male e pieno di risorse per l’errore»²¹.

    Le sue parole lo dipingono come un vero e proprio manigoldo. Dopo aver truffato il suo padrone perdendo tutto il denaro che gli era stato affidato, Callisto era fuggito scampando alla morte per ben due volte. Acciuffato e spedito ai lavori forzati in Sardegna, tornato furbescamente a Roma, sarebbe stato incaricato da papa Zefirino di costruirvi il primo cimitero della Chiesa, una catacomba privata che avrebbe preso il nome da lui e ospitato i sepolcri di tanti martiri e pontefici delle origini. E dulcis in fundo, era assurto al soglio papale: quale miglior coronamento per il suo carattere ambizioso, intrigante e senza scrupoli? Una volta divenuto papa, Callisto avrebbe fomentato l’eresia già abbondantemente frequentata dal suo predecessore:

    L’eresia di costoro – scrive Ippolito – la rafforzava Callisto, la cui vita abbiamo esposto dettagliatamente. Costui inventò un’eresia: prendendo le mosse da questi anche lui riconosce che esiste un solo Padre e Dio, il Creatore dell’universo; egli è in realtà colui che è nominato e designato col nome di Figlio, ma nella sostanza uno solo è lo Spirito indivisibile. In quanto Spirito, disse, Dio non è altro dal Verbo e il Verbo non è altro da Dio. Si tratta dunque di un’unica persona divisa nel nome, ma non nella sostanza. Ed è dunque in questo Verbo, ch’egli chiama Dio Uno, ch’egli dice che si è incarnato. E vuole che il visibile e impotente in carne ed ossa sia il Figlio, e lo Spirito che l’abita, il Padre, inciampando ora nella dottrina di Noeto, ora in quella di Teodoto, ma senza essere convinto sostenitore di nessuna²².

    Naturalmente, questi giudizi sono col tempo stati sottoposti a dura analisi da parte della critica, che ne ha evidenziato forzature e incongruenze dovute, con ogni probabilità, alla rivalsa personale e alla vis polemica²³. Tuttavia una cosa è certa: la sua azione veemente dovette dargli una più che discreta visibilità nella comunità romana del tempo. Nel bene e nel male. Se infatti divenne il punto di riferimento di quanti erano scontenti di Callisto e del suo operato e fu eletto da questi antipapa, fu anche scoperto come cristiano e quindi catturato per ordine dell’imperatore Massimino il Trace. Finì i suoi giorni in esilio, condannato ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna (ad metalla) come tante altre vittime innocenti delle persecuzioni contro i cristiani. Ma con lui, in quei drammatici momenti, c’era il nuovo papa, Ponziano, successo nel frattempo a Callisto. Lo conobbe, ci parlò, e i due si riconciliarono appena in tempo per far rientrare il primo scisma della storia della Chiesa. Poi la morte, a pochi mesi di distanza.

    Come scrive efficacemente Emanuela Prinzivalli: «Il martirio e il volontario rientro nella Chiesa avevano dato una conclusione gloriosa alla sua vicenda terrena e quindi una comprensibile reticenza aveva velato gli aspetti più discutibili del suo operato, soprattutto il suo essersi autodichiarato capo della Chiesa romana»²⁴. Si può dire quindi che proprio la profonda ostilità che oppose Ippolito ai pontefici e le sue posizioni al limite dell’ortodossia determinarono l’incertezza delle fonti su molti particolari della sua biografia, che già agli antichi dovette sembrare controversa e scomoda. Ciò che in vita fu la forza e il carisma di Ippolito, insomma, dopo la morte ne costituì la debolezza.

    Una biblioteca di santi

    Chi intende occuparsi a qualunque titolo di santi non può prescindere da una fonte fondamentale: gli Acta Sanctorum. La collezione completa conta 68 grossi volumi in folio, in pratica una biblioteca fatta di migliaia e migliaia di pagine fittamente stampate in latino, che contengono tutti i documenti noti che riguardano le vite dei santi e le leggende e i culti fioriti sul loro conto. Gli Acta nacquero su idea del gesuita belga Jean Bolland (1596-1665) per amore del sapere, certo, ma anche per uno scopo che stava a metà tra il politico e il religioso: dimostrare ai protestanti, piuttosto scettici sulla questione, che il culto dei santi non era una pratica oscurantista campata per aria ma era invece provato da una serie di documenti autentici e molto antichi. Bastava, per ogni santo celebrato, cercarli e pubblicarli.

    L’idea in sé non era originale: già qualche decennio prima, nel 1607 infatti, un altro gesuita, Heribert Rosweyde (1569-1629) aveva dato alle stampe un libretto di cinquanta pagine intitolato Fasti Sanctorum quorum vitae in belgicis bibliothecis manuscriptae asservantur, in cui esponeva un progetto a dir poco ambizioso: raccogliere sistematicamente e pubblicare tutti i documenti che riguardavano vite e leggende dei santi. Il piano dell’opera era da vertigine: ben diciotto volumi, i primi due dedicati a Gesù e a Maria, il terzo ai santi maggiori, dodici agli altri santi secondo l’ordine del calendario liturgico, il sedicesimo dedicato ai martirologi, gli ultimi due di tavole e spiegazioni varie. Rosweyde spedì orgoglioso il suo piccolo volume programmatico al cardinale Roberto Bellarmino, confratello e uno degli uomini più influenti e colti del suo tempo. La risposta del prelato fu di autentica meraviglia: «Quest’uomo – avrebbe detto: ma gli scrisse anche una lettera – vuole vivere altri duecento anni». Perché tanti, a suo dire, ne sarebbero occorsi a una sola persona per compiere (forse) un lavoro talmente titanico.

