TALITHA CUMI! Il Risveglio
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Info su questo ebook
In una vita di torpore, dove ogni cosa sembra senza colore né sapore, tra disanimo e affanno alla ricerca di qualcosa, inaspettatamente si rompe quella staticità soffocante. Dalla superficie, ci si addentra sino alla profondità dell’anima dell’autrice. Poco alla volta la pellicola in bianco e nero si ricolora e piano piano tutto torna alla vita sino a trovarsi finalmente svegli. Condividendo l’intimità di emozioni e sentimenti, ci permette di ritrovarci in quei bisogni e desideri che forse non sappiamo neppure di avere. Con un capovolgimento dal sonno alla veglia, dalle tenebre alla luce, questa storia ci prende per mano e ci porta negli aspetti più nascosti del nostro cuore.
In copertina: Photographerteam di Armando Tagliacarne.
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Anteprima del libro
TALITHA CUMI! Il Risveglio - Laura Gandini
Laura Gandini
TALITHA CUMI!
Il Risveglio
© 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-3505-4
I edizione gennaio 2023
Finito di stampare nel mese di gennaio 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
TALITHA CUMI!
Il Risveglio
PREFAZIONE
Caro lettore,
introdurre questo libro è un privilegio, il suo contenuto può avere le vesti di un racconto, di qualcosa di immaginato, che non ha a che fare con la realtà. Ma ogni parola e ogni evento trascritto sono la reale vita di una donna che poteva scegliere di nascondere buona parte del suo vissuto, ma che ha voluto, spinta da un amore più grande, raccontare a me e a te ogni parte di questo viaggio.
È un viaggio di una vita, vissuta come una lunga notte. Un viaggio di una donna che ha gridato dolore, disperazione, abbandono. Urla che sembravano non essere ascoltate, rumori che non sembravano disturbare, che hanno trovato l’orecchio di chi da sempre era lì a tendere la Sua mano.
Laura, da una adolescenza difficile, diventa carnefice di sé stessa, interpreta tutti i dolori di una vita che sembra non avere assonanza con il significato della parola stessa. Non c’è via di uscita se non l’angoscia, la trasgressione, la rabbia, la morte.
Eppure, in una completa fase del sonno, così come si identificano alcuni capitoli di questo libro, qualcosa cambia, gli occhi si aprono, in una ricerca autentica e miracolosa, intima e senza pari. Attraverso un’esperienza incredibile, Laura si spinge verso quello che è un trampolino di salvezza, o meglio, verso quello che è un risveglio da un sonno profondo e infinito.
In una sola richiesta tutto cambia in un susseguirsi di avvenimenti che stravolgono il percorso di una donna destinata al peggio.
Questo libro è un’esclamazione che esce dal cuore della scrittrice, che è passata da una Parola più alta e, spero, arrivi a echeggiare nelle tue orecchie. Ti consiglio di leggerlo come se dovessi cogliere in ogni riga una verità per te stesso e che tu possa arrivare a fare la stessa domanda che ha aperto una strada nel deserto di Laura: Io voglio seguirti! Come faccio? Vieni tu a cercarmi!
. Forse anche tu dovrai ALZARTI per mettere in atto quel cambiamento per la tua vita o per vedere nascere qualcosa di straordinario in questo mondo.
Buona lettura!
Luciana Basile
(collaboratrice Frontiers Italia Odv)
Quindi presa la fanciulla per mano, le disse: «Talitha cumi»; che tradotto vuol dire: «Fanciulla, ti dico: Alzati!».
Marco 5:41
ADDORMENTAMENTO
Desolazione. Solitudine. Tristezza. Paura. Apatia. Disperazione.
Da dove potesse originare questo denso buio che avvolgeva la mia esistenza non lo sapevo proprio.
Chiudendo gli occhi, la prima cosa che mi sarebbe potuta venire alla mente, era il buio di un luogo appartato, nel quale avrei dovuto sentirmi protetta, ma che sembrava piuttosto avermi tradito, vomitandomi addosso il dolore di un mondo che ancora non avevo visto.
