Le stanze dell'ombra
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Un forte vento caldo aveva spinto nella valle nuvoloni neri come fuliggine e la temperatura si era
improvvisamente alzata. Lampi accecanti e tuoni assordanti si susseguirono per parecchi minuti
e cominciò a piovere. Piovve per due giorni di seguito; come per incanto la neve scomparve dai tetti
e dalle stradine, incanalandosi verso valle.
L’Esaro e il Crispo erano in piena…
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Anteprima del libro
Le stanze dell'ombra - Felice Arcidiacono
I
In una notte buia di fine novembre un cavallo galoppava veloce sul sentiero che da San Donato di Ninea portava a Policastrello, distante quattro miglia napoletane. Era una notte terribile. Si erano aperte le cateratte e il cielo rovesciava su quel lembo di terra un acquazzone misto a grandine che scoraggiava anche i lupi ad uscire dalle tane. Non si vedeva nulla; il cavallo conosceva la strada e il suo cavaliere, curvo in avanti, si copriva il volto con il mantello lasciando scoperti solo gli occhi, mentre il vento inesorabile lo inondava di grandine e pioggia. Il cielo di tanto in tanto veniva squarciato da lampi che illuminavano la strada e il bosco di querce che la costeggiava. Il vento, insinuandosi tra gli alberi, produceva echi, rumori e un ondeggiare di ombre che rendevano inquieto l’animale che, impaurito dall’ennesima saetta, scartò di colpo disarcionando il cavaliere quasi appisolato sul suo dorso e fermò il suo galoppo solo davanti alle stalle del palazzo Servidio di Policastrello. Il nitrito della bestia e il suo battere di zoccoli sulle lastre di pietra lavica del cortile allarmarono la servitù e il padrone di casa che, vedendo l’animale senza cavaliere, presagì che qualcosa di grave era successo. Una lunga teoria di torce e lanterne partì dal piccolo borgo alla ricerca di don Giuseppe; e lo trovarono, alfine, riverso nel fango, privo di vita e con l’osso del collo rotto.
Agnese, nel suo letto, era inquieta e non riusciva a prendere sonno. Si girava e rigirava pervasa da strani presentimenti. Quella sera, dopo aver cenato con i suoi e il fidanzato, si era appartata con lui sul divano vicino al caminetto. Don Saverio, il padre, si era appisolato al tepore del fuoco e donna Serafina, la madre, con la scusa di riscaldare i letti, li aveva lasciati liberi per le loro confidenze e per qualche furtiva carezza. I due ragazzi erano fidanzati da quasi un anno. Giuseppe non era di casato nobile, ma figlio unico di don Francesco, distinto avvocato e ricco proprietario di Policastrello. Il giovane aveva seguito le orme paterne laureandosi in legge nella capitale. L’avvenire si spalancava roseo davanti a lui. Aveva ventiquattro anni, l’età giusta per mettere su casa. Slanciato, dall’aspetto signorile, non si era fatto irretire dalle bellezze dei salotti napoletani dove era conteso da tante nobili donzelle in cerca di marito. Nel suo cuore, infatti, c’era solo posto per Agnese, la figlia di don Saverio Campolongo, barone di San Donato.
