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Un posto bellissimo
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E-book207 pagine2 ore

Un posto bellissimo

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Anno 1994. È la storia reale di una famiglia siciliana, la cui serena quotidianità viene stravolta dalla malattia della protagonista: Giusy, ultima di tre sorelle. Giusy “la guerriera”, come la chiama spesso mamma Lia, è una bambina di soli 8 anni che si trova a dover lottare contro quel male che non conosce età né confini: tumore. Nella sua testa è presente una “massa cerebrale”, parole in grado di fermare il cuore. Ancor di più in questi casi, il tempo non concede pause, bisogna correre più veloci del male. Dopo numerose consulenze mediche, si parte per il primo viaggio di speranza. Giusy viene ricoverata all’ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano, sotto le cure del professor Versari e di tutto il suo staff. Risponde alle domande dei dottori con intelligenza pur nell’ingenuità e nel candore della sua giovane età. Papà Paolo e mamma Lia trapelano paura, ansia, preoccupazione, in un susseguirsi di interrogativi sulla sorte della loro piccola a cui, però, nessun medico può dare risposte certe. Nella “città” del Niguarda, la famiglia si confronta con i più terribili demoni interiori, ma ritrova tanti angeli in carne e ossa, portatori di esperienza, saggezza, umanità, rispetto, amorevolezza... fiducia. 
Quasi per assurdo quella malattia renderà la loro famiglia più unita e, in quelle corsie d’ospedale, fra una flebo da fare e pacchi di Natale da scartare, conosceranno la pura bellezza delle piccole cose. Il racconto di Giovanni Montalbano è attraversato da commoventi pagine di gioia o dolore e rappresenta un input per tutti coloro (ma non solo) che all’improvviso si trovano ad affrontare una vita “diversa”, a cambiare i piani della propria esistenza, acquisendo la consapevolezza che qualcosa potrà non andar bene, ma che non tutto andrà necessariamente male.

Giovanni Montalbano, cantautore e scrittore, è nato a novembre del 1983 in Sicilia, in particolare a Ribera (AG). Oggi vive con sua moglie e i suoi due figli a Taormina, la “grande bellezza” che può ammirare da vicino, in cui scrivere gli viene quasi naturale. Un posto bellissimo è il suo primo libro da autore. Scrivere per lui è stato da sempre un bisogno; da una semplice canzone a qualcosa di più espanso e articolato. Da cantautore ha pubblicato diversi brani inediti, tra cui In un’estate così, Meravigliosi limiti e Vieni in sicilia.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2021
ISBN9788830640979
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    Anteprima del libro

    Un posto bellissimo - Giovanni Montalbano

    cover.jpg

    Giovanni Montalbano

    Un posto bellissimo

    Una storia vera

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3609-5

    I edizione maggio 2021

    Finito di stampare nel mese di maggio 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Un posto bellissimo

    "Con tutto il cuore,

    in ricordo del neurochirurgo, primario,

    amico e grande uomo:"

    Pietro Primo Versari

    Ringraziamenti

    Prima di tutto, devo dire grazie a mia moglie Antonietta per la sua pazienza, per avermi sposato e per avermi donato, in questi quasi 5 anni di matrimonio, due splendidi figli: Gabriele e Alessandro.

    Un grazie particolare va alla dottoressa psicologa Elisabetta Turano per avermi autorizzato a introdurre, nella storia del libro, un personaggio di sua invenzione, Coriandolino, il piccolo mago-amico della pediatria dell’ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano.

    Grazie al professore Lillo Mantione che mi ha donato parte del suo tempo, mettendo a disposizione la sua preziosa arte per la realizzazione della copertina.

    Grazie al mio gruppo di lettura, fatto di persone amiche che già conoscevo e di altre che ho avuto la fortuna di incontrare durante questo lungo e affascinante cammino: Vita Verde, Sara Spina, Anna Poggio, Lorena Montalbano, Maria Luisa Santangelo e Alessia Reggina.

    Mi sento più che onorato ad avere avuto l’opportunità di lavorare con tutti voi.

