All'ombra delle torri
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Anteprima del libro
All'ombra delle torri - Stefano Cassini
Capitolo 1
«Bentornato dottor Poli.»
«Grazie Karl. È sempre un piacere rivederti e, come sempre, chiederti di lasciar da parte il dottore.»
Karl Steinhauser, titolare dell’hotel Fata, e Gabriele Poli, commissario di polizia, si conoscono da quando avevano i calzoni corti, come si suol dire; la famiglia Poli veniva qui già nei primi anni ottanta quando a gestire l’albergo c’era il papà di Karl, Albert, che, oltre a sapiente albergatore, era un provetto sciatore, soprattutto di fondo, ed esperta guida alpina cosicché spesso piantava in mano ad Anna, sua moglie, la gestione dell’albergo per accompagnare i turisti su e giù per l’Alpe Lusia o il Passo San Pellegrino o, ancora, sul Ciampedie e i sentieri che conducono alla Roda di Vael o verso i rifugi Gardeccia e, per i più allenati, Vajolet.
«Vedrete tosat», soleva ripetere a Karl e Helmut, il secondogenito, «che così facendo, i clienti torneranno e saranno loro il nostro veicolo pubblicitario. Accoglienza, cortesia e buona tavola saranno sempre le basi per il turismo di questa valle; non occorre trasformare gli alberghi in mega strutture con dentro di tutto. Certo è dispendioso dal punto di vista delle energie, e anche con vostra madre c’è qualche baruffa perché mi dice che rischio un po’ troppo e che dovrei riguardare di più la salute, ma poi il bene che ci vogliamo, e la passione per questo lavoro, ci fanno superare qualsiasi difficoltà. E poi ha ancora un bel culo e ci vado matto.»
Era così Albert Steinhauser, uomo schietto capace di filosofeggiare sui grandi perché della vita e di colpo uscire con qualche battuta da caserma; naturalmente il discorso del didietro della signora Anna lo fece quando i figli erano vicini alla maggior età (fra i due fratelli ci sono solo due anni di differenza) quindi, per i suoi canoni, potevano affrontare certi discorsi. E chissà quanti gliene avrebbe fatti se la sua generosità non lo avesse spinto a salvare quella signora scivolata, non si sa come, sul sentiero che porta al rifugio Passo Santner, in mezzo alle Torri del Vajolet.
La corda si è spezzata grattando su uno spuntone, perché non ha sopportato il peso, facendo rotolare le due persone verso il rifugio e le decine di persone involontarie spettatrici della tragedia.
Questa la sintesi finale dell’accaduto che Mariano Poli, papà di Gabriele, sovrintendente di polizia e cliente-amico dei Steinhauser, non ha mai accettato perché sapeva bene che Albert curava minuziosamente la sua attrezzatura.
«Che figura ci farei se mi presentassi ai clienti con moschettoni arrugginiti, casco ammaccato e corde vecchie?» rispondeva a chi gli faceva notare che ogni anno lo vedeva con qualcosa di nuovo.
I dubbi, poi, li ha trasmessi al figlio che quel giorno, appena ventenne, con Karl era proprio al rifugio Vajolet e sentì il secco crack dell’osso del collo che si spezzava spegnendo quel pezzo d’uomo, di poco meno di due metri e più di ottanta chili di peso, in un amen.
«Marta e i bambini stanno bene?»
«Certo, Gabriele, tra poco saranno qui; oggi non c’è stato verso di lasciarli dai nonni. Signora..?»
«Dio che stupido! Scusami Claudia. Karl lei e Claudia la mia… ehm…»
«Piacere di conoscerti Claudia,» Karl interrompe l’imbarazzo dell’amico e con slancio sincero stringe la mano della ragazza,
«spero che ti possano piacere i nostri monti; Gabriele mi ha detto che non sei mai stata da queste parti.»
«Grazie. Si, è vero, per me è la prima volta che vengo da queste parti.» risponde una timida ragazza che accompagna Gabriele.
Capitolo 2
È una insolita calda domenica di fine aprile e Gabriele è appena arrivato in cima alla Madonna del Ghisallo, sopra Erba, con la sua bicicletta da corsa e sta riempiendo la borraccia alla fontanella quando si accorge che, ad attendere il proprio turno non c’è il classico paio di gambe depilato e muscoloso; quelle che vede sono gambe che attraggono e istintivamente alza gli occhi percorrendo il resto del corpo in un lampo e fermando lo sguardo sul viso di lei.
«Oops, scusa, sono stato scortese.» accenna.
«No, figurati, sono arrivata dopo di te, e poi ne sto approfittando per guardarmi in giro.»
«Eh già, con una giornata così valeva la pena venire qua», Gabriele ne approfitta, con circospezione pensando a quando arriverà il suo uomo o lei gli dirà che deve andare perché gli altri l’aspettano, «anche se lo hai visto decine di volte, conserva un fascino tutto suo.»
«Io è la prima volta che vengo quassù.» gli risponde lei timidamente, quasi vergognandosi.
