Cinque figli e venticinque baby sitter
Di Paola Amadei
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Anteprima del libro
Cinque figli e venticinque baby sitter - Paola Amadei
Ananas fresco a colazione
Devo cambiare vita, questo lavoro non mi piace, non fa per me, me ne devo andare da qui. Persino il mio corpo ultimamente mi ha dato segnali forti che non tollera più questa vita, tiroide in crisi, tachicardie violente.
Che strano, la prima presa di coscienza l’ho avuta in una situazione che chiunque altro avrebbe ritenuto invidiabile. Ero in uno dei migliori hotel di Friburgo insieme al mio team della KPMG di Colonia con cui curavamo la revisione di bilancio di una importante società di assicurazioni. Quella mattina ero stizzita perché mancava l’ananas fresco a colazione. E così per consolarmi mi sono avventata sugli ottimi croissant al burro in perfetto stile francese, quelli sì freschissimi. In un raptus di appetito e irritazione ne ho fatti fuori cinque. Certo mi ero alzata presto e avevo già fatto il mio giro di corsa mattutino. Ero pronta per affrontare una lunga giornata su conti e bilanci. Il lavoro mi richiedeva una grande concentrazione, ma quel pensiero mi ronzava ogni tanto in testa, anche la sera dopo cena mentre passeggiavo per il centro con i miei colleghi guardando verso la guglia del duomo, il Freiburger Münster, che si stagliava nel blu cobalto di una splendida serata primaverile.
Rientrata a Colonia alla fine della settimana sapevo cosa dovevo fare: avevo bisogno di qualcosa di radicalmente diverso nella mia vita, almeno per un periodo. In più di due anni lavorando in Germania avevo messo da parte una cifra sufficiente da potermi permettere di mantenermi per qualche mese mentre riflettevo sul mio futuro. Volevo andare lontano, fare esperienze diverse. Volontariato, ecco sì, dedicarmi per un periodo agli altri mi avrebbe aiutato a focalizzare non solo che lavoro volevo fare ma quale stile di vita avrei voluto avere. Sentivo che non volevo fare un lavoro che mi assorbiva per più di cinquanta ore alla settimana, che mi portava in trasferta per sei mesi all’anno, alloggiando in hotel di lusso, servita e riverita al punto da cambiare umore se non c’era l’ananas fresco a colazione.
Certo mi divertivo, avevo girato più o meno tutto il nord Europa, la vita a Colonia era più che piacevole, avevo tanti amici con cui nel fine settimana andavamo a Parigi, Bruxelles, Amsterdam, anche Londra era a meno di un’ora d’aereo. E se rimanevo a casa, si andava a vedere mostre di arte moderna e contemporanea di cui Colonia è uno dei centri più importanti in Europa, o passavamo le serate nei Biergarten. Ma, ecco appunto c’era un ma, volevo vedere altro della vita.
E così cominciai a contattare organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Capii ben presto però che non era una via percorribile, non per fare un’esperienza di qualche mese. Proponevano tutte un periodo di formazione di sei mesi prima di mandarti nei paesi in cui operavano. Ma io volevo partire subito, prima possibile. Sono fatta così: quando sento un impulso che mi porta a prendere una decisione esistenziale, devo metterla in atto subito, non posso aspettare.
Scrissi alle Suore Missionarie della Carità di Calcutta. Mi rispose la responsabile dei volontari: vieni, ti aspettiamo al 54° di A. J. Chandra Bose Road. Diedi le dimissioni e il 26 giugno del 1993 partii per Calcutta. Se mia figlia oggi facesse una cosa del genere andrei nel panico. I miei genitori invece presero la mia decisione con la solita pacatezza dettata da una sconfinata fiducia in me e nelle mie capacità di gestire la mia esistenza con successo. D’altronde avevo 26 anni, mi ero laureata brillantemente alla Bocconi da quasi tre anni e vivevo a millecinquecento chilometri da loro, che all’epoca avevano comprato un podere in Maremma e passavano sempre più tempo lì a coltivare viti e ulivi piuttosto che a Bolzano, la nostra città d’origine.
Arrivare a Calcutta alle undici di sera per una ragazza sola non è proprio una buona idea. Sapendolo, avevo tutte le intenzioni di passare la notte in aeroporto per poi raggiungere la città il giorno dopo. Ma venni subito attorniata da tassisti abusivi che mi offrivano un passaggio. Per fortuna arrivarono due angeli in mio soccorso, due ragazzoni italiani in compagnia dei quali potei affrontare in maniera più sicura i miei primi giorni lì.
