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The Joe's Club
The Joe's Club
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E-book490 pagine7 ore

The Joe's Club

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Info su questo ebook

James Tristano è un ventinovenne emarginato che vive esclusivamente di arte e di assoluta libertà nel senso più puro del termine. Nel corso della sua vita sceglie sempre di restare se stesso, fuorviando accuratamente ogni possibile contaminazione del sistema. L'orario, gli appuntamenti, il denaro, le varie convenzioni o mode che siano, sono degli artifici che non hanno nulla a che vedere con l'espressione massima della natura umana e contrapposti all'animo autentico del protagonista. Per lui esiste solo la musica, la sua band e l'estrema autonomia dell'essere e del fare ciò che vuole; se non fosse che dovrà confrontarsi con il più grande sentimento che esiste: l'amore. Egli osanna la musica, la band e la libertà, e richiama puntualmente le emozioni più forti entro ogni canzone che scrive, ma al contempo teme che l'amore non gli riguardi e che possa sottrarre una parte di se stesso e della sua esuberante vita. Resiste alla forza di quel sentimento per troppo tempo non riuscendo a sfruttare le giornate, i momenti che passa con la persona che ama, per confessarle i suoi sentimenti. Infine, quando deciderà di dichiararsi, accadrà qualcosa che sembrerà razionalmente porre fine alla sua storia. Per fortuna, arriverà in soccorso il suo vecchio amico e noto scienziato Paul Davis, pronto a sacrificarsi e a rivelare al protagonista il più grande dei segreti, trascinandolo in un intrigante ed infinito vortice, tra sogni, memorie spirituali e realtà alternative...

L'autore vuole condurre il lettore a un esplicito richiamo verso la reale natura umana, liberarlo per un attimo dalle convenzioni e dalla meccanicità della vita quotidiana, donandogli inconsciamente una visuale senza limiti tramite la quale gli sarà possibile comprendere il protagonista, la storia e il suo reale messaggio.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2016
ISBN9786050430301
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    Anteprima del libro

    The Joe's Club - Antonio Pistorio

    Antonio Pistorio

    The Joe's Club

    UUID: 019315ec-113e-11e6-8791-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    1 - Preludio

    2 - Ti do un paio d'ali

    3 - La festa di Scott Marley

    4 - Lieto vivere

    5 - Punto di non ritorno

    6 - Conturbante

    7 - Mantengo la promessa

    8 - Rinascita

    9 - Inseguendo il sogno

    10 - Appuntamento a Hooger Beach

    Biografia

    Termini e note di riferimento

    Connessione visiva

    Explicit

    Cartografia Kronin City

    Ringraziamenti

    The Joe’s Club

      Antonio Pistorio

    EDIZIONI APS

    Pubblica il tuo libro con noi

    For Her

    Con certezza, James Tristano rappresenta in assoluto il mio Alter Ego.

    Antonio Pistorio 

    Sorprendente!

    È questo l'aggettivo migliore per descrivere il romanzo che è geniale e di grande impatto.

    Lo scenario è affascinante così come le diverse situazioni evocate.

    L'atmosfera si mantiene sempre su un livello surreale, quasi onirico; il lettore è trasportato a forza in luoghi e situazioni che lo lasciano senza fiato ma con la voglia incontenibile di procedere nella lettura.

    L'intreccio e la trama non sono sempre lineari, ma il ritmo incalzante e coinvolgente, lo stile fluido e diretto, la lettura godibile e di sicuro intrattenimento, anche se mai banale o scontata, rendono il romanzo meritevole di essere annoverato tra le migliori opere del giovane e promettente autore.

    Prof.ssa Rosa Maria Rita Furnari

    1 - Preludio

    Alberi, foglie cadenti e tiepido vento sul mio viso mentre resto a disegnare nel parco di Wedsley, nella mia città confusionaria, dove il mondo intorno a me è preso da un'inquietante rincorsa verso il nulla, in un autunno qualunque, tra la gente che passa indifferente, entro un moto silenzioso di un pomeriggio dal colore violaceo, come quelle nuvole a distanza, oggetto del mio scarso abbozzo di un tramonto d'ottobre.

