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Diario inconsapevole
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E-book334 pagine4 ore

Diario inconsapevole

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Info su questo ebook

Uno dei grandi registi del cinema mondiale apre le porte del suo mondo. Non attraverso una biografia, ma con le pagine ritrovate di un diario accidentale. Un diario inconsapevole, che si è costruito da solo, negli anni. Pensieri dedicati al lavoro, agli attori e ai registi che hanno attraversato la sua vita di spettatore e di cineasta, ai piccoli e ai grandi eventi che hanno interessato il mondo intero o soltanto la sua vita privata. Tra questi Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Renato Guttuso, Roman Polanski, Gérard Depardieu, Sergio Castellitto, Ennio Morricone, Claudio Baglioni, Giovanni Paolo II e anche tanti altri straordinari personaggi meno conosciuti, figure di cui Giuseppe Tornatore racconta storie appassionanti. Personaggi dell'universo del cinema, della fotografia, a volte della pittura, personaggi della sua Sicilia. Ognuno di questi incontri ha caratterizzato la sua carriera di regista e sceneggiatore e il maestro ce li racconta in questa raccolta di interviste, attingendo alla sua personale scatola di ricordi e svelando i segreti che ci sono dietro la macchina da presa e allo stesso tempo offrendo al lettore altrettante lezioni di cinema. Entrare in queste pagine è come trovare una mappa, come conquistare un segreto. È la chiave per interpretare l'universo artistico e l'opera cinematografica di Giuseppe Tornatore.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2017
ISBN9788858975275
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    Anteprima del libro

    Diario inconsapevole - Giuseppe Tornatore

    chiave?

    IL SEMPRE

    FEDERICO FELLINI

    Cosa dire di Federico Fellini che non sia già stato detto e ridetto? Cosa aggiungere su questo grande uomo di cinema che più di ogni altro ha dato lustro alla nostra cultura e al nostro Paese? Come evitare la trappola della celebrazione? Sono confuso e imbarazzato. Da dove cominciare? Conosco i film di Fellini da quando portavo i calzoni corti… Ecco, appunto… Quando ho visto per la prima volta un film di Fellini?

    Alla fine degli anni Cinquanta non c’erano molti televisori a Bagheria. Quelle enormi scatole di legno scuro, da cui s’irradiavano tremolanti bagliori di luce grigiastra, s’intravedevano solo dalle persiane socchiuse delle case più agiate. In ciascun quartiere si potevano contare sulle dita di una mano. E quando andava in onda Lascia o raddoppia oppure Il Musichiere era facile che le porte di quelle case venissero aperte ai parenti, agli amici e ai vicini che non possedevano ancora la televisione. Ed era ancora più facile, in primavera o in estate, che il magico elettrodomestico venisse spinto sino alla soglia o sul balcone per non dover accogliere tutta quella folla in casa.

    Così ho visto per la prima volta la televisione. Nelle case degli altri o per strada.

    A questo punto vi chiederete: che cosa c’entra tutto ciò con Fellini? Poco e niente. Ma c’entra moltissimo con il mito di Fellini o, per meglio dire, con la nascita del mio mito di Fellini…

    In una di quelle serate afose, sullo schermo del televisore che era stato sistemato proprio di fronte a casa mia, in via Gioacchino Guttuso (padre di Renato), apparve l’immagine di un uomo, tutto vestito di bianco, che si dondolava su un’altalena, lassù tra gli alberi; sotto di lui una giovane donnina, che lo ammirava e lo interrogava timidamente. Non ricordo se si trattasse di un film, o se fosse invece un rotocalco televisivo sul cinema, conservo solo l’immagine di quell’uomo bianco che svolazza avanti e indietro, il suono metallico della sua voce che echeggia per tutta la strada, e una parola che sentii bisbigliare a qualcuno degli improvvisati telespettatori: «Fellini».

    Tempo dopo, quando mi capitò di vedere I vitelloni e La strada, finalmente scoprii il significato di quella parola. E nella mia fantasia di ragazzino quel nome restò per lungo tempo un sinonimo di cinema.

    In seguito divenni, oltre che consumatore instancabile di film, lettore di riviste, saggi e libri sul cinema. E su Fellini si scriveva moltissimo. Scoprii che quell’immagine dell’uomo sull’altalena era una scena di Lo sceicco bianco e che l’attore era Alberto Sordi. Poi arrivai agli altri film del Maestro: Il bidone, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8 ½, Giulietta degli spiriti, Fellini Satyricon, I clowns, Roma, Amarcord. E così la mia curiosità cresceva, si arricchiva di immagini e di notizie, compravo le sceneggiature dei suoi film pubblicate dall’editore Cappelli, leggevo le sue biografie, collezionavo le musiche di Rota, organizzavo al liceo alcuni cineforum tentando impacciate quanto appassionate introduzioni a La strada e 8 ½, che avevo già visto più volte.

