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Freddie Mercury Diario di una fan
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E-book287 pagine4 ore

Freddie Mercury Diario di una fan

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Info su questo ebook

Quella sera rimasi per tutto il tempo con gli occhi puntati su di lui anche quando piano piano la sala iniziò a svuotarsi. "Lo contemplai dalla testa ai piedi. Lo divorai con lo sguardo mentre le note della musica giravano intorno a me nello spazio che rimaneva dentro quella bolla che avevo creato. Mi sentii viva".

Dovevo scoprire chi era veramente questo ragazzo, così attraente, da dove veniva, dove abitava, i posti che frequentava, i suoi gusti. La passione mi ha portato a cercarlo ovunque, e come per magia lo trovai là dove non avrei mai immaginato.

Dovevo conoscerlo a tutti i costi, così tornai indietro nel 1985, a Monaco dove un incontro "inaspettato" ha sconvolto la vita di entrambi. Chissà se tra segreti e misteri era proprio arrivato il giorno di svelare la dolce e l'amara verità?
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2022
ISBN9791221401813
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    Anteprima del libro

    Freddie Mercury Diario di una fan - Rudina Rexhovaj

    BOHEMIAN RHAPSODY, IL FILM (2018)

    Inoltre, ho una mezza idea riguardo a un film sulla mia vita. Potrei farlo un giorno e avere un ruolo chiave, anche se non è detto che debba essere per forza io il protagonista.

    Freddie Mercury - Una vita nelle sue parole

    1° Gennaio 2019 - Roma

    Tutto iniziò per caso alla fine di dicembre, quando mi trovavo a Roma a festeggiare l’ultimo dell’anno. Dopo aver visitato tutta la città in un fresco e asciutto pomeriggio romano, decidemmo con degli amici di andare a vedere un film. La pubblicità mi aveva incuriosita su uno in particolare, e lo proposi subito agli altri. Il cinema si trovava in un centro commerciale in periferia, quindi prendemmo il raccordo anulare, fortunatamente abbastanza scorrevole in quel giorno di festa. Sotto la luce di un sole splendente, le piante sembravano più verdi e le foglie degli alberi più arancioni. Accarezzata dai suoi raggi, rimasi per tanto tempo girata verso il finestrino leggermente abbassato, immersa nei miei pensieri, assorbendo il venticello che mi spostava i capelli, con lo sguardo verso la natura. Sembrava primavera. Ho sempre avuto un sesto senso molto sviluppato, e il presentimento che intuii mi permise di prevedere un avvenimento gradevole, ma non pensavo che avrebbe pervaso in modo così immediato tutto il mio essere.

    Le risate e le battute in macchina le sentivo come se provenissero da lontano, talmente ero rilassata e distaccata, ma fu il rumore brusco della frenata a farmi tornare in me e sentii la voce alta del conducente:

    Eccoci ragazzi, siamo arrivati alle Porte di Roma.

    Il centro commerciale era abbastanza affollato. Ci dirigemmo verso il cinema seguendo le indicazioni. Eravamo in tanti ad aspettare nell’atrio, tra il mormorio delle persone e le voci sottili e gioiose dei bambini che sopraggiungevano.

    Avendo ascoltato solo poche canzoni di questa band londinese, non sapevo niente della carriera musicale e tantomeno della vita privata dei componenti. Il trailer del film precedentemente visto in televisione mi aveva attratto molto, e fu proprio per questo motivo che decisi di vederlo. La fila era abbastanza lunga, anche se il film era uscito nei cinema a novembre. Sentivo le persone presenti interagire tra loro:

    È la terza volta che lo vedo disse una donna di mezza età.

    Invece per me è la seconda rispose una ragazza bionda, e mentre pensavo a quanto sarebbe stato bello, visto che in tanti erano lì per guardarlo di nuovo, toccò a noi acquistare i biglietti.