    Non mi reputo un genio del disegno, forse perché sono nato cantante, forse perché i miei disegni sono ormai tramutati in un oggetto da spettacolo remunerativo affinché possa sopravvivere come emarginato, tanto da esser costretto a starmene al parco per mostrare i miei scarabocchi. Se sono fortunato racimolo persino dieci dollari al giorno, ma una cosa del genere, capita davvero raramente perché rara è la mia fortuna, così che mi son reso sfigato e rispondendo con una risata persino a me stesso che me lo dico, mi propongo di continuare nella mia sfiga come se fosse una sfida tra me e la sorte. Ogni tanto, come mia prima passione, canticchio qua e là, in un locale o in un altro, magari e più spesso di basso ceto, probabilmente in piazza o in questo stesso parco dove qualcuno addirittura mi riconosce quando, come adesso, faccio i miei schizzi e li mostro nel riquadro ai passanti. Sì, io sono così e vivo stranamente alla giornata. Ho davvero tanto rispetto per i grandi cantanti così che non mi permetto nemmeno di affermare che canto, preferendo il verbo canticchiare. Penso sempre di avere tanta strada da fare con il canto, con la mia voce, per raggiungere le performance dei grandi artisti. Questa è la mia opinione, anche se onestamente devo confessare di ricevere molti complimenti quando chiudo le serate con la mia band. Adoro il rock nella sua versione hard, amo i Guns seppure mi manchino, adoro anche molti altri gruppi ai quali m'ispiro, ma credo che Axl Rose sia il mio punto di riferimento, non per scelta ma per la somiglianza, per la mia voce graffiante e anche per il mio generico stile che tende ad avvicinarsi al suo. Andando in giro con la mia band posso mettere da parte un po’ di soldi per stare in una situazione che sia leggermente superiore al tentare di sopravvivere, ma il mio canticchiare a destra e a sinistra, è un qualcosa che si verifica da un locale all'altro della città, suscitando notorietà tra le strette cerchie d'amicizie. La mia band, The Sharks of the Sheet, non è solo composta da individui che si ritrovano in situazioni ben peggiori della mia, ma è gente che come me non detiene la cultura della diplomazia e anche se questo può apparire come un gran peccato, noi siamo fatti così: ci nutriamo solo di musica ed emozioni. Favoriamo l'anima anziché il corpo, con la conseguenza di esser fatti fuori da ogni residuo conto materialistico. Non faremo mai parte delle cerchie che contano, non saremo mai uguali a chi si adatta. Non ci venderemo mai. Il prezzo è parecchio caro: verrai marchiato come uno sfigato di merda, isolato e fatto fuori dall'intero sistema di relazioni che regolano il vivere su questo cazzo di pianeta. D'altronde, chi di voi non si è mai comportato politicamente in questo lungo giro sulla giostra? Godersi il Luna Park è per quelli che comprano il biglietto, come tutti gli altri. La nostra grande occasione capitò circa tre anni fa, alla fine di una maestosa serata, al Joe’s Club, una delle nostre migliori performance e probabilmente la migliore in assoluto, seppure, devo esser sincero, non avessimo provato per un mese e temessimo che a termine dell'esibizione, avremmo solo raccolto ortaggi e verdure per poi farci un'insalata e cenare quella notte. C'eravamo esibiti come nostro solito: molto effetto scenico, vapori che si innalzano, colori, frastuoni, rock intenso che ti prende, che attira e travolge il pubblico, puoi ballarlo, puoi sentirlo, puoi cantarlo, puoi scatenarlo dentro di te, ma avevamo pure per la prima volta concluso il nostro repertorio inedito con una canzone più melodica e profonda, una canzone scritta interamente da me, Soul Reborn, che a quanto pare suscitò lo spirito di un pezzo grosso, il quale restò coinvolto dalla nostra musica per tutta la serata. Era un agente dello spettacolo con il compito di osservare e scrutare dei nuovi talenti nell’ambito musicale ed era anche un ottimo pianista che con il suo strumento non aveva riscosso molto successo e dopo aver passato la soglia dei cinquanta, aveva deciso di dedicarsi al ramo del management, inseguendo invece la meta del denaro. Lavorava per la Victor Records, una casa discografica davvero importante e potente a livello internazionale, il suo nome era Matt Lowell e si avvicinò proprio a me complimentandosi, non tanto per la qualità con la quale avevamo interpretato Soul Reborn, piuttosto per il brano in sé, per quello che diceva, per la musicalità e per l’emozione che riusciva a trasmettere; mi disse che avevamo molta presa sul pubblico, un fattore davvero imponente per l’artista, e che era interessato a sentire delle nostre demo per valutarle e perfino farle sentire ai suoi produttori. Io ero allo stremo, ubriaco e davvero fuori di me, tanto che Jason, il mio bassista, che era stato attento a quello che mi disse Matt, mi raccontò che diedi proprio una bella risposta a quel manager, ruttando in faccia alla più grande occasione che mi potesse mai capitare. Mi raccontarono pure che Matt sorrise e che poi diventando nuovamente serio, diede il suo biglietto da visita ai miei compagni. L’indomani sera, dopo essermi del tutto ripreso, non persi tempo e gli chiamai fissando un appuntamento durante il quale riuscii a consegnargli la nostra demo: un album intero di 9 brani inediti chiamato Luna Park. Fuori da ogni aspettativa, non passò nemmeno una settimana che quel tizio ci contattò realmente.

    Nei giorni seguenti ci presentarono molta altra gente, molti pezzi grossi, alcuni produttori e poi grazie a Matt che sembrava entusiasta del nostro progetto, ci ritrovammo ad incidere negli studi californiani della Victor. Ricordo che vennero diversi musicisti, davvero bravi. Uno di loro doveva essere il nostro arrangiatore e questo non ci convinse molto, anzi devo dire che ci irritava il fatto che i nostri brani dovevano esser abbelliti da un arrangiamento particolare fatto da un musicista, per quanto bravo, estraneo ai brani e all’essenza che questi esprimevano. Soul Reborn doveva essere il primo brano da incidere e poter pubblicare, ma prima che potesse essere ritoccato, chiamai in disparte Matt Lowell.