    Il dotto belga, però, non si scoraggiò e trovò in Antoine de Wynghe, abate di Liessies, la sponda che gli serviva. Gli garantì appoggio finanziario, lo omaggiò di introvabili manoscritti, scrisse a tutti gli abati delle Fiandre perché permettessero a quest’uomo instancabile di avere libero accesso alle loro preziose biblioteche e ai loro tesori. Ma pur fra tanto zelo Rosweyde, che contava solo sulle sue misere forze, riuscì a mettere insieme soltanto una gran mole di documenti. Alla sua morte, avvenuta ad Anversa nel 1629, dell’opera dei suoi sogni non era stata ancora stampata nemmeno una pagina.

    A questo punto, fortunatamente, entrò in campo Jean Bolland. Fu quasi un caso. Incaricato dal preposito (il provinciale dei gesuiti) nelle Fiandre Jacques van Straten di riprendere in mano le carte dello studioso defunto, si accorse subito del valore eccezionale del progetto. Ci pensò sopra e decise di farlo suo. Ma a due condizioni. La prima: avrebbe potuto modificare il progetto originale a suo piacimento. La seconda: tutto il materiale finora raccolto doveva restare a sua esclusiva disposizione. Il preposito accettò: Bolland ottenne il trasferimento da Malines ad Anversa e si mise immediatamente all’opera.

    Cominciò dalle critiche. Rosweyde aveva concepito di certo un lavoro eccezionale, ma con due sostanziali difetti: il limite di ricerca delle fonti alle sole biblioteche del Belgio e la sola pubblicazione dei testi senza alcun inquadramento storico o analisi. Bolland invece volle spingersi oltre: le ricerche dovevano essere estese a tutta Europa e ogni fonte andava inquadrata, sottoposta a critica e spiegata. Impossibile, e se ne sarebbe accorto ben presto, occuparsi di tutto da solo.

    Nel 1635, grazie all’aiuto del solito abate di Liessies, fu dunque assegnato al trentaquattrenne Godfrey Henschen (1601-1681) il volume di febbraio. In seguito, si affiancò un terzo gesuita, Daniel van Papenbroek (1628-1714), al quale va attribuito gran parte del lavoro di ben diciotto volumi. Mentre Bolland pubblicava, i due assistenti portavano avanti le ricerche nelle biblioteche di mezza Europa. Lavorando febbrilmente, il dotto gesuita riuscì, prima di morire, a portare a termine solo i volumi relativi ai mesi di gennaio (che uscì ad Anversa nel 1643) e febbraio (1658). Dopo di lui, Henschen e Papenbroek come detto andarono avanti e le pubblicazioni, tra alterne vicende, continuarono per oltre un secolo grazie a molti altri gesuiti – che si unirono nella Società dei Bollandisti – fino ad arrivare a comprendere sessantotto volumi che ancora oggi, tramite addenda e studi, vengono continuamente aggiornati.

    Uno, due, tre Ippoliti

    La ragione per cui ci siamo concessi questa lunga ma appassionante parentesi è presto detta. Sfogliando gli Acta Sanctorum alla data corrispondente al 13 agosto, giorno in cui il Martirologio Romano come detto assegna la festa di sant’Ippolito, scopriamo che i documenti raccolti riportano anche altre notizie riferite a personaggi con tale nome. Al punto da delineare l’esistenza di persone diverse che in molti casi furono confuse, o fuse, in una sola. Del resto, si è appena visto che i pochi dettagli presenti nelle fonti non aiutavano certo, prima della riscoperta dei Philosophumena, a chiarire i dubbi, e che la stessa epigrafe attribuita a papa Damaso conteneva alcuni errori che denunciavano come la sua figura già in antico stava trascolorando dalla storia alla leggenda.

    Gli Acta dunque riportano innanzitutto quanto cantato dal poeta Aurelio Prudenzio Clemente (348ca.-413) nell’undicesimo inno del suo Peristephanon Liber a proposito di un martire Ippolito morto dilaniato da due cavalli²⁵. Il rapporto che legava questo Ippolito con l’altro non era chiaro, tanto più che la versione di Prudenzio conteneva una evidente reminescenza classica: il martirio ricalcato su quello dell’omonimo figlio di Teseo, secoli addietro immortalato nei versi di Euripide e Seneca. Secondo il celebre mito, Ippolito non accettò le profferte amorose di Fedra, sua matrigna, e lei si vendicò accusandolo, falsamente, di averla stuprata. Il giovane, chiamato in causa dal padre, non si difese per non rendere palese a tutti l’amore proibito della donna e con ciò scrisse la sua condanna. A esaudire la maledizione di Teseo fu Poseidone: il dio evocò dal mare un possente toro, che

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