    Benché in quegli anni seguissi con incolmabile interesse i film di numerosissimi autori italiani e stranieri, mi accorgo oggi di avere sempre nutrito un affetto particolare per quelli di Federico Fellini, anche le pellicole della sua seconda stagione, Casanova, Prova d’orchestra, La città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred, Intervista, La voce della Luna. Li ho sempre sentiti in qualche modo familiari, mi trovavo assolutamente a mio agio nel vederli e rivederli, c’era qualcosa in quel mondo di fantasmi di provincia, in quell’ironica malinconia, che mi ricordava paradossalmente Bagheria e i personaggi della mia adolescenza. E il fatto che i suoi fantasmi romagnoli, la sua malinconia, la sua provincia lo avessero reso così grande nel mondo incoraggiava in qualche modo in me il desiderio di tradire la mia, di provincia, di allontanarmene per sempre, di andare altrove, dove si faceva il cinema.

    Spesso i giornalisti mi chiedono se l’opera di Fellini abbia influenzato i miei film. Generalmente taglio corto con diffidenza, glisso per paura di essere frainteso, ma la verità è che il cinema di Fellini non ha influito sui miei film, ha influito invece sulla mia volontà di fare i film. E naturalmente gliene sono grato.

    Ecco perché durante le riprese di Nuovo Cinema Paradiso chiesi al mio produttore Franco Cristaldi e a Pietro Notarianni, grande amico e collaboratore di Fellini, di convincere il Maestro ad apparire nei panni del proiezionista durante la sequenza finale dei baci. Fellini rispose con una lettera gentilissima e, con il suo solito tono affabulatorio, ci ringraziò per aver pensato a lui; spiegò però poi che non avrebbe accettato: diceva che in una sequenza come quella, sulla quale pesava tutto il meccanismo emotivo dell’intero racconto, far apparire un volto come il suo avrebbe distratto il pubblico e ciò avrebbe indebolito la sequenza. Mi suggeriva invece di apparire io stesso in quel brevissimo ruolo, e mi inviava tanti auguri. Accogliemmo il suo suggerimento.

    A film ultimato lo contattai per chiedergli se volesse vederlo e così ebbi l’occasione d’incontrarlo. È un episodio che non dimenticherò mai. Fellini era in sala accompagnato da Notarianni. Io, tremante d’emozione, me ne andai in cabina e per tutta la durata del film rimasi appiccicato alla finestrella della proiezione a spiare nel buio i suoi movimenti, per capire quali scene lo stessero annoiando o infastidendo. In tutta la mia vita non ho mai fissato così a lungo una persona di spalle!

    Dopo la proiezione s’intrattenne a parlarmi, mi incoraggiò, mi diede qualche piccolo suggerimento, disse che potevo telefonargli.

    Mi colpì molto il suo comportamento da maestro di bottega, il suo interesse teso a migliorare il lavoro di un giovane.

    Ritengo uno straordinario privilegio aver conosciuto Federico Fellini, aver potuto godere della sua amicizia, averlo potuto ammirare al lavoro sul set di quello che sarebbe rimasto purtroppo il suo ultimo film.

    Ci vedevamo poche volte, ma ci telefonavamo spesso. Aveva una singolare capacità sensitiva.

    Un paio d’anni fa ho attraversato una grave crisi con la mia produzione, due film che avevo scritto e preparato andarono a monte uno dietro l’altro, ero molto abbattuto. Nei momenti più difficili puntualmente arrivava la telefonata di Federico che cercava di sbloccarmi, istigandomi a rimettere in piedi la baracca. Così chiamava il film.

    Un giorno gli telefonai e gli dissi che finalmente ce l’avevo fatta, cominciavo un nuovo film. Ne fu felice: «Chissà che adesso non mi decida a farne un altro anch’io!».

    RENATO GUTTUSO

    Diario di Guttuso è un programma televisivo che ho realizzato nel 1982 per la Sede regionale siciliana della terza rete ed è firmato, com’era mia consuetudine negli anni giovanili, con quel vezzeggiativo dialettale che ancora oggi i miei amici usano per chiamarmi: Peppuccio. Fino ad allora avevo realizzato solo documentari, e ne avrei fatti ancora per qualche anno prima di esordire nella regia di film a lungometraggio. Guttuso lo conoscevo personalmente da quasi dieci anni, ma la sua figura mitica mi era stata familiare sin da ragazzino: ero nato e vissuto in una via intitolata a Gioacchino Guttuso, agrimensore e poeta, padre di Renato, in un quartiere di Bagheria, lo stesso paese della provincia palermitana che aveva dato i natali al grande artista autore della Crocifissione, della Fuga dall’Etna, della Vucciria e di tanti altri capolavori della pittura italiana contemporanea.