    «Davvero Matt, io ti ringrazio per quello che hai fatto, ma non mi va di ritoccare il mio brano. Infine questi non sanno come lo devono modificare: è il nostro brano e non voglio che un altro musicista si intrometta e lo cambi a suo piacimento; possiamo anche registrarlo senza alcun ritocco, no? Siamo in grado di suonare la canzone, così come l’hai sentita quella sera!», gli dissi. Ma lui mi fece segno di seguirlo nel suo studio e mi disse molto seriamente: «Ascoltami bene: da questo momento devi fare esattamente quello che ti dico; se vuoi andare avanti e fare qualcosa di sensato, qualcosa che ti possa regalare davvero delle soddisfazioni in questo settore, allora faresti bene ad accettare i miei consigli e se il consiglio è quello di arrangiare un brano con degli ottimi musicisti, perché la Victor ci dà la possibilità di farlo, allora si fa così e basta. Ricordati che se volete andare avanti nella musica è molto meglio accettare quello che vi viene detto di fare qui dentro. Ok?»

    Gli feci cenno con la testa, ma iniziai a essere consapevole della triste situazione nella quale c’eravamo cacciati. Matt faceva parte di una grossa casa discografica ed essa rappresentava perfettamente il cosiddetto potere, quel potere stesso che noi, la band, noi persone libere e artisti di strada, combattevamo con tutte le forze in ogni sua espressione. Esso era il soggetto e l’antagonista principale da abbattere in ogni testo di ogni nostra canzone. Il potere con i suoi paradigmi, i suoi dettati, le sue parafrasi e le sue regole da dover accettare per renderci uguali e simili, tutte righe di uno stesso quaderno. Dalla parte della sfortuna ci stava anche la giornata no di Matt, il quale era ad un passo dal divorzio con la moglie. «Ieri ho cercato di contattarti tutto il giorno», mi disse, «Non hai nemmeno un telefono?» Io non gli risposi. Aprì il cassetto del suo tavolo e appoggiò violentemente un telefono. «Bene, adesso hai un cellulare e bada di usarlo!»

    Capitò che quei musicisti cominciassero a starci sulle palle. Iniziarono a dettare le loro idee e assunsero il comando su tutto. Passarono i giorni e quegli orchestrali, per quanto bravi e maestri che potessero essere, riuscirono a modificare la canzone: Soul Reborn non era più una canzone di rock melodico, ma un vero e proprio brano pop dal sapore tanto commerciale che dopo averlo ascoltato, dovetti vomitare nel water per un intero pomeriggio. La nostra identità era stata annientata, il nostro stile e quello che voleva esprimere il pezzo, erano andati a farsi benedire. Eravamo diventati per mano di quei musicisti, dei ragazzetti immagine che disperavano la vendita e la diffusione dei propri brani. Noi non potevamo starci. Così dopo una settimana in California passati negli studi della Victor, quelli avevano preparato gli spartiti con i loro arrangiamenti e tutte le modifiche che noi stessi dovevamo apportare al brano. Persino la ritmica era stata cambiata. Ci misero gli spartiti davanti ad ognuno di noi mentre eravamo pronti a registrare. Restammo perplessi, un po’ come dire questi vogliono comandare su ciò che noi abbiamo creato. Iniziai a leggere la musica e a eseguirla con la chitarra, ma uno di quei maestri entrò subito in sala e urlando mi disse: «Ma cosa fai? Cosa stai eseguendo?» Io gli risposi: «Ciò che voi mi avete detto di suonare!» E lui arrabbiato: «Allora non sai leggere la musica perché stai suonando tutt'altro!» Mi prese la chitarra con l’ aria di un dio, e davanti a tutti i miei compagni e altri musicisti mi disse: «Ora ti faccio sentire io cosa ci sta scritto qui!» E iniziò a suonare. Dopo un paio di minuti, spinse la chitarra sul mio corpo per darmela: «Ora tenta di suonare come io ti ho fatto vedere!» Presi la chitarra, mi misi davanti lo spartito, ma i miei occhi non si distolsero dal guardare quell’essere insulso che lentamente si allontanava da me, e lo continuai ad osservare anche quando stava oltre la vetrata che divideva la sala di registrazione dalla zona di regia. Matt ci fece un cenno e ci disse: «Ora suonate!» Io lo guardai e lui mi osservò con un’espressione che stava per dire Cosa c’è che non va?, quasi a presagire quello che stavo per fare. Allora adagiai la chitarra sul treppiede e presi gli spartiti che avevo davanti, li misi vicino al mio viso e dissi: «Non mi convincono queste note», e rivolgendomi ai miei compagni domandai: «E a voi ragazzi?» Loro presero pure gli spartiti e iniziarono a osservarli come facevo io. Allora uno di quei maestri, quello stesso che prima aveva suonato la mia chitarra, mi disse con un tono disgustoso: «Inizia a suonare, faccia da squalo!» In effetti non ho mai capito perché mi chiamò faccia da squalo, lo si poteva solo associare al fatto che quel giorno indossavo una maglietta sulla quale c’era disegnato uno squalo blu. Beh, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mostrai lo spartito e iniziai a mangiare quei fogli: sul serio, iniziai a divorare e a strappare con i denti quella carta dove stavano stampate le formichine nere e nel frattempo che gli altri della band imitavano il mio insano gesto, esplosi in un mix di rabbia composto da tanti Fanculo, figlio di troia, e diti medi alzati. Quello che mi ero permesso di insultare purtroppo era davvero un pezzo grosso della musica e della Victor, così ci cacciarono a tempi record e a dure pedate, fuori dagli studi californiani, riportandoci con un biglietto di sola andata, dritti alla vita di prima, vaporizzando quella strana illusione. Almeno abbiamo distrutto e divorato quel cazzo di spartiti. Una cosa comunque ci restò da quella esperienza: un vero e primo nome serio della band, dall’idea che si sparò il mio batterista Niko: «Come ti ha chiamato, faccia da squalo?», mi disse ridacchiando, «Mi è venuta una bella idea da quel figlio di troia: noi siamo degli squali che mangiano spartiti di merda!» Ed io, purtroppo, gli diedi corda tra uno spinello e l’altro: «Già, noi siamo proprio squali di spartiti, The Sharks of the sheet!»