Forse quella sfiducia aveva le sue radici proprio nel grembo di mia madre, lì dove avrei dovuto essere serena e custodita, almeno fino al momento della nascita, dove avrei dovuto ricevere le tenere carezze rassicuranti propagate dal liquido amniotico, mentre iniziavo a sperimentare i primi rumori di casa attenuati dal pancione.
Invece lì, in quel luogo segreto, dove il mio battito e quello di mia mamma avrebbero dovuto alternarsi in una sinfonia simbiotica, venivo probabilmente sospinta dai singhiozzi di una madre che a quel tempo, tranquilla, non poteva sicuramente essere, tra umiliazioni e tradimenti, delusa da un matrimonio scricchiolante.
Dubbio. Menzogna. Tradimento. Queste sono state le prime infezioni che si sono fatte strada nella mia esistenza.
Come fossero realmente le cose tra mio padre e mia madre non so, se non quanto ascoltato da racconti.
Quello che so è come tutto ciò che mia madre sperimentava emozionalmente si ripercuoteva in me come una conseguenza inevitabile.
Delusione. Frustrazione. Abbandono.
Mi sentivo sola. Incompresa. Senza certezze. Mi sembrava di non appartenere al mondo e che il mondo non appartenesse a me.
Mi sembrava di essere diversa da tutti gli altri. Io e mamma eravamo sole. Papà se ne era andato, a me era rimasta solo lei.
Forse se ne era andato per colpa mia? Forse non ero abbastanza?
O forse era colpa di mamma?
Questi i pensieri di una piccola bambina di due anni che sembravano rincorrermi giorno dopo giorno fino ad accompagnarmi all’età adulta.
Che la colpa fosse mia o di mamma non cambiava comunque il risultato, papà preferiva stare senza di noi e mi aveva lasciato con una mamma che non aveva tempo per me.
Tra lacrime in segreto e sorrisi di facciata in pubblico, mamma si affaticava nella dura occupazione che ad ogni essere umano è data sulla Terra: trovare il modo di arrivare a fine mese.
E mentre lei si inventava qualche lavoro che ci permettesse di mettere a tavola qualcosa, io guardavo affascinata gli altri bambini che avevano mamma e papà insieme e magari anche qualche fratello.
I tempi più duri per me erano le recite scolastiche. Tutti i bimbi avevano i loro genitori che li guardavano orgogliosi, mentre io ero per la maggior parte delle volte da sola perché mamma non riusciva magari a prendere il permesso da lavoro.
Mi guardavo sempre intorno cercando mamma, credendo che magari prima o poi sarebbe arrivata e addirittura lo pensavo di papà.
Anch’io desideravo una famiglia, una famiglia normale. Desideravo essere amata. Quella speranza che un giorno lo sarei stata sembrava farsi sempre meno convincente con l’avvicinarsi dell’adolescenza.
Così imparai ad arrangiarmi, iniziai a pensare di badare a me stessa. Non potevo fidarmi di nessuno, avrei dovuto fare da sola.
Con un po’ di intraprendenza, decisi che avrei avuto anche le risorse economiche che in casa non avevamo. Mamma non avrebbe più risposto: Mi dispiace Laure’, non te la posso proprio comprare quella meringa, non ho i soldini
. Non sarei più rimasta con aria sognante davanti al vetro della panetteria immaginandone il sapore.
Decisi che avevamo bisogno di soldi e che ci avrei pensato io.
La mia carriera da imprenditrice iniziò sulla spiaggia a Fregene. A due anni e mezzo mi tolsi gli zoccoletti dai piedi e conclusi un affare con un venditore ambulante: diedi i miei zoccoletti in cambio di mille lire
per tornare poi soddisfatta sotto l’ombrellone mentre mia madre rincorreva il fortunato affarista convincendolo a farsi restituire gli zoccoletti.
A quattro anni chiedevo i miei vestitini da neonata per giocare con le bambole, per poi sgattaiolare lontano dalla vista di mamma cercando di vendere i capi ai passanti.
A sette anni raccolsi un po’ di soldi, con un briciolo di creatività avrei fondato un club, sì il Club delle Rose. Quale fosse l’attività principale ancora non lo so, ma mi permetteva di fare delle tesserine di iscrizione che vendevo a cinquemila lire.
Diverse piccole e svariate idee per racimolare qualche soldino che nascondevo come un tesoro prezioso.