    UNO

    Il destino: da Frankenthal a Ribera

    Mi chiamo Lia Gulino e ho 61 anni. Per raccontarvi come tutto ha avuto inizio devo portarvi indietro col tempo. 1994, Ribera, uno dei paesi più grandi demograficamente della provincia di Agrigento, famosa in tutto il mondo per la sua arancia bionda Washington Navel. La sveglia ogni giorno suonava alle 06:00 in punto e, il tempo di una doccia e vestirmi, cominciavo a buttare giù dal letto tutte e tre le mie figlie: Manuela, Mariella e Giusy rispettivamente di 17, 14 e 8 anni. Ogni giorno trascorreva velocemente e sembrava delineare sempre lo stesso schema se non fosse che le mie figlie crescevano, cambiavano e io e mio marito Paolo invecchiavamo. Dopo una bella colazione cominciava il solito giro. Alle 8:00, per prima accompagnavo Mariella che frequentava il terzo superiore all’istituto magistrale, alle 8:15 toccava a Manuela che faceva la terza media e per ultima Giusy che andava in terza elementare. Finito il giro ero diretta all’ospedale Fratelli Parlapiano di Ribera. Come coordinatrice di un’impresa di pulizia, mi occupavo giornalmente dell’organizzazione del lavoro dei vari dipendenti e dovevo riportare poi il tutto al direttore sanitario. Il giorno più pesante di ogni mese era il ventisette. Controllavo e firmavo i vari documenti ai dirigenti per il pagamento delle buste paga. Ogni volta il solito tran-tran ma tutto sommato quel lavoro mi piaceva. Nonostante fossi sempre a contatto con la gente, non avevo tante amiche, non ho mai avuto un’amica del cuore o una persona con cui confidarmi, tranne mio marito. Ricordo che una volta mia figlia Giusy mi fece leggere il tema che aveva svolto in classe: Descrivi tua madre.

    Mia madre pesa 52 kilogrammi e ha gli occhi grandi e castani. Ha portato sempre gli occhiali. Lei mi dice che soffre di astigmatismo ma io non so cosa sia. Ha sempre qualcosa da fare in casa e quando viene una sua amica a trovarla, dopo cinque minuti, la sua amica va via perché lei non sa stare ferma e deve sempre fare qualcosa. Glielo dico sempre che così nessuna amica vuole stare con lei ma mi risponde che non le dispiace perché non vuole avere tante amiche.