    Avevamo ottenuto un nome che ci piaceva, ma avevamo perso una grande occasione, che oggi, signori miei, non saprei davvero se ripetere quella scenata, sebbene l’istinto primitivo del mio essere libero avesse preso nettamente il sopravvento sulla ragione. Ma per quel gesto, per il nostro ribellarci anche a una semplice convenzione da registrazione, imposta dall’alto, come se fossimo una merce di scambio, ci siamo giocati la chance più grande della nostra vita. Sì, perché non sono solo io quello che tenta di sopravvivere: gli altri miei amici e membri della band, stanno anche peggio, molto peggio.

    Sam Crowson è il chitarrista, più piccolo di me di quasi quattro anni, vive con sua madre isterica e due sorelle gemelle più piccole, antipatiche e che se la tirano in ogni circostanza. Cresciute come le viziatelle di famiglia, vestono sempre con abiti firmati, scarpe alla moda e frequentano i fichetti della Mason School Street, scuola superiore frequentata solo dai veri borghesi della città. Sam è l’anticonformista per antonomasia: capelli lunghi, trascuratissimo, indossa i stessi vestiti per mesi, beve molto, fuma tutte le droghe (fumabili e non), adora il rock'n'roll e non si fa mai la barba; in compenso è una persona di cultura: legge parecchio e reagisce solo quando si nominano le parole sistema o potere. Oltre a questo, è sempre disponibile con tutti, ama la sua band che per lui rappresenta la sua vera famiglia. La madre lo minaccia sempre di cacciarlo di casa, inoltre odia la passione che il figlio prova per la musica e per il suo strumento, tanto che da piccolo quando Sam ricevette dal padre il regalo più grandioso che potesse ricevere, ovvero la sua prima chitarra, lei in un attacco isterico, causato dal fatto che il piccolo aveva immerso le mutandine delle sorelle dentro due bottiglie di birra, gliela ruppe in due, spaccandola su un tavolo. Da quel momento la chitarra è sua madre, e sua madre (quella naturale) è il potere, cioè il nemico. Purtroppo la nota più dolente per lui è stata la scomparsa prematura del padre, l’unico che lo comprendeva sul serio, che lo capiva in tutto e che gli voleva un mondo di bene. Non c'è nient'altro per lui oltre alla band e alla chitarra. L'ho sempre visto solo. Mai in compagnia di altra gente che non fossimo noi della band, e quando una sera gli chiesi: «Perché non ti cerchi una fidanzata?» Lui, dopo il suo solito sospiro alla marijuana, mi rispose serenamente: «Cercare la fidanzata è come girare con la band tra i locali per farsi dare una serata!» E come dargli torto?

    Niko (chiamato da tutti così come diminutivo di Nicholas Ferretti) è il batterista. Di origini italiane, come me, Niko è il cuore pulsante della band. Dinamico, armonioso, caratterialmente molto impulsivo, come ogni miglior batterista rock, e particolarmente duale, nel senso che alterna periodi di grande equilibrio mentale e tranquillità, ad eccessi di paranoia, negatività morale e nervosismo depressivo. Se lo prendi nei periodi equilibrati, è il miglior amico che si possa desiderare, ma se lo capiti nei periodi sbagliati, è la persona più scontrosa e ferrea che ci possa essere sul globo. Ha la mia stessa età, cioè anche lui ha passato i ventinove, e adora John Bohnam e i Led Zeppelin. Si è pure fatto tatuare il simbolo dell'Eremita sul dorso; vive con Sally Mills, la sua eterna ragazza, e il suo Enzo, ovvero il suo Border Collie, un intelligentissimo cane che tratta come se fosse un figlio, tanto che gli ha pure dato il nome di suo nonno (Vincenzo). Per il suo carattere dualistico Niko non va sempre d’amore e d’accordo con tutti, così come capita spesso con Sally: il loro rapporto non solo è fatto di alti e di bassi come sarebbe normale per ogni coppia, ma si lasciano e si riprendono di continuo. Così se la sera prima li vedi come due liceali che stanno insieme da due giorni, l’indomani mattina l’uno parla male dell’altro e si odiano con tutto il cuore, come se l’altro o l’altra, fosse la persona più terribile dell’intera umanità. Niko (l’unico che ha un lavoro costante tra tutti noi), lavora come operaio manovale in un’impresa edile.