Solo a questa frase Gabriele si accorge che lei sulla maglietta ha scritto CICLISTICA BUSSI SUL TIRINO.
«Non sei di qua, scusami, dovevo capirlo dall’accento e dalla tua divisa che sei abruzzese,» sfoggia la sua cultura ciclistico-geografica, «soprattutto conosco, per sommi capi la tua squadra che si cimenta nei ciclo-amatori. Siete di Pescara giusto? Ma dove sono i tuoi compagni di squadra?» chiede guardandosi attorno stupito dal fatto che non vede altre persone con la stessa sua divisa.
«Sono da sola; mi sono trasferita perché domani inizio a lavorare a Milano e siccome mi piace il ciclismo, mi sono fatta spiegare che giri si potevano fare nei paraggi e venire quassù era il più gettonato così… eccomi qua.» risponde la ragazza a metà strada tra il felice, per la pedalata intrapresa, e il dubbioso, per capire dove vuole arrivare quell’uomo.
«Beh, lode a chi ti ha dato questo consiglio. Cristo che caprone! Ho scordato di presentarmi, io mi chiamo Gabriele.»
«Io Claudia.»
Claudia… Gabriele la guarda ora più sciolto mentre le fa da Cicerone e le spiega la storia del Santuario, le decanta Monte San Primo alle loro spalle e il Lago di Como, versante lecchese, con le Grigne, di fronte.
«Se vuoi possiamo tornare insieme; o, almeno, fare un pezzo di strada assieme.» propone lui.
«Speravo me lo chiedessi perché, anche se ho buona memoria, avevo un po’ paura di perdermi. Io devo andare fino a Varedo, a una dozzina di chilometri da Milano, e tu?»
Qui l’imbarazzo lascia il posto a una sonora risata che finisce solo quando la ragazza mostra un po’ di contrarietà.
«Scusami per l’ennesima volta ma… è che io abito a Paderno Dugnano, che è subito dopo, e mi sono immaginato che faccia da ebete avrei fatto se lanciato da sorpreso entusiasmo avessi esclamato: Ehi ma io sono di Paderno!
Credo che avresti pensato che ci stavo provando.»
E così i due chiacchierando del più e del meno si dirigono verso casa con Gabriele che non perde l’occasione per mettere in mostra la sua goffaggine.
«Hai proprio una bella gamba. No, scusa, non nel senso fisico… cioè, non che tu non abbia delle gambe bellissime però io… devi sapere che nel ciclismo avere una bella gamba…»
«Lo so, lo so, avere una bella gamba vuol dire pedalare bene e con reddito.» risponde lei.
E così i due approfittando della strada che dopo Inverigo è in costante, leggera, discesa tornano verso casa con un ritmo sostenuto ma che consente loro di sciorinare le rispettive esperienze ciclistiche e non.
In compagnia i chilometri passano più agevolmente e così si ritrovano a Desio dove, teoricamente, dovrebbero separarsi.
«Figurati. Giro a destra anch’io e vengo verso il centro di
Varedo.»
«Grazie. Ma da qui non dovrei più avere incertezze. Però se ci tieni.»
Giunti proprio in centro alla cittadina, si salutano; lei gira a destra, lui tira dritto maledicendosi per non averle chiesto dove abitava e se le andava di ritrovarsi la domenica successiva per una pedalata insieme.
L’indomani Gabriele si reca in ufficio più presto del solito per sistemare un po’ di scartoffie burocratiche in quanto dovrà perdere un po’ di tempo per ricevere il suo nuovo vice.
«Chissà perché cavolo non mi hanno dato neanche un’informazione sul suo conto.» Pensa nell’attesa.
Ore 8.30. Toc, toc.
«Avanti.»
«Commissario è arrivato il nuovo vice.»
«Grazie Ruggeri, fallo entrare.»
Per darsi un tono, il commissario Poli si fa trovare seduto e intento a firmare documenti, in realtà semplici richieste di licenze.
«Vice commissario De Santis Claudia agli ordini, signore.»
No. Non può essere. Quella voce...
Alza appena lo sguardo per guardare oltre la scrivania. Quelle caviglie sottili, i polpacci affusolati, seppur velati da collant non lasciano dubbi.
«T… Tu?»
Certo il trucco, i capelli neri lasciati sciolti, quei collant velatissimi (glielo dirà dopo qualche mese che quel giorno aveva autoreggenti) e quelle scarpe decolleté con tacco da dieci centimetri, per alzarsi ben oltre il suo metro e settantacinque, erano espedienti fatti apposta (seppur un tantino fuori ordinanza) per colpire anche sul piano fisico; in fondo, seppur poliziotto, Claudia è pur sempre una donna.
E che pezzo di fi…gliola, pensa Gabriele ora che si è alzato, per stringerle la mano e darle il benvenuto, e la può esaminare in tutta la sua interezza. Meno male che lui è alto un metro e ottantotto altrimenti cosa si sarebbe pensato di lui quando si sarebbe presentato a risolvere casi con lei più alta e, decisamente, più atletica?