Giuseppe era cresciuto spensierato, viziato ma nello stesso tempo abituato alla durezza della vita. Assieme al padre, aveva fatto parte delle squadriglie che, comandate dal capitano don Ludovico La Costa, davano la caccia ai briganti che spadroneggiavano nella valle dell’Esaro e dintorni. A Napoli, aveva frequentato i salotti bene e, tra il lusso e i vizi della nobiltà
, aveva fatto le sue prime esperienze amorose. Mariti occupati negli affari e nella ricerca del proibito nei bordelli di Napoli, trascuravano le mogli che, annoiate, trovavano il loro passatempo e nuove sensazioni tra le braccia di giovanottini in cerca di avventure. Uno di quei mariti; don Rocco Sambiase, fu costretto dalle circostanze a sfidare in un duello alla spada il giovanotto calabrese che aveva attentato alle virtù
della moglie. Giuseppe aveva coraggio e sangue caldo e il giorno stabilito si fece trovare con i testimoni sul luogo del duello. In poco tempo disarmò il malcapitato marito che, oltre al presunto danno
, subì le beffe dei salotti napoletani. La fama dello studente calabrese aumentò e con essa la curiosità delle dame che se lo contendevano. I mariti erano ormai sul chi vive
e una notte Giuseppe scampò per miracolo a un attentato. Tra le intrigate vie dei quartieri spagnoli venne attaccato da alcuni manigoldi che, armati di pugnali, attentarono alla sua vita. Il bastone animato che portava con sé lo salvò e, da quel momento, uscì solo di giorno. Dopo la laurea, ritornò a casa e, sazio delle esperienze fatte, mise la testa a partito.
La prima domenica di settembre, don Saverio Campolongo, per devozione, seguito da gran parte dei sandonatesi, si recava in pellegrinaggio al santuario del Pettoruto. Il corteo si snodava lungo il sentiero che conduceva a San Sosti e ad esso si aggiungeva, come di consueto, la gente di Policastrello.
Don Ciccio Servidio, notabile del luogo, aspettava l’arrivo del barone e, seguito dai suoi, ingrossava il gruppo dei sandonatesi. Quell’anno, Giuseppe, che da poco aveva fatto ritorno in Calabria, si aggiunse ai pellegrini e assieme ai genitori prese la via del Pettoruto. Era una bella giornata settembrina. Il sole stava per far capolino e la frescura mattutina metteva allegria nell’eterogeneo gruppo che, al suono degli organetti e dei fischietti di canna, andava verso il santuario. Donna Serafina e la figlia Agnese avanzavano tra la folla a dorso dei due asinelli che i servi portavano per le briglie, mentre il barone e don Ciccio parlavano dei loro affari. Fu in quella circostanza che Giuseppe notò per la prima volta Agnese. In realtà il ragazzo la ricordava bambina e antipatica, quando, al matrimonio della sorella Nicoletta con don Melchiorre Zagarese, faceva i capricci e la smorfiosa con i coetanei del paese e sbeffeggiava i ragazzini di Policastrello. Quella volta a Giuseppe era venuta la voglia di prenderla a sculacciate, mentre ora che gli anni erano passati non riusciva a rivedere in lei quell’antipatica che lo metteva di cattivo umore.
Agnese era scesa dalla cavalcatura per sgranchirsi un po’ e camminava dietro il padre riparandosi dal sole con un ombrellino bianco con frange ricamate. Alta e slanciata, possedeva un portamento austero ed elegante che metteva soggezione. Il suo sguardo era fisso e, malgrado la veletta le nascondesse gli occhi, si poteva indovinare un’espressione poco incoraggiante per le attenzioni di coloro che le rivolgevano lo sguardo. Giuseppe più volte cercò di farsi notare, ma la ragazza, dai capelli a boccoli di color rosso tiziano, non lo degnava di uno sguardo. Lui, abituato alle civetterie delle ragazze napoletane, che, al minimo cenno di attenzione, si offrivano con spregiudicata naturalezza, mal sopportava l’altero comportamento di Agnese e, tanto più quella mostrava noncuranza, tanto più lui veniva attratto da lei. Cosa le passa per la testa? Non sa che io ho avuto le più belle ragazze di Napoli? Chi si crede di essere?
andava ripetendosi mentre le camminava a fianco.