Nessuno dei tre aveva intenzione di gettarsi subito a capofitto nell’esperienza del volontariato per cui passammo i primi giorni a visitare la città, alloggiando in un ostello pulito ma infestato da grossi scarafaggi. Quando finalmente decidemmo di recarci alla Casa Madre (Mother House era chiamato il quartier generale dove viveva anche Madre Teresa), suor Shanti, la responsabile dei volontari ci mise subito in riga: Santa Messa la mattina alle sei, poi colazione tutti insieme a base di te, un pane da toast tagliato grosso davvero buonissimo e banane. Poi tutti al lavoro, chi al dispensario, chi all’orfanotrofio, chi con gli anziani o al lebbrosario. Alle sei di sera tutti di nuovo in Casa Madre per il Rosario e subito dopo cena tutti a nanna. Io trovai alloggio con altre ragazze e nonostante all’inizio non fossi molto dell’idea di seguire gli impegni di preghiera, capii ben presto che quello era il necessario nutrimento spirituale per poter affrontare la giornata a contatto con una realtà così dura.
D’altra parte c’era la massima libertà di vivere l’esperienza spirituale, c’erano persone di tutte le fedi, buddisti che meditavano nella posizione del loto, giapponesi scintoisti, indù locali. Si stava lì tutti insieme accomunati dal sentimento di compassione che aveva spinto tutti quanti verso quell’esperienza. E la presenza di Madre Teresa, le parole di incoraggiamento che ci rivolgeva ogni mattina prima che ognuno andasse ad affrontare il proprio impegno, erano la trama che teneva insieme tutto.
Non passarono due settimane che rischiai di dover mettere termine all’esperienza che stavo vivendo: mi rubarono lo zaino con dentro il portafoglio, i soldi ma soprattutto il passaporto. Non mi preoccupai più di tanto perché per fortuna avevo i travellers cheque in camera.
Andai al consolato pensando che potessero farmi un passaporto sostitutivo, o almeno un foglio o uno straccio di documento con cui certificare la mia identità e poter poi tornare in Italia. La console mi trattò molto duramente, mi disse che lei non poteva darmi nessun documento sostitutivo, che senza un passaporto avrebbero potuto arrestarmi e mi avrebbero violentata in carcere e che l’unica cosa che poteva fare era rimpatriarmi all’istante, sul primo aereo. Declinai la gentile offerta e me ne tornai sconsolata all’ostello. Cosa fare? Non potevo accettare una sconfitta simile, e soprattutto non avevo un piano B, avevo bisogno di quel tempo per riflettere sulla mia vita e decidere cosa fare del mio futuro. Non potevo tornare dopo sole due settimane!
Il giorno dopo feci come se nulla fosse, andai all’orfanotrofio. Occuparmi dei bambini, farli giocare, cantare, vivere qualche momento di gioia e divertimento, mi fece scacciare almeno per un po’ i tristi pensieri.
Quel giorno preparammo Shaila per la partenza. Cinque anni e due immensi occhioni scuri e brillanti come due stelle. I genitori adottivi erano arrivati dal Belgio per portarla con sé e lei non stava più nella pelle. Sapeva che sarebbe stata vestita come una principessina e che le avremmo fatto una festa di commiato in cui sarebbe stata al centro dell’attenzione, ed era allegra come non mai. La abbracciai forte, tanto da sentire il suo corpicino ossuto e fragile, le sue scapoline. Era già una donnina, alla sua età si prendeva cura dei più piccoli, aveva i suoi preferiti tra quelli di un anno o due. Si commosse un po’ a salutarli, ma poi andò gioiosa e fiduciosa verso la sua nuova vita.
Nel pomeriggio mi mandarono a chiamare: vai subito alla Casa Madre. Oh no, la console mi faceva prelevare per rispedirmi in Italia? Quando arrivai mi venne subito incontro Sister Shanti: vieni, presto, the Mother wants to talk to you. E mi condusse al piano di sopra. Nel lungo corridoio tra la cappella e la sua stanza c’era Madre Teresa che mi guardava sorridendo. Aveva in mano il mio passaporto, me lo porse con aria benevola. Qualcuno l’aveva gettato nella cassetta della posta di Casa Madre. Give it to Her
. Come sarebbe a dire, a chi lo devo dare, adesso che l’ho ritrovato?!? Offrilo alla Madonna, è lei che te l’ha fatto riavere
. Ah ok capito. Mi ritirai qualche minuto in preghiera davanti alla statua della Madonna. Evviva! Potevo restare. Fino a quando? Non avevo fissato la data del ritorno sul biglietto aereo.