Al tempo delle medie pensai di darmi alla truffa. Una mia compagna di classe voleva sperimentare la cocaina così, pensando infondo di farle del bene, le spacciai del bicarbonato in cambio di ventimila lire.
Restando soddisfatta dall’esperienza, mi avventurai nella sperimentazione. Trovando un nome esotico di pura fantasia, Ruya, raccontai ad alcuni amici di quartiere che facevano uso di droghe, che mia zia era tornata da un viaggio in India e aveva portato questa droga. La sponsorizzazione ebbe successo. Così riuscì a vendere un impasto di incenso grattugiato, burro, noce moscata, chiodi di garofano e non ricordo che altro.
L’affare era stato concluso con i ragazzi più pericolosi
del quartiere, almeno tra i nostri coetanei. Uno di loro mi chiese di provarla prima di acquistare. Questo non era stato considerato dal mio piano. In ogni caso, con il cuore in gola e il sudore sulle tempie, simulando un’espressione rilassata, dissi che non c’era assolutamente problema.
Consegnai il campioncino gratuito e ne rollarono una sigaretta. L’accesero e il primo cliente la fumò. Ricordo che aspirò profondamente e rimase in silenzio. Temevo che ormai avesse scoperto l’inganno. Nel frattempo un altro la prese per assaporarla. Si stava mettendo male. Fecero il giro. Ecco, era la fine, ero morta. Uno si mise a gridare: Non ci posso credere!
. Mi feci coraggio e, mentre vagliavo intimamente ogni possibile spiegazione che mi desse modo di scagionarmi, chiesi con una parvenza di sicurezza e inscenando insofferenza per la perdita di tempo: Allora?
.
L’altro si affrettò a rispondere: Si sente che è roba buona!
.
Così, convinto tutto il pubblico dall’affermazione si misero in coda per avere la loro boccia
. Raccolsi il malloppo e pensai di averla fatta franca.
Un giorno però, insieme ad alcuni di questi ragazzi che erano caduti nell’inganno, andai alla Festa dell’Unità. Lì c’era un banchetto espositivo di un ragazzo africano, in mezzo a tutta l’oggettistica c’era una piramide di incenso fumante, probabilmente lo stesso tipo che avevo scelto come ingrediente per la Ruya dopo averlo grattugiato con meticolosità.
Mi si stava riproponendo il pericolo di essere scoperta. Dentro me speravo che non si accorgessero dell’odore.
Ad un tratto uno di loro ruppe il silenzio e disse agli altri: Oh raga, la sentite? Questo è odore di Ruya!
, Sí, Si
annuirono subito gli altri. Intanto l’attento osservatore si avvicinava sempre più vicino al banchetto.
Ecco, sarebbe stata la fine!
Sicuro che provenisse dal banchetto, fu come se non avesse fatto caso all’incenso e disse al venditore: Ehi, questa è Ruya, Ruya!
.
L’altro, ovviamente non capendo cosa stesse dicendo, sorrise. Così il ragazzo tornò indietro tutto soddisfatto dicendo agli altri: Avete visto, ride. Sicuro ce l’ha
.
Così rientró l’allarme, sciagura scongiurata! Anche questa volta me l’ero cavata.
Nonostante a primo impatto possano sembrare esperienze di scarsa rilevanza o magari addirittura fare sorridere, queste scorribande erano la manifestazione del concetto che fin dall’infanzia avevo metabolizzato: non importava come, avrei ottenuto quello che volevo.
Peggio ancora era l’attrattiva della truffa.
Recepivo la truffa come il trionfo dell’intelligenza sulla stupidità. Credevo che se fossi riuscita a truffare qualcuno avrei dimostrato la mia superiorità.
Non mi preoccupavo né degli altri né delle conseguenze delle mie azioni, per me era un egoistico riscatto.
Cercavo di traslare la mia esperienza familiare a quello che, pensavo, di potere controllare.
Se avevo recepito inconsciamente mio padre come l’elemento forte e intelligente, mia madre doveva essere debole e quindi meno intelligente di mio padre.
Il concetto estrapolato da una bimba di due anni è: se dimostri di essere più intelligente, sei più forte, hai vinto. Sarai tu a prenderti gioco dell’altro e non l’altro di te.