    Jason Hellman è il nostro bassista. Tra tutti noi, è quello con la testa più posata e rappresenta per questo il saggio della band. Appassionato per i Primus e in particolar modo per Les Claypool, è colui che collabora più di tutti alla stesura delle composizioni e dei testi insieme a me, ed è quello che ammira l’equilibrio delle cose e delle circostanze, così che cerca sempre di stendere un velo e di soprassedere ad ogni situazione che possa interrompere quest’equilibrio. Così nelle diverse liti che io e i miei compagni ci ritroviamo ad affrontare, lui è quello che si mette in mezzo per placare gli animi, così da beccarsi cazzotti e pedate che non gli competono. Attenzione comunque a non provocare la sua ira: può diventare il più brutale avversario con il quale battersi. Oltre ad essere il saggio o meglio l’anziano visto che per qualche mesetto di troppo è anche il più grande della band, Jason è colui che ripara tutto: così se si rompe qualsiasi cosa e credetemi, capita spesso quando si suona, egli riesce sempre a ripararla. Noi lo mettiamo davanti a dure prove, cioè riusciamo a sfasciare ciò che non si potrebbe mai rompere, ma lui è sempre lì, pronto con quel suo cazzo di valigetta degli attrezzi, per riparare qualsiasi cosa. Jason è anche quello che procura di tutto. Hai bisogno di bere? Beh, lui ha sempre qualcosa di alcolico con sé, ed è pronto ad offrirtela pure se sei un estraneo; hai bisogno di mangiare? Lui esce per te, anche se non ti conosce, pure se sono 5 minuti che hai fatto la sua conoscenza, e ti va a comprare il miglior Hot dog della città; hai bisogno di drogarti? Ebbene non ci sono persone che hanno una cultura così affilata e puntigliosa su tutti i tipi di droghe, alcune delle quali mentre te ne parla, pensi: Ma questa non può esistere, se la sta inventando, ed invece alla fine scopri che esiste davvero. Se hai bisogno di droghe lui ha sempre qualcosa per te. L’importante è restituire il favore amichevole che ti fa, magari entrando nel suo cerchio di amicizie e di clientela: ad esempio, se ti trovi bene con la merce acquistata da Jason, è bene comprare sempre da lui, perché nonostante sia una gran brava persona e molto equilibrata, è un tipo permaloso, che si offende facilmente e riesce a fartela pagare in un modo o nell’altro, e anche a distanza di tempo. Ha un grosso giro di conoscenze per un passato non molto limpido e smercia tantissima roba, proprio perché lui è uno di quelli che come avrete capito, procura sempre a tutti ciò che si vuole, in tempi che per altri sono impossibili e anche in momenti che le cose non possono essere reperibili. Così in questo giro di merce, di prodotti e di conoscenze, lui finisce sempre per guadagnarci, anche se nel giro di amicizie che ha, molte volte finisce nei guai. Vive da solo in un appartamento di un condominio di periferia, in una delle zone più malfamate che possano esserci da queste parti. I suoi hanno divorziato quando era ancora piccino e in pratica lo hanno abbandonato a se stesso. Nonostante questo, ha un carattere fenomenale, è un vero amico.

    Infine ci sono io, James Tristano. Quelli che mi conoscono mi chiamano Jimmy; per i veri amici sono semplicemente Jim. Vivo alla giornata, come già sapete. Abito in un piccolo appartamento del Greenvalley, non una zona di lusso, ma con quello che costano gli affitti, mi devo adattare. Divido l’appartamento con un ragazzo attore, Mike, che studia recitazione al Forrest Light, un grande teatro fondato dalla compagnia teatrale omonima che per lui rappresenta ciò che per me rappresenta la mia band. Casa nostra è piccola, stretta e un vero inferno di disordine, per non descriverla semplicemente come una topaia, ma tra due artisti di questo calibro, mi sembra anche una cosa ovvia. La mia vita si basa su tre punti di riferimento ben precisi: 1. La musica, quindi la mia band e il nostro posto prova su un garage piccolino semisperduto, appartenente una volta al vecchio zio di Niko, situato a Hooger Beach, nella riviera est della città, (il posto è davvero ristretto, l’acustica fa schifo, ma almeno abbiamo una visuale da sogno, in quanto si può ammirare il mare dalla finestra); 2. Il lavoro se è così che posso permettermi di chiamarlo, i disegni che cerco di stilare, facendo del mio meglio e racimolando centesimi a destra e a manca, al parco di Wedsley, zona tranquilla e per me anche ambiente di riflessione, oltre che di esibizione e di lavoro; 3. Il Joe’s Club, il pub dove c’eravamo esibiti alla grande, che poi divenne il nostro punto di ritrovo, dove riunirci, bere, divertirci e fare conoscenze la sera.