Ripresi i miei ritmi di volontaria, scoprii che mi piaceva molto il lavoro al dispensario, una sorta di ambulatorio di strada dove la gente veniva a farsi medicare ferite, a farsi ripulire i tagli dai vermi, a farsi fare una prima valutazione su tutti i sintomi di questo mondo. Lì feci amicizia con Carolina, una mia coetanea di Madrid che aveva qualche nozione in più di infermieristica rispetto a me e mi insegnò diverse cose.
Un giorno Sister Shanti ci convocò e ci disse che voleva mandarci a Shanti Nagar, un lebbrosario gestito da loro in mezzo alla foresta. Per arrivarci bisognava prendere il treno fino ad Asansol, poi fare un tratto in autobus e infine seguire un sentierino tra gli alberi.
Era davvero un luogo di grande pace, un centro quasi del tutto autosufficiente, con orti, coltivazioni e allevamenti di polli e maiali. C’erano lebbrosi di tutte le età, intere famiglie, genitori e figli a stadi diversi della malattia. Gli arti irrigiditi venivano immersi nella cera liquida in modo che riacquistassero mobilità e si potesse fare un po’ di fisioterapia, cosa che porta grandi benefici agli ammalati intanto che aspettano i benefici della cura. Poi ovviamente c’erano le piaghe da curare.
Al pomeriggio portavamo i bambini a fare lunghe passeggiate fino ai grandi laghi alle pendici dell’Himalaya oppure davamo una mano negli orti.
Com’era lontana la mia vita precedente, in tutti i sensi, materialmente, mentalmente, idealmente.
Un altro passo nella giusta direzione
Qualche giorno dopo il ritorno a Calcutta, una mattina Sister Shanti mi si rivolse con aria molto seria: devi chiamare subito casa tua in Italia, ha telefonato tuo padre ieri sera tardi. Ha svegliato la Madre perché dopo le otto di sera il telefono viene girato sul suo personale che tiene in camera.
Pensai a qualcosa di grave e mi recai subito ad un centro telefonico per le chiamate internazionali. Mi rispose mio padre con voce molto allegra. Aveva una bella notizia da darmi: ero stata ammessa al master in gestione dell’ambiente a cui avevo mandato una application poco prima di partire.
Era un programma fantastico, multidisciplinare, aperto a economisti, ingegneri, giuristi, medici e scienziati di varie discipline, aderivano 15 università in tutta Europa. Un modulo comune da frequentare a scelta tra quattro diverse università e un semestre di indirizzo, per formare i futuri esperti della tutela ambientale.
Mi ero iscritta perché mi interessavano e mi affascinavano molto le problematiche dell’ambiente, ma richiedevano già un minimo di esperienza nel campo, e io non ne avevo. Mai avrei immaginato di poter essere ammessa. Era davvero una buona notizia, l’inizio di un futuro professionale differente e di una vita diversa. Niente più carrierismo, niente più vita da yuppie¹, la possibilità di lavorare in un ambiente alternativo di gente che ha a cuore il futuro del pianeta.
Avevo un mese di tempo per rientrare dall’India, decidere dove frequentare il primo modulo e trovarmi una sistemazione. Bruxelles era l’unica sede in cui il modulo era in francese invece che in inglese, e io so tedesco, inglese e spagnolo ma non il francese. Trier? No, ancora Germania no. Atene? Beh sì, non sarebbe male immergersi per un po’ nella cultura ellenistica, ma mi ispira di più il Politecnico di Torino, con la sua aura di scientificità, ancora la mia ambizione mi spinge a scegliere un ambiente che ritengo prestigioso. Ho deciso, vado a Torino, così passo ancora qualche mese in Italia prima di lanciarmi in nuove avventure, sì perché ovviamente penso che dopo di certo non mi fermerò, andrò magari in America o chissà dove…
Appena rimesso piede in Italia chiamo i miei cugini di Torino per dire loro che andrò presto a trovarli. Sono di Mantova, come tutta la famiglia di origine di mio padre, ma lui è stato trasferito a Torino per lavoro da qualche tempo. Hanno un figlio adolescente, una casa grande e molto bella, col giardino. Sono persone fantastiche, simpatiche e accoglienti. Mi offrono subito di stare da loro, hanno una stanza indipendente. Accetto di