Probabilmente era un meccanismo di autodifesa, avevo paura che gli altri mi facessero del male quindi gliene avrei fatto per prima io.
Non sarei più stata la vittima, ma la carnefice.
Avevo deciso di mettere a tacere la coscienza e seguire cinicamente la strada che mi avrebbe arrecato meno danno possibile.
A posteriori mi accorsi che era la via più autodistruttiva che potessi scegliere.
Costruì nella mia mente l’immagine della persona che avrei dovuto essere e quella sarei stata.
Avevo stabilito che per non soffrire avrei dovuto essere intelligente e sfruttare ogni tipo di occasione per trarne un profitto.
La regola numero uno era avere ogni cosa sotto controllo. Non potevo fidarmi di nessuno se non di me stessa.
Almeno io non mi sarei mai tradita, questo pensavo. Non mi ero ancora accorta che stavo, di giorno in giorno diventando la mia peggior nemica.
Infatti, senza rendermene conto, stavo mortificando la mia vera natura. Cercavo di essere la persona che non ero. Desideravo fare del male per evitare di riceverne. Vivevo nella costante paura che mi avrebbero ferito, tradito, mentito e abbandonato. Non potevo permetterlo.
Iniziai ad avere la sindrome del controllo, ero in costante allerta, avevo sempre le orecchie tese per sventare chissà quale complotto. Non potevo assolutamente rilassarmi. Ero in guerra e i nemici erano ovunque.
Avevo provato il dolore nella sfera familiare, ma ciò di cui avevo il profondo terrore era quello che ancora non avevo sperimentato in prima persona, ma di cui avevo visto le terribili conseguenze, diciamo l’epicentro del tremendo terremoto che aveva scosso la mia intera esistenza. Quello che mi spaventava più di qualsiasi cosa era il rapporto di coppia.
Avevo visto come una sofferenza all’interno di una coppia aveva il potere di scuotere tutto il circondario. Era come una piccola scintilla sfuggita dal braciere, neanche il tempo di capire che succede e ti trovi in un incendio che distrugge un bosco intero.
Questo incendio mi aveva raggiunto, ma io non sarei stata mai il braciere! Dovevo trovare il modo di arginare questo pericolo.
Combattuta tra la paura del dolore e il desiderio dell’amore, vivevo la sfera affettiva in modo totalmente disequilibrato.
Avevo etichettato mia madre come nemica, solo ora mi rendo conto che aveva provato a fare del suo meglio.
Al tempo della mia infanzia, la vedevo come la persona che mi aveva tradito, quella da cui avrei dovuto ricevere amore e che invece non aveva tempo per darne. Mi sentivo abbandonata anche da lei.
Vivevo sballottata tra una babysitter ed un’altra, tanto che a volte mamma non ricordava a casa di chi mi avesse lasciato la mattina.
Sentivo di non avere un punto di riferimento nella quotidianità.
Avevo un grande orso bianco nel quale riuscivo a sprofondare dentro.
Mi nascondevo in quel pupazzo per sentirmi confortata, lo avevo promosso a mio migliore amico. Lì ero libera di piangere e sussurrare tutte le cose che a nessuno riuscivo a dire.
Nei mesi estivi, quando la scuola finiva, mia madre mi lasciava a casa della nonna materna, a Roma, dove trovavo rifugio.
Era un ambiente che mi faceva il pieno intorno… Permettete l’espressione. All’esterno mi faceva sentire circondata da un calore familiare, seppure non riusciva a colmare la solitudine e il vuoto che era la costante fissa del mio cuore. Lì sapevo da chi andare.
Se avevo bisogno di essere lavata, vestita, curata c’era nonna Anna. Lei era quella più pratica, quella che mostrava il suo amore attraverso attenzioni ordinarie.
Per quanto potessero essere semplici, c’era modo e modo per farle.
Nonna mi vestiva con calma e tranquillità scegliendo l’abitino più bello, pettinandomi i capelli, facendo attenzione a non farmi male.
Tutta un’altra cosa rispetto alla fretta di mamma la mattina, che quasi dimenticava di farmi fare colazione. Diciamo quasi.
Poi c’era nonno…
Nonno mi