    La mia famiglia vive lontano. Mio padre, divorziato da mia madre, è tornato in Europa e lavora per una impresa di marketing; mia madre si è trasferita con il suo nuovo compagno in Texas, mentre mio fratello Robert si è laureato in ingegneria e lavora da qualche mese per una grande società a New York. La mia sorellina, la piccola della famiglia, Laura, va a scuola e vive con mia madre a Stephenville. Ogni tanto sento Laura per telefono, mentre con mia madre il rapporto è abbastanza freddo, in quanto non ho mai accettato il suo modo di vivere e soprattutto l'uomo con il quale convive adesso: un energumeno volgare, capace solo di criticare, bere e dare ordini. Purtroppo mio padre si è fatto cambiare dal tempo, dalla vita e da questo bizzarro mondo, tanto da distruggere la bella persona che era, per far posto a un robot disanimato.

    Da molto tempo conosco una ragazza, Sarah Logan, collega di Sally all'Università. Adora le nostre canzoni e spesso mi aiuta a stilare i testi. Con lei passo molto tempo e ogni ora sembra solo un secondo. E’ una ragazza adorabile, oltre che bella; a volte penso che se fossi in un’altra vita, la sposerei.

    Una cosa è comunque certa: la mia band è la mia famiglia. 

    2 - Ti do un paio d'ali

    26 Ottobre 2009

    Era una mattina come tante altre. La notte prima avevo fatto tardi con i ragazzi. Una sbronza collettiva era una delle cause del mio allucinante mal di testa, oltre all’intontimento totale che vagheggia appena sveglio, dentro il mio capo. Sono sempre stato un tipo molto tranquillo, non sopporto le pianificazioni, la routine quotidiana e il farsi rincorrere dalle lancette. Per quanto mi riguarda, ho sempre gestito i tempi con una certa calma e me ne fotto della puntualità, degli appuntamenti importanti e dall'ansia delle programmazioni quotidiane. Quando a volte in passato mi facevo convincere ad andare ai colloqui di lavoro, arrivavo sempre in ritardo e quelli non accettavano di incontrarmi. Chi sta con me sa bene che non bado al tempo che scorre e che non mi adeguerò mai alla puntualità. Per la strada, ho perso relazioni, vari contatti e tante opportunità: un insieme di cose basate sul nulla. Non potrò diventare uguale alla maggior parte della gente e sono consapevole di ciò che comporterà il mio essere per la vita futura. Sono tutti presi da tempi ristretti che limitano il fiato della propria essenza, come una macchina programmata a determinati orari, come un timer incorporato nella nostra mente che deve elaborare determinati programmi entro certi tempi della giornata. E’ qualcosa di squallido e riluttante per ciò che invece dovrebbe rappresentare l’essere umano nella sua essenza più intima. Per quanto mi riguarda io non sono un oggetto, tantomeno un robot e il timer sanno tutti dove dovrebbero cacciarlo. Come direbbe Sam: Fanculo tutto, vivremo poco e malmessi, ma con un’anima da rispettare! Appena sveglio guardai l’ora nella semioscurità della mia stanza. Nel display del mio telefono apparve la scritta 11 seguito da 45. Mi alzai frastornato, tenevo un occhio aperto e un altro chiuso; cercai i miei vestiti tra il caos generale di maglieria, lenzuola, felpe, scatoli che non ricordavo a cosa servissero, cicche, bicchieri sparsi nel pavimento qua e là, jeans, cappellini e tanta altra roba ancora; forse molte cose appartenevano pure al mio inquilino, un tipo più disordinato del sottoscritto. Tutto ciò occupava a pieno l’intera mia piccola camera, ove una finestra con le grate era socchiusa e permetteva a un filo di luce, di passare ed espandersi delicatamente dentro la camera, creando un sereno e mite risveglio nella penombra. Essa fungeva anche da porta per accedere al balconcino dove si trovava la mia vecchia poltrona. E lì cercavo di meditare, seppure con una rilevante difficoltà, se non fossi stato accompagnato dalla mia tazza di caffè, dalle mie sigarette, dalla mia chitarra. Ma ciò che mi distoglieva completamente dalla desiderata e ottimale concentrazione era, soprattutto, la presenza del mio coinquilino Mike, il quale nel caso in cui si fosse svegliato prima di me, mi avrebbe tormentato la mente. Purtroppo il mio piccolo terrazzino era situato precisamente davanti al suo. Mike era il mio opposto: la mattina era arzillo, vivace, iperattivo e tremendamente loquace: in poche parole per me era un nemico da abbattere, poiché insopportabile. Quella mattina presi la mia Camel morbida, la mia tazza di caffè e anziché portare con me la chitarra, scelsi un quaderno per concentrarmi a scrivere il testo di She like the poison. Me ne stavo lì sulla mia poltrona e avevo trovato, giuro, le parole adatte al motivo fin quando sento improvvisamente spalancare la finestra del maledetto. «Ti ho beccato, bastardo! Come cazzo fai a svegliarti sempre prima di me?» Sorrisi e gli risposi: «Cerco di svegliarmi prima di te per stare in pace, ma è un'armonia che purtroppo dura davvero pochi minuti». Era sempre così quasi tutte le mattine, tranne quelle rare volte in cui Mike si svegliava prima di me, o dormiva fuori la notte precedente. Non ci stava molto a lavarsi, vestirsi e girare dalla parte del mio terrazzino, e devo proprio ammettere che aveva un suo certo stile nel rompere le palle a chi cercava l’ispirazione o a chi voleva starsene un po’ in pace; lui riusciva sempre a distrarti e conseguentemente a indirizzarti verso qualcos'altro, rispetto a quello che avevi programmato, così che le idee relative ad alcune future canzoni, non potevano concretizzarsi se non nel giro di mesi e mesi, in quanto specialmente a causa sua, finivo spesso per rimandare il mio lavoro. L’unica soluzione era il Parco, andavo lì e nonostante ero attorniato da una gran confusione, tra passanti, bimbi che giocavano e cani da ammaestrare, lontano da quel bastardo, riuscivo a concentrarmi su quello che era effettivamente il mio lavoro, sia se avessi dovuto scrivere un brano, sia se fossi in vena di allestire dei disegni. Quel giorno Mike era più vivace del solito: aveva la sua prima al Forrest Light ed era eccitatissimo, seppure non felicissimo, per il ruolo che gli era stato assegnato: sarebbe stato il pittore Marcello nella Boheme di Puccini e di questo se ne lamentava ripetutamente, tanto che pur non conoscendo l’opera, iniziai anch’io ad odiare questo Marcello che se avessi incontrato in quel periodo qualcuno con questo nome, lo avrei massacrato di botte. Marcello di qua e Marcello di là; la Boheme bla, bla, bla; Puccini è così ma anche così, eccetera, eccetera. Io prestavo attenzione agli sfoghi e ai punti di vista di Mike, ma dopo qualche mese la situazione divenne insostenibile, non che mi urtasse ascoltarlo, perché diverse volte anch’io chiedevo consigli o mi rivolgevo a lui per fargli sentire qualche brano o per sentire la sua opinione su determinati disegni, ma il suo lavoro diventava anche per se stesso qualcosa di logorante e diveniva spossante anche per i suoi amici e specialmente per il suo coinquilino. «Patrick», il suo professore, «Ha riadattato il contenuto vero dell’opera. Vuole dei personaggi che non siano quelli realisticamente proposti da Puccini. Ad esempio, Marcello l’ha ridisegnato come un rammollito, uno che sta sotto le grinfie di Musetta e questa con la sua sensualità, lo riconduce ad essere un servo, uno sguattero dei suoi ormoni. Quanto odio pure questa Musetta! Non c’era persona più adatta ad interpretarla di quella puttana di Jenny Dawson», sua collega, «È davvero brava, proprio perché è il suo ruolo reale, della vita che conduce ogni giorno. Ti giuro Jim, se non avessi interpretato la parte di quel deficiente di Marcello, l’avrei fatta volare dal palcoscenico». Allora io dissi sorridendo: «Probabilmente Patrick l’ha voluta riadattare a una situazione sociale più moderna e più vicina ai giorni nostri, dove la donna si mette in mostra e cerca di trascinarsi dietro l’uomo, che cede come un rammollito alle sue belle esibizioni, non credi?»