    I bambini dicono sempre la verità e Giusy, con il suo tema, aveva descritto esattamente il mio modo di essere, chiusa in me stessa con i miei pensieri, i miei problemi, le mie gioie e sofferenze. Paolo mi ha conosciuta così e mi ha sempre accettata per quello che sono, al contrario delle mie figlie. Penso che sia rimasto in me quel carattere da cittadina. Sono nata e cresciuta a Ragusa che ha il triplo di abitanti rispetto a Ribera. Vi ho vissuto fino a 15 anni e ricordo di avere avuto un’adolescenza felicissima. Avevo con mio padre un rapporto bellissimo. Lui mi accontentava su tutto. A 14 anni mi comprò la Vespa 50 Piaggio che nel 1970 possederla era un po’ un lusso. I ricordi legati alla mamma sono invece malinconici. Avevamo un rapporto freddo e distaccato. La mamma soffriva di grave depressione. Io, mio fratello e le altre mie tre sorelle avvertivamo quell’assenza di affetto nei nostri confronti. Lei lasciava spesso che fosse papà a occuparsi di noi. La sua depressione le impediva di rispondere anche ai nostri bisogni primari. Non ricordo un abbraccio, una coccola ma soprattutto non riesco a ricordare il sorriso di mia madre. All’età di 15 anni tutta la mia famiglia emigrò in Germania. Mio padre, dopo trent’anni di attività, chiuse l’azienda per fallimento. Arrivati a Frankenthal, una città del centro sud della Germania, anch’io cominciai a lavorare per aiutare economicamente la mia famiglia. Lasciai la scuola anche se a me piaceva moltissimo studiare, sognavo di diventare una maestra. Il mio primo lavoro fu in una fabbrica di prodotti congelati, mi occupavo del confezionamento delle singole scatole. Non conoscevo neanche una parola in tedesco e, specialmente le prime settimane, ritornavo a casa con un certo mal di testa. Non era facile stare otto ore all’interno di un posto di lavoro senza poter comunicare con nessuno. Mi sentivo inutile ma era tanta la voglia di riuscire a dare un po’ di aiuto alla mia famiglia che mi chiudevo nei miei pensieri e andavo avanti. Ricordo il giorno in cui il capo reparto, con qualche parola anche in italiano, mi diede un pacco con all’interno della pasta sfoglia congelata e mi disse di sistemarlo dentro i regale. Io pensai che me l’avesse regalato e me lo portai a casa. In tedesco regale significa scaffali. Facemmo una grande mangiata in famiglia. C’erano circa due kilogrammi di pasta sfoglia in quel pacco e ce ne fu abbastanza per tutti quella sera. Due giorni dopo il capo reparto mi chiese in quale posto lo avessi messo. Capii di aver fatto una cavolata e mi misi a piangere perché non riuscii a spiegarmi bene in tedesco. Lui capì che ci fu un errore non voluto, con gentilezza e col suo italiano mi disse: «No preoccupare Lia, tuto okay» e mi abbracciò. Da quel momento mi resi conto che l’esigenza di conoscere la lingua tedesca doveva acquisire una certa priorità nella mia vita. Andai da Mercedes, una mia collega spagnola, che fino al giorno prima mi aveva chiesto di insegnarle a parlare l’italiano perché aveva conosciuto un ragazzo di Firenze e voleva partire per andarlo a trovare. Lei conosceva benissimo il tedesco e così facemmo l’accordo di diventare rispettivamente alunna e insegnante. Se prima di allora sentire parlare in tedesco mi procurava forti mal di testa, da quel momento, cercai solo di imparare dai colleghi tedeschi qualche nuovo vocabolo, giorno per giorno. Lo sforzo fu immane. Nell’arco di sei mesi riuscii a parlare il tedesco e in un anno anche a leggerlo e a scriverlo. All’età di 17 anni ho voluto dare una svolta alla mia vita. Volevo trovare un posto migliore rispetto alla monotonia lavorativa che c’era in fabbrica. Elga, una collega di lavoro, un giorno mi disse che al Central Hotel cercavano una recet hilf (aiutante reception). Mi diede l’indirizzo e il giorno stesso, dopo aver finito la mia giornata lavorativa in fabbrica, ci andai. Mi presentai al direttore, una persona che a vederlo sembrava tutta di un pezzo, invece si dimostrò simpaticissimo e molto accogliente. Si chiamava Silvio Ruggero ed era napoletano. Dopo il colloquio mi disse che, se avessi voluto, avrei potuto cominciare anche subito. Ero strafelice, finalmente davo un senso alla mia vita. Appena una settimana e cominciai questa mia nuova avventura. Il tempo scorreva velocemente a lavoro. Il direttore, dopo alcune settimane, mi diede altre mansioni. Dovevo occuparmi della prenotazione dei vini, di redigere l’inventario, programmare il lavoro per i vari dipendenti. Sentivo mio quell’hotel e il direttore era felice di aver trovato una persona come me. Dopo circa due anni che ero lì conobbi Pina, una ragazza siciliana che lavorava in cucina. Lei era originaria di Ribera. Nel tempo libero si stava un po’ insieme a parlare. Io come al solito ero molto chiusa ma lei si confidava tantissimo. Un giorno, durante la pausa pranzo, mi raccontò che suo marito le scrisse una lettera manifestando il desiderio di ritornare a vivere con lei. Erano separati da circa sei mesi e il loro unico figlio abitava in Inghilterra con il padre. Da diciannovenne senza esperienza le consigliai di parlarne con mio padre e così venne a casa mia. Dopo una chiacchierata di fronte a un semplice pranzo, lei decise di rispondergli, dicendogli di essere disposta a ricominciare e che lo avrebbe aspettato a Frankenthal. Da lì sarebbero ripartiti insieme per l’Inghilterra. Arrivò quel giorno, il 10 ottobre del 1974 e lei volle che l’accompagnassi anch’io alla stazione. Mi venne a prendere in macchina con suo fratello Paolo. Il treno, dal quale scese suo marito, arrivò puntuale a Frankenthal. Si diedero un lungo bacio, fui felice per lei. Prima di salire su quel treno e partire definitivamente, Pina mi abbracciò e mi ringraziò per quello che avevo fatto per lei. Salutò suo fratello Paolo e partì per l’Inghilterra, dove ad aspettarla c’era suo figlio e la sua nuova vita. Quel giorno tornai a casa accompagnata da Paolo che cercò in tutti i modi di entrare in confidenza ma il mio carattere, piuttosto schivo, non glielo permise. Dopo una decina di giorni dalla sua partenza, Pina mi scrisse e mi raccontò che con suo marito erano nuovamente felici insieme. Quel periodo di lontananza alla fine gli aveva fatto solo bene e l’Inghilterra non era poi così male, anche se il desiderio di ritornare in Sicilia rimaneva vivo in lei. Soprattutto mi scrisse di suo figlio che aveva ritrovato il sorriso e aveva ricominciato ad andare a scuola. Arrivarono altre lettere da parte di Pina. Io ad alcune neanche risposi e non perché non avessi niente da raccontarle, ma per il semplice fatto che non mi andava di dirle le mie cose personali. In una lettera in particolare Pina mi fece delle domande: «Devi raccontarmi qualcosa su mio fratello che io non so? Lui ha rotto con la sua ragazza perché ha preso una cotta per un’altra donna. Tu ne sai niente? Comunque, saresti una cognata un po’ taciturna ma io ti voglio bene così, per come sei. A presto.»