    Tre biglietti per Bohemian Rhapsody chiedemmo quasi in coro, e scoppiammo a ridere per la pronuncia che non era delle migliori. Non conoscendo la canzone, non riuscimmo a dare il particolare accento inglese. Dopo aver scattato un selfie davanti alla locandina ci dirigemmo verso la sala 5, seconda fila laterale a destra senza possibilità di cambiare posto, perché era andato tutto esaurito in pochissimo tempo. Pensai che non mi sarei goduta come si deve la visione del film, tenendo conto della vicinanza allo schermo, ma quando iniziò la proiezione mi resi conto che da più vicino era come se fossi accanto a questo personaggio scatenato e talmente attraente che mi veniva di fare il gioco delle ombre, allungare il braccio o soltanto muovere le dita per avere la sensazione di toccarlo.

    Il titolo, Bohemian Rhapsody, scritto in grassetto, era appoggiato sopra le larghe spalle di chi ha composto quel brano, quasi a simboleggiare il grande peso che avrebbe dato alla storia della musica: FREDDIE MERCURY.

    Sotto un caldo sole estivo, il fiume di gente che entrava nello stadio di Wembley sotto le note di Somebody To Love sembrava interminabile.

    Find me somebody to love - Trovami qualcuno da amare

    Somebody, somebody, somebody - Qualcuno, qualcuno, qualcuno

    Can anybody find me, somebody to love? - C’è nessuno che può trovarmi qualcuno da amare?

    Somebody To Love (Queen, 1981)

    Tra lo scrocchio delle patatine e dei pop corn, la sala sembrava un coro gigantesco che cantava sottovoce, ed era davvero entusiasmante. Era impossibile non cantare quel ritornello.

    Che carica trasmette questa canzone! pensai mentre mi giravo a guardare dal basso verso l’alto la montagna di persone che riempivano la sala, ammirando l’unicità e la spontaneità con le quali erano partecipi. Mi rigirai più volte e come per riflesso nel vedere tutta quella folla mi sembrò di essere presente a un concerto dei Queen e inevitabilmente mi scappò un Wow. L’unica differenza la faceva il numero delle presenze in sala. Non essendo mai stata a un concerto, non avevo mai provato a cantare a squarciagola insieme ad altre persone sconosciute. E mentre mi passavano questi pensieri per la testa, l’immagine del cantante in jeans e canottiera bianca prima dell’esibizione, che saltellando si preparava per salire sul palco, mi fece vivere un dejà-vu. Due uomini in maglia bianca aprivano il sipario, ma la mia voglia di ascoltare la canzone fino alla fine fu interrotta dal movimento automatico del nastro caricatore delle valigie nell’aeroporto di Heathrow a Londra. Correva l’anno 1970. Un ragazzo dai capelli neri di mezza lunghezza fissava una valigia, sopra la quale c’erano scritti i nomi di diversi stati. La mia semplice interpretazione cadde sul desiderio di viaggiare per il mondo, quando all’improvviso qualcuno mi distolse l’attenzione chiamandolo:

    Paki!

    Non sono pachistano rispose lui senza dare troppe spiegazioni.

    Successivamente qualcuno dalla folla lo chiamò nello stesso modo quando sostituì il cantante degli Smile, Tim Staffell. Pensai fosse un segno di disprezzo, ma lui questa volta iniziò a cantare alzando il mento e battendo forte il tamburello sulla coscia e sul microfono, che dopo aver tentato di levare dall’asta di sostegno si staccò all’improvviso. Provai fastidio verso chi aveva pronunciato questo epiteto, e fui particolarmente toccata da questa scena perché mi ricordò di quando alla sua stessa età ero anch’io un’immigrata, e venivo spesso etichettata nello stesso tono con la mia nazionalità di provenienza. Immedesimandomi in lui, mi stava succedendo qualcosa di strano, che provo a spiegare meglio: mi sentii rapita da questo giovane ragazzo esile e dai denti sporgenti. Il suo modo di camminare, di porsi, il suo modo di vestirsi molto appariscente, il suo sguardo così profondo, la sicurezza che dimostrava, mi suscitarono molta curiosità. Mi colpì in particolare il suo modo di tenere la testa un po’ su, che al primo impatto sembrava arrogante, ma che era un segno dell’altezza del suo sguardo, delle sue aspettative e prospettive e di una proiezione nel futuro. Lui voleva fare quello che sapeva fare meglio: il performer, che dà alla gente quello che vuole.