    E si continuò così per circa due ore. Poi lui doveva andare all’aeroporto dove stava per arrivare la sua famiglia al completo: madre, sorella, fratello e cugini vari. Tirai un sospiro di sollievo quando mi disse: «Vado, è proprio tardi!» ed io aggiunsi: «Secondo me è tardissimo!» Ma quando stava per chiudere la porta ed andare realisticamente via, tornò indietro e nel momento in cui mi preparavo mentalmente a scrivere una prima frase di quella benedetta canzone, me lo ritrovai davanti che mi fissava: «Ma sei ancora qui?», gli domandai.

    «Non pensare di non venire stasera al teatro, ti conosco, probabilmente preferiresti startene qui a casa, o magari andare al Joe’s Club con una tua scusa del cazzo; magari vorresti farmi credere che non sopporti di stare dalla parte del pubblico, ma ti giuro, se non vieni, sai precisamente cosa ti spetta e non dire che non ti avevo avvisato!» Allora gli risposi seriamente: «Se te ne vai subito e mi lasci in pace, verrò ovunque!» E tranquillizzato dalla mia risposta se ne andò davvero.

    Quel giorno non avevo programmi importanti per la giornata, se non che andare al Parco, come al solito, per racimolare quel che mi mancava di denaro e poter finalmente pagare gli arretrati dell’affitto. Dopo essermi liberato di Mike, non riuscii comunque a completare il testo della canzone, nonostante mi fossi concentrato e avessi completamente liberato la mente dalle inebrianti parole del mio coinquilino, ma come spesso capita, si ha il cosiddetto blocco e in determinati periodi, non ti sovviene proprio nulla per completare il lavoro che hai iniziato. Con i disegni era diverso, nonostante si parlasse sempre di arte. Con i disegni potevo all’istante fotografare il mio momento, quello che mi passava per la mente, istantaneamente raffiguro il mio stato d’animo e non ci vuole nemmeno molto. Così misi da parte parole e musica, mi catapultai nella doccia e riempii lo stomaco di patatine fritte annaffiate di birra; mi vestii con quello che mi capitò di prendere dall’armadietto scoordinato (in quanto gli mancava uno dei piedini che lo sorreggevano sul pavimento) della mia camera. Mi ricordo che presi una vecchia camicia e un paio di jeans strappati; portai all'indietro i miei lunghi e bistrattati capelli, e andai via verso il parco con i miei attrezzi riposti in un vecchio zaino che portavo in spalla.