Capitolo 3
«Sai Karl, è stata una scelta difficile, tutti i giorni chiedevo consiglio a Claudia e Martina se ero pronto a sostituirle. Mi pareva così assurdo che un’altra, con addirittura lo stesso nome, potesse risvegliarmi sentimenti che credevo spariti.»
«Penso di poterti capire. Ci si vede solo una volta l’anno ma so quanto ti sono costati questi ultimi due. Inutile dirti quanto siano mancate anche a noi.»
Claudia Mattioli era la moglie di Gabriele. Coetanei, si erano conosciuti alla scuola di polizia, si erano piaciuti subito e a ventisette anni erano convolati a giuste nozze. Tutto girava per il verso giusto; carriera, famiglia (dopo tre anni la coppia era stata allietata dalla nascita di Martina), avevano tutto ciò che serviva per essere una famiglia felice se non fosse stato per il destino sempre pronto con una spinta a far cadere il castello di gioie che ti crei. Era il giorno del trentaquattresimo compleanno di Claudia quando un folle con la sua auto decise di superare un altro veicolo che era fermo in prossimità di un passaggio pedonale per far passare Martina e la sua mamma la quale aveva saputo di essere in attesa del secondogenito.
Forse quel particolare stato di grazia, forse la tranquillità che danno le strisce, fatto sta che mamma e figlia non si sono accorte di nulla; la piccola nemmeno di morire tanto fu violento l’impatto. Claudia visse giusto il tempo per dire Ti amo
a suo marito giunto all’ospedale con il regalo per lei e ricevette dai medici la notizia dello stato interessante della moglie; poco importò che anche l’investitore, andato a sbattere contro un muro, morisse dopo tre giorni di coma.
«Se fosse sopravvissuto lo avrei ucciso io stesso.»
Tutto questo i due amici se lo stanno raccontando mentre
Claudia, con l’aiuto di Marta e i suoi piccoli, Alberto e Giorgia, sta prendendo possesso della stanza a loro riservata.
«I tuoi genitori?» Chiede Karl che, da buon albergatore, sa dove è il limite per farsi gli affari dei propri clienti.
«Ah, beh, come al solito aspettali all’alba; sai com’è Mariano: bisogna partire presto, fa più fresco e se ci sono inconvenienti si ha il tempo per ragionare e risolverli.»
«Con il risultato che si presentano qui che potrebbero fare colazione.»
I due ridono; nonostante si vedano di rado c’è ancora un po’ di quella complicità che hanno coltivato da ragazzi. Solo quando appare Claudia smettono; pantaloncini di jeans corti (ma corti!), scarpe da tennis e una camicetta che, seppur lasciata volutamente fuori dai pantaloni, stringe in vita quel tanto che basta per far capire cosa c’è sotto. Il resto lo fa il suo portamento elegante. Forse prima era stanca, si giustifica fra sé e se Karl, pensando che prima le era sembrata bella ma non così… così… gnocca!
Anche Gabriele, che ormai l’ha esplorata per filo e per segno, resta per qualche frazione di secondo a bocca aperta, ma non ci fa caso perché la cosa gli capita praticamente una volta si e l’altra pure quando la vede.
«Guarda che due ebeti.»
Marta, che non sfigura affatto in quanto a bellezza e fascino, appare alle spalle della ragazza e ha notato gli sguardi dei due amici.
«Karl Steinhauser, con te facciamo i conti a casa, porco.» Quest’ultima parola gliela dice senza volume perché ci sono pur sempre i bambini e il sorriso successivo fa capire le vere intenzioni della donna. Dopotutto, se si incontra una bella persona, sia essa donna o uomo, è normale restare a bocca aperta.
«Beh, sono le cinque; ti va, tesoro, di portarmi a fare merenda in qualche locale che conosci così inizio a prendere visione del paese?»
Claudia scalpita, esaltata com’è da ciò che ha visto arrivando e non vede l’ora di iniziare la vacanza.
«Perdonatela,» si scusa Gabriele, «è in fibrillazione sin da quando abbiamo iniziato a salire verso il San Lugano; ho perso il conto dei suoi wow!
. Il Caffè Sacher c’è ancora vero?»
«Certo. Buona passeggiata. Ci vediamo a cena.»
«Grazie. A stasera.»
E Gabriele viene praticamente trascinato fuori.
Come da sempre ha fatto, e conoscendo la curiosità della fidanzata, per ripararsi dal sole, si porta dietro le case di via Löwy per passeggiare a fianco dell’Avisio e si gode l’entusiasmo di Claudia che continua a guardarsi intorno rapita dalla maestosità delle Dolomiti che, qui a Moena, sembrano stringersi particolarmente quasi a protezione della Fata delle Dolomiti.
Al Caffè Sacher, Gabriele fa sedere Claudia in modo che possa guardare piaz Ramon e ammirare le facciate degli alberghi e delle case con i loro balconi fioriti e le finestre decorate.
«Che posto, e quanti gelati; non so cosa scegliere. Tu, habitué, cosa mi consigli?»
«Claudia ne prendeva…», la gaffe