    Nel momento in cui Freddie chiedeva a Brian e Roger di diventare il loro cantante, mi sentii di nuovo amareggiata alla risposta di quest’ultimo: Non con quei denti, amico. In seguito ho scoperto che per fortuna non era andata proprio così, ma al momento quel giudizio basato sull’aspetto esteriore mi diede fastidio, e allo stesso tempo mi fece entrare in empatia con questo personaggio così particolare.

    Al contrario di qualcun altro che si sarebbe arrabbiato, lui con tanta umiltà fece sentire la sua voce cantando una breve strofa di Doing All Right (Smile, 1970):

    I know what i’m doing - So ciò che faccio

    Gotta feeling i should be doing all right - Sento che sto facendo tutto bene

    Doing all right - Facendo tutto bene

    … lasciando i due a bocca aperta e di conseguenza anche me, rispondendo che era nato con quattro incisivi in più, più spazio nella bocca, più estensione vocale. Ironicamente si girò e andando via, alla domanda Suoni il basso? rispose No, per poi allontanarsi in modo un po’ bizzarro.

    Mi strappò un sorriso in un momento in cui mi sentivo un po’ dispiaciuta per lui. Che tipo strano e divertente pensai. Ti mette subito di buonumore.

    Il conflitto che viveva con il padre lo aiutò a capire e a mettere in atto i tre principali motti della religione parsi zoroastriana: Humata, Hukhta, Huvarshta, ovvero buoni pensieri, buone parole, buone azioni, rimandandoglieli esattamente prima del suo contributo al Live Aid, e facendogli capire che non c’era niente di più utile che contribuire alla lotta alla fame nel mondo. Senza sapere se questa scena fosse realmente accaduta, mi toccò tanto il suo abbraccio con papà Bomi.

    Rimasi incantata dalla sua storia d’amore. La trovai fuori dal comune. Incantevole. Sprigionava una dolcezza unica nei confronti di Mary, la sua ragazza. La delicatezza con la quale le chiedeva di sposarla, con un anello di giada raffigurante uno scarabeo egizio, simbolo di resurrezione (ovviamente questo l’ho scoperto dopo), e il modo in cui la guardava e le diceva Sei bellissima, pronunciando le parole dal profondo del cuore, mi lasciarono senza fiato. In quello sguardo c’era tutto: amore, complicità, protezione e dedizione. Il suo motto, Tu credi in me e io in te, al momento della verità, dell’accettazione di sé, mi fece capire che l’amore può essere vissuto in diversi modi, senza perdere del tutto la persona che ami, e in quel preciso momento avevo bisogno proprio di questa consapevolezza.

    Il racconto della sua vita mi rapì e non volevo che il film finisse, o perlomeno volevo che avesse un lieto fine, anche se era impossibile.

    Furono 134 minuti di energia pura. Uno di quegli incontri che ti cambiano la vita. Quella voce celestiale toccava delle corde emozionali dentro di me mai provate prima. Tante canzoni presenti nel film, soprattutto quelle degli anni ‘70-‘80 che non avevo mai ascoltato, furono una scoperta. Semplicemente dei capolavori e degli inni. Rimasi elettrizzata dal protagonista, ovvero lui, FREDDIE MERCURY. Non avevo mai provato prima un impatto emotivo così forte.

    Mi sono chiesta il perché di quello sguardo pensieroso diretto oltre la finestra a guardare chissà cosa e dando le spalle a tutti, quando sentì la parola Bismillah, pronunciata in modo errato, Ismillah, dal produttore discografico Ray Foster, noto per essersi lasciato scappare i Queen, almeno nel film. Forse guardava la strada che doveva intraprendere, ma la sua risposta mi stupì ancora: La vera poesia è per l’ascoltatore. Mi trovai letteralmente sorpresa dalle sue risposte, ma la vera poesia era proprio lui. E continuò a convincermi della sua determinazione con questa risposta:

    Ah! Non fraintendere tesoro, sarà un disco rock and roll, con la grandezza dell'opera, il pathos della tragedia greca, l'arguzia di Shakespeare, la gioia debordante del teatro musicale. Sarà un'esperienza musicale! Non sarà solo un altro disco. Qualcosa per tutti, qualcosa in cui la gente troverà un senso di appartenenza. Mescoleremo generi, valicheremo confini. Noi parleremo lingue sconosciute se vogliamo.