    Era una di quelle giornate dal tiepido sole, con un po’ di vento fresco gradevole classico d’autunno che sembra cantarti parole soavi dentro le orecchie, come fosse un canto di serenità che precede una lunga dormita. Andavo sempre a piedi verso il Parco, in quanto non distava molto da casa; mentre attraversavo il ponte Mikan che sovrasta il fiume Sean, incontrai incredibilmente un mio ex compagno di scuola, Paul Davis, che non vedevo proprio dai tempi del liceo. Fu davvero un piacere incontrarlo perché Paul, nonostante non ci fossimo più visti dai tempi della scuola, dopo che si trasferì a un college californiano, era uno degli amici più vicini dei tempi passati. Indossava un lungo cappotto cammello che ricopriva quasi per intero la sua alta figura esile. Dal bavero in pelliccia rialzato si adagiava lungo il collo, un colletto di una candida camicia dalla quale fuoriusciva una scura cravatta in seta da tipico uomo d'affari. Il cappotto terminava sui ginocchi, coperti da larghi pantaloni color senape che finivano arruffati su un paio d'inconfondibili McQueen marroni. Teneva ancora i suoi capelli chiari e sottili, lunghi fin sotto all'orecchio, mentre appariva visibilmente stempiato fino alla piega della sua liscia capigliatura. Barba incolta, occhiali da vista alla Martin Scorsese e un'espressione vuota, persa, quasi malinconica. In contrasto con la sua fine ed elegante figura e irreparabilmente sgargiante, mi appariva una grossa pietra onice incastrata in un grezzo anello in oro giallo sull'anulare destro. Con la mano sinistra, stringeva saldamente la maniglia di un'elegante borsa da viaggio, dello stesso colore dei pantaloni, mentre con la mano destra, era occupato a digitare qualcosa sulla tastiera del suo cellulare. Dopo esserci raccontati come si andava e cosa stessimo facendo negli ultimi periodi, all’improvviso notai un certo cambiamento sul suo viso, come se ci fosse qualcosa che lo turbava profondamente e mentre il suo tono si fece più pacato, mi raccontò che era amministratore di una delle più notevoli holding finanziarie del mondo: la Saimoor Fredek, una società colossal dei finanziamenti nazionali ed internazionali. Per alcuni grandi e ingarbugliati pasticci compiuti dal Consiglio che lo coadiuvava, egli cadde in una pericolosa trappola che vedeva la Saimoor entrare in fallimento e far perdere enormi capitali ai soci. Purtroppo la responsabilità precipitò tutta nelle sue mani e molta gente ormai in rovina, lo cercava come fosse assatanata per distruggerlo con ogni mezzo possibile. Il periodo negativo di Paul che nel frattempo terrorizzato mi esponeva le sue tristi vicende, non era solo riferito alla sua carriera, ma anche alle vicende familiari: la moglie lo aveva lasciato di recente ed era riuscita ad ottenere l’affidamento dei due piccoli figli, aiutata dal fatto che il mio ex compagno di scuola soffriva di problemi psichici probabilmente causati dal forte stress e dal momento negativo che stava vivendo. Difatti si trovava a Kronin per due motivi: da un lato per liberarsi momentaneamente da quel clima rovente che lo assediava a San Francisco, e dall’altro, per far visita al dott. Preton, un psichiatra famoso della nostra città. «Ho sofferto davvero molto, adesso sono cliente di Preton», mi confessava Paul. «Chi non lo è ai giorni nostri? Tutti hanno un suo strizzacervelli!», gli dissi. «Non tutti sono dentro a una situazione come la mia», mi rispose, mentre mi osservava con un certo sguardo particolare, come se tenesse un determinato segreto che rivelasse un'oscura circostanza, caratterizzata da un'unicità che non gli avrebbe permesso di trovare una via d'uscita. «Io, Jim», continuò, «Ho manie suicida e non riesco a venirne fuori: questa situazione, questo incubo che sto vivendo, mi porta a essere risucchiato in un vortice senza fine, verso un abisso che non ha fondo, un vortice di follia che mi divora la vita. Mi faccio prendere dalla mia incessante rabbia, e tu che mi raccontavi di te, dei tuoi problemi, del fatto che vivi alla giornata, senza denaro, senza orari, senza regole, senza lavoro e intrecci particolari, caro mio Jim, io t'invidio perché non conosci tutto, non conosci alcune tremende sfaccettature incredibili e non sai nemmeno cosa significa far parte di una vita che pende il sopravvento rispetto a quello che sei veramente. Tu sei bravo, cerca di non farti inghiottire da quello che ti circonda, fallo per te stesso!» Mi parlava continuamente di questa vita che prende il sopravvento e per quanto percepii di cosa mi stesse parlando, ebbi la sensazione che le sue parole tenevano nascosto qualcosa che non poteva dirmi, un tremendo segreto che non poteva rivelare e che trasmetteva un grande terrore da trasparire in modo abbastanza evidente, dai suoi occhi e dai suoi sguardi. Iniziavo a star male per lui perché mi dispiaceva davvero, mi rattristiva molto sentirlo parlare così e

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