Il caldo cominciava a farsi sentire e quando, in vista del santuario, la strada cominciò a salire, Agnese ormai stanca cercò di montare sull’asino che il servo aveva messo a fianco di uno scalino naturale per facilitare la salita della padroncina. Il terreno le cedette sotto i piedi e sarebbe caduta sul selciato se Giuseppe non l’avesse afferrata per la vita quando ormai si sentiva persa. Fu allora che i due si guardarono per la prima volta in viso. Lei per un istante aveva perso la sua spavalderia e sembrava fragile e sperduta. Giuseppe lesse nei suoi occhi verdi avversione e fastidio per aver avuto bisogno dell’aiuto di quel giovanotto che non le staccava gli occhi di dosso. Quando poi il giovane, cavallerescamente, l’aiutò a salire sull’asino, lei non poté fare a meno di ringraziarlo e lui, inchinandosi, la guardò negli occhi dicendole: Giuseppe Servidio, servo di vostra signoria
. Al ragazzo non sfuggì l’imbarazzo e il rossore che all’improvviso si era impadronito delle guance della ragazza e in cuor suo cominciò a sperare.
II
Il Santuario, rifatto a nuovo dopo il terremoto del 1783 che lo aveva distrutto, era apparso all’improvviso agli occhi dei pellegrini, circondato da secolari cerri e faggi e dalla Mula, dal varco del Palombaro, dalla Serra Scomunicata, dal Cozzo del Pellegrino che come una perla in una conchiglia da secoli lo custodivano gelosamente. Stranamente, quel giorno non c’erano altri pellegrini e la spianata davanti alla chiesa fu tutta per i sandonatesi.
Don Michele Mirabelli, il parroco, accolse gli ospiti e li invitò alla messa che avrebbe celebrato per loro. Agnese vide per la prima volta la statua della Madonna con il Bambino e si incuriosì. Gli occhi della Vergine e del Bambino erano neri e spiritati, non erano dolci e buoni come in altre raffigurazioni. Nello stesso tempo, però, emanavano un qualcosa di inspiegabile che ti prendeva e ti metteva in comunione con il trascendente. Nel santuario c’erano delle donne che da Buonvicino e Diamante, a piedi, attraverso un tratturo di montagna, erano arrivate la sera prima e avevano dormito una sopra l’altra, per pregare la Madonna che le rendesse fertili, visto che lei era la protettrice delle donne sterili; e il rametto di melograno che teneva stretto nella mano destra lo confermava, essendo quella pianta, secondo i greci, simbolo di fertilità.
Per tutto il tempo della messa Giuseppe non staccò gli occhi da Agnese che, al contrario, in ginocchio, assorta, seguiva la messa.
Dopo il termine della funzione, i pellegrini presero posto sullo spiazzale antistante la chiesa. I servi del barone stesero sul prato, all’ombra di un carrubo, una tovaglia a quadroni, attorno alla quale sedettero don Saverio e la famiglia. Don Ciccio venne invitato a sedere con loro e Giuseppe volutamente prese posto accanto ad Agnese. Dalle ceste in vimini i servi presero il ben di dio: soppressate, capicolli, uova sode, varie frittate, uva duraca
, pere e vino in quantità. Inizialmente la galanteria del giovane avvocato mise a disagio Agnese che, a poco a poco, si sciolse dal gelo che la attanagliava. La zia Carmela, la bizòca
sorella del padre, si era presa cura della sua educazione e le aveva insegnato a diffidare degli uomini perché impuri e frutto del diavolo. L’uomo che potrai guardare sarà quello che ti chiederà la mano. Dovrà essere ben accetto ai tuoi e solo quando diventerà tuo marito avrà diritti su di te. Ricordati, figlia mia, che gli uomini su diavuli
. A furia di sentire sempre quella tiritera la ragazza aveva finito per convincersi, e la sola vicinanza ad un uomo la metteva in difficoltà.
Questa volta, però, in Agnese stava succedendo qualcosa. Quel ragazzo non le faceva paura, e i suoi modi garbati e la sua voce maschia e dolce nello stesso tempo si insinuavano in lei. Quando, dopo la colazione a sacco, gli organetti cominciarono a suonare e la gente iniziò a ballare, Giuseppe chiese al barone il permesso di ballare con la figlia, che non poté rifiutare l’invito del giovane, visto l’assenso del padre. Durante il ballo, Agnese, per la prima volta ebbe sensazioni mai provate.