    Tecnicamente non capisco molto di musica, ma in quell’istante capii che Freddie aveva un talento musicale indiscusso, ed era un cantante con una spiccata cultura e con una grande passione per l’arte, ma in particolar modo per l’opera. L’unico cantante che riuscì a intrecciare il rock con la lirica. Ne fui sbalordita. Era semplicemente GENIALE.

    Provai una grande ammirazione mentre cantava Happy birthday to me, happy birthday mister Mercury, suonando il pianoforte e annunciando ai suoi familiari il cambiamento del nome e del cognome all’anagrafe, dicendo che lui non guardava mai indietro, ma solo avanti. Mi diede l’impressione di una persona lungimirante e consapevole di quel che voleva e come fare per ottenerlo.

    Comunque, tornando nel buio della sala 5, per fortuna nessuno poté cogliere l’espressione annientata del mio viso. Ero totalmente assorbita dalla sua perseveranza e dalla sua grandezza, e non riuscivo a distogliere lo sguardo da Freddie, nonostante sullo schermo ci fossero anche gli altri membri della band.

    Paradossalmente da un luogo semplice e silenzioso come una fattoria chiamata Stocker Farm nel Hertfordshire, in realtà i Rockfield Studios, tra la mota e il canto di un gallo, tra gli edifici agricoli e il verde immenso, ha preso forma una delle canzoni che hanno fatto la storia della musica. Un capolavoro solenne e assolutamente innovativo, un intreccio perfetto dal punto di vista musicale con un testo che rimane enigmatico anche al giorno d’oggi, Bohemian Rhapsody (Queen, 1975).

    Come è stato possibile che non avessi mai ascoltato un’opera eccellente come Bohemian Rhapsody?, riflettei incredula. In che pianeta ho vissuto?. Mi vergognavo anche ad ammetterlo. Io che non potevo vivere senza musica e non facevo altro che ascoltarla in continuazione, allo stereo, in tv, dal cellulare, alla radio… forse avevano smesso di trasmettere le canzoni dei Queen, finché non arrivò l’impatto mediatico del film, che accese anche il mio desiderio di scoprirli. Molti anni fa avevo scritto anche una poesia, perché…

    Con lei mi sveglio e mi addormento.

    Leggera, mi accarezza l’udito

    Come lo stesso gruppo sanguigno

    Mi entra perfino nelle vene e mi dà la vita

    A volte mi toglie la colpa

    Dalla mia coscienza sporca

    Mi fa rivivere il mio passato

    Così bello e beato

    È la mia migliore amica

    Lei è la musica.

    D’altronde ascoltare la loro musica fu una sorpresa anche per chi se ne intendeva e per chi se ne approfittò. Ma nessuno poteva più fermarli: al ritmo di Now I’m here, iniziarono a realizzare il sogno scritto su quella valigia all’aeroporto di Heathrow.

    Now i’m here - Ora sono qui

    Look around, around - Guardo intorno intorno

    Now I'm here - Ora sono qui

    I'm just a, just a new man - Sono solo un uomo nuovo

    Now I’M Here (Queen, 1974)

    I Queen iniziarono a conquistare l’intero pianeta. Io sono qui diceva il primo verso di quella canzone, ma loro iniziarono ad essere ovunque: Denver, Portland, New Orleans, Atlanta, Pittsburgh, Edimburgo, Liverpool, Tokyo, Perth, Detroit, Glasgow, New York, Londra, Santa Monica, Boston, Osaka, Chicago, Sidney, Rio…

    Forzata… contorta e senza senso

    Niente di memorabile

    Brutta copia dei Led Zeppelin

    Un pallido richiamo all’opera

    I Queen cercano disperatamente di cementare la loro serietà

    Una canzone che dovrebbe affondare nell’oblio

    Audace accozzaglia… pomposa e troppo lunga

    Un tentativo di mescolare almeno sei generi in sei minuti.