    Dal giorno della partenza della sorella, Paolo trovava sempre una scusa per venire a casa mia. A me questo col passare del tempo non dispiacque. All’inizio Paolo mi sembrò un po’ invadente e fastidioso ma poi, conoscendolo bene, il mio pensiero cambiò totalmente. Aveva 22 anni e aveva perso tutti e due i genitori. Anche per questo motivo mio padre lo accolse volentieri e fra di loro nacque una bella amicizia. Io e Paolo, un anno dopo, ci ritrovammo sposati e Pina diventò mia cognata. Pensandoci bene, il destino volle che quel giorno da responsabile del personale di un Hotel a Frankenthal, incontrassi Pina e che la mia vita cambiasse totalmente direzione. Dopo un paio di anni, per seguire mio marito nel suo lavoro, dovemmo lasciare la città di Frankenthal e ci trasferimmo a Derback. Il giorno della partenza, tutti i colleghi e il personale dell’hotel mi organizzarono una festa a sorpresa. Lasciai con non poca malinconia quel posto e quelle persone, per me erano diventate una seconda famiglia. Ricordo che fra me e il direttore ci fu un abbraccio intenso, uno di quegli abbracci che mi dava, sovente, mio padre. Non ci sentimmo più da quel giorno.

    La mia famiglia cominciò a ingrandirsi e dopo Mariella e Manuela inaspettatamente mi riscoprii in attesa per la terza volta. Mio marito, molto contento per tutta la durata della gravidanza, sperò fosse un maschio visto le prime due figlie femmine. A quei tempi non esistevano apparecchiature o esami che potessero stabilire fin dai primi mesi il sesso del nascituro. Il 5 marzo del 1986 nacque Giusy. Una splendida bambina di 4 kili e 200 grammi. Bellissima con i suoi occhi grandi e i suoi capelli neri, avevano già i boccoli. Sembrava avere 4-5 mesi visto le sue dimensioni. Per mio marito all’inizio fu una piccola delusione ma dovette ricredersi quando la prese per la prima volta in braccio. Pianse di gioia come un bambino. L’avrei voluta chiamare con un altro nome. Mi piaceva molto Monia o Jessica ma lo feci scegliere a Paolo, per non deluderlo un’altra volta.

    A dieci mesi Giusy già camminava e capiva sia il tedesco che l’italiano. Giocava con le macchinine, stava sempre con suo padre in garage e spesso lo aiutava a pulire l’auto. In verità, mia figlia nei primi anni di vita non era per niente femminile, si comportava come un vero maschiaccio. Diventò ben presto anche indipendente. A diciotto mesi saliva e scendeva le scale da sola. Si recava al piano di sotto della casa dove abitavano

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