    Questi furono solo alcuni dei commenti quando Bohemian Rhapsody fu trasmessa in esclusiva da Capital Radio 95,8 FM. Nonostante ciò, sembrava che i Queen avessero fatto loro i versi di Dante Alinghieri: Non ragioniam di lor, ma guarda e passa. In realtà Freddie Mercury racconta che i Queen hanno composto quel singolo, unico nel suo genere, proprio al momento giusto per quel tipo di brano.

    Comunque un leader come lui non si fermava davanti ai pregiudizi, e nemmeno davanti alle delusioni. E la prova più tangibile è il suo monologo a Paul Prenter (il loro manager per tanti anni). Uno schiaffo a tutti quelli che lo avevano tradito o cercavano di sfruttarlo per la sua fama. Quelle parole forti mi sono rimaste impresse nella memoria:

    Ti voglio fuori dalla mia vita. Incolpo me stesso. Sai quando capisci di essere diventato marcio fino all’osso? Moscerini, piccoli moscerini ripugnanti vengono a cibarsi degli avanzi. Beh, mi dispiace per te, da mangiare è rimasto ben poco. Quindi ora vola via e fai pure quello che vuoi con le tue foto, i tuoi racconti, ma promettimi una cosa: che non rivedrò mai più la tua faccia. Mai più.

    E se ne andò sotto la pioggia sotto le note di Under Pressure, come solo le anime sincere sanno fare.

    Pressure pushing down on me - La pressione mi butta giù

    Pressing down on you no man ask for - Ti schiaccia, nessuno lo vorrebbe

    Under Pressure (Queen e David Bowie, 1981)

    Quel momento mi fece provare tristezza per Freddie, e pena per l’altro. Mi arrivò da subito il suo essere una persona speciale, bisognosa d’amore, con un carattere altruista, diversa dal personaggio che interpretava sul palco. E anche quando si faceva trascinare, riusciva a trovare la forza di reagire, dimostrandola anche di fronte a un destino spietato.

    Con il sottofondo musicale di Who Wants to Live Forever? Freddie entrava in clinica. Il ritmo delle note seguiva i suoi passi che sembravano di piombo, sincronizzati con i battiti del mio cuore. Le incomprensibili parole del medico nel sottofondo musicale, l’immaginabile diagnosi, il mio indescrivibile dispiacere e il sapore salato delle lacrime che scorrevano come un fiume in piena provocarono l’esondazione.

    There’s no chance for us - Non abbiamo scelta per noi

    It’s all decided for us - Il nostro destino è già stato deciso per noi

    This world has only one sweet moment - Questo mondo ha un solo dolce momento

    Set aside for us - Messo da parte per noi

    Who Wants to Live Forever? (Queen, 1986)

    La sua forza nell’affrontare la notizia della malattia e il modo in cui la comunicò agli altri Queen furono ammirevoli: era lui a cercare di dare sostegno agli altri, e allo stesso tempo annunciò di poter dare ancora il massimo della sua musica.

    Con l’inizio del Live Aid, il film era giunto alla sua fine. Le ore erano volate tra canzoni e battute, dialoghi e monologhi e i miei tormenti per come sarebbe finito. L’esibizione fu da brividi. Sul palco Freddie fu inarrivabile con la sua performance, con il suo Eeeeoooo, il ruggito del leone che domina la folla, che a sua volta rispondeva con lo stesso Eeeeoooo all’unisono. Come diceva la nostra star, Credono in te e ripetono lo stesso gesto come alle Olimpiadi.

    Iniziò con Bohemian Rhapsody e Freddie, come promesso, mandò un bacio alla sua mamma. Dopo l’ultima canzone, We Are the Champions, lo fece anche con il pubblico presente, per poi fare un inchino, segno della sua umiltà e del rispetto per i fan, mentre Mary aveva gli occhi lucidi. Mentre si girava al rallentatore verso gli altri membri del gruppo, sembrava si stesse girando verso il pubblico presente al cinema, per poi uscire di scena trionfante. Lui, il campione indiscusso. Dopo di lui uscì John, e infine Brian e Roger insieme, proprio come nella realtà. Freddie lasciò il pianeta Terra, John il palcoscenico, e per Brian e Roger lo spettacolo continua.

    Mi sembrava di essere dentro lo schermo, tra le migliaia di persone che riempivano Wembley, con tutte le emozioni che si vivono a un concerto, sentendo dentro di me un vulcano, il magma che bruciava e fuoriusciva in seguito all’eruzione. Energia allo stato puro. Brividi e ammirazione infinita per il frontman più grande di tutti tempi. Non sapevo dare un nome a quello che provavo, o forse avrei dovuto inventarlo e chiedere all’Accademia della Crusca se poteva essere accettato. Un misto tra infatuazione, innamoramento, adrenalina, passione, tra perdere la testa e perdere il contatto con la realtà. So solo che quella sensazione era stupefacente.

    Proprio come alle Olimpiadi, anche se non vinsero nessuna medaglia, furono i campioni indiscussi. 18 minuti di incantesimo che rimarranno i più belli nella storia della musica. Freddie sprigionava una vitalità che si rifletteva in tutti i visi, ma soprattutto in quel figlio che abbraccia suo padre emozionato nel rivivere quel momento (in realtà era stato presente al Live Aid 1985).

    Ero impaziente di vedere anch’io il vero Freddie, che apparve vestito in pelle nera, con la band al completo, con la canzone Don’t Stop Me Now. Lo contemplai dalla testa ai piedi. Lo divorai con lo sguardo mentre le note della musica giravano intorno a me nello spazio che rimaneva dentro quella bolla che avevo creato. Mi sentii viva.

    Non fermarmi ora… Non voglio fermarmi affatto, Mr Fahrenheit

    Dalla potenza della voce sembrava che le pareti tremassero e l’effetto surround amplificava il tutto, rendendo l’esibizione più avvolgente. Con lo schermo nero in sottofondo e i titoli di coda che scorrevano verso l’alto, sentii di nuovo il viso bagnato da un fiume di lacrime quando, con la scritta The end, per finire alla grande iniziò The Show Must Go On.

    Non avevo messo in conto che di lì a poco avrei vissuto in un’altra dimensione che avrebbe cambiato il mio modo di vivere. Rimasi seduta per un po’ mentre tutti andavano via. Evidentemente non volevo lasciare qualcuno o qualcosa di prezioso che avevo trovato in quel cinema alle Porte di Roma, ma che per me fu come il Nuovo Cinema Paradiso, e come il film di Giuseppe Tornatore mi insegnò a sognare l’impossibile, e che tutto può essere raggiunto, proprio come ha fatto Freddie. Quindi decisi di portarlo con me. Ogni suo movimento, ogni sua espressione, ogni sua gestualità, per non parlare della sua voce cristallina e allo stesso tempo potente, che quella sera conquistò ogni poro del mio corpo arrivando fino all’anima. Era iniziato con Find me somebody to love… e ho finito per trovarlo. Trovai qualcuno da amare, senza se e senza ma, senza complicazioni e aspettative, senza pretese e interessi, senza richieste e contatto. E tutto questo si poteva chiamare colpo di fulmine: ero rimasta folgorata, con dei segni invisibili nascosti dentro. Una parte di me è rimasta nella seconda fila con il respiro tremante e la sensazione di scollegamento dalla realtà, e l’altra parte ha portato con sé quella musica che sa emozionare.

    Inconsapevolmente nacque in me il desiderio di rivedere il film, due, tre, più volte, che la proiezione fosse in inglese o spagnolo, che fosse in versione karaoke, non aveva importanza perché oramai le battute le sapevo a memoria, finché persi il conto. Anche se questo atteggiamento a qualcuno non sembrava normale, per me era come ascoltare una canzone di continuo, perché ti piace e perché in quel momento non ne puoi fare a meno. E dovrei ringraziare veramente di cuore l’attore Rami Malek per aver interpretato in maniera così originale questo ruolo importante, perché è grazie a lui e agli altri attori che mi sono avvicinata alla musica dei Queen e alla loro storia.

    ***

    All’inizio pensavo di essere l’unica a subire il fascino senza tempo di Freddie, tanto è vero che cercavo di mascherare il brillio nei miei occhi e il sorriso che nasceva inevitabilmente quando si parlava di lui, ma per fortuna mi sbagliavo. Non ero la prima, e tantomeno l’ultima, alla quale l’effetto Freddie Mercury

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