    Il primo ricordo visivo del volto di Renato Guttuso risale a quando avevo circa otto anni. Avevo appena scoperto che cos’era una biblioteca comunale e avevo appreso pure che il mio paese ne possedeva una alla quale si accedeva dal giardino sul retro del palazzo municipale, a due passi da un antico busto di Dante Alighieri. Il bibliotecario Castrense Civello, poeta e scrittore, mi guardò con occhio sbalordito, non capiva perché mai volessi leggere La ciociara di Moravia. Inutilmente gli spiegai che ne avevo sentito parlare a proposito di un importante film che ne era stato tratto, ma che non avevo visto. Civello ribatté che non era una lettura adatta alla mia età e in cambio mi diede due opere di Kipling: Capitani coraggiosi e Kim. Prima di andar via mi aggirai in quel magazzino ingombro di libri accatastati in attesa di collocazione e mi ritrovai dinanzi a una parete alla quale erano appese in bella mostra due autentiche camicie garibaldine, con tanto di sciabole e bandiera rossa, cimeli appartenuti a eroici picciotti baarioti.* Sotto di esse, su una sedia, notai un quadro raffigurante forme astratte di fichi d’india e un pannello fotografico in bianco e nero che mostrava il viso sudato e vagamente sorridente di un uomo elegante, colto nell’atto di firmare cartoncini e foglietti che una folla di mani gli tendeva: era Guttuso, fotografato nel corso di una cerimonia pubblica a Bagheria. Il ritratto, l’avrei appreso qualche tempo dopo, era di Mimmo Pintacuda, mio futuro maestro di fotografia.

    Negli anni successivi, vivendo la vita di paese, seppi molte cose sul conto del famoso pittore. Tante verità e, naturale in una provincia, tante fantasie. I pruriti dell’arte erano vivissimi nell’animo dei miei concittadini e la figura di Renato era una presenza immanente nell’attività di ogni cenacolo intellettuale. Nella sezione del Pci, accanto ai ritratti di Stalin, Lenin, Gramsci e Togliatti, campeggiava maestosa una riproduzione pittorica del bellissimo quadro di Guttuso La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, eseguita dai fratelli Ducato. Renato l’aveva siglata di proprio pugno in omaggio all’arte che quegli artigiani avevano ereditato dal padre, indimenticato pittore di carretti la cui bottega Guttuso aveva frequentato da bambino.

    La cassa del più importante bar del paese era sovrastata dall’immagine di una donna che fuma con aria pensosa mentre alle sue spalle emerge una folla di giovani impegnati in un ballo sfrenato. Era l’ingrandimento di un particolare tratto da Boogie-Woogie, un’altra opera del Maestro di cui ammiravamo la firma ogni volta che andavamo a pagare il caffè o il gelato, poiché era collocata giusto all’altezza delle spalle del cassiere. Non c’erano recital di poesie di Ignazio Buttitta, esibizioni canore di Rosa Balistreri e Ciccio Busacca, iniziative culturali di ogni genere in cui non si finiva per parlare di Guttuso.

    Di lui si diceva che fosse incredibilmente generoso ma che avesse un carattere molto difficile. Per quest’ultima ragione fui timidissimo e praticamente non aprii bocca quando mio padre, insieme a Pio La Torre e Giuseppe Speciale, mi presentò a lui durante l’inaugurazione della pinacoteca comunale voluta dallo stesso Maestro nel 1973. Alcuni anni dopo, però, quando Guttuso venne insieme a Leonardo Sciascia per la campagna elettorale che si concluse con la loro elezione a consiglieri comunali di Palermo, all’antivigilia della sofferta fine della loro amicizia, ebbi il coraggio di chiedergli se gli potevo scrivere. Fu gentilissimo, mi autorizzò, e così gli inviai una lettera in cui domandavo consigli su come intraprendere la carriera della regia cinematografica. Mi rispose con molta cortesia, suggerendomi di tentare di iscrivermi al Centro sperimentale di cinematografia e aggiungendo che avrebbe cercato di aiutarmi. Mi mise però anche in guardia, con saggezza, avvertendomi che avevo scelto una strada difficilissima; la sua posizione era inevitabilmente troppo vaga per un giovane assetato di certezze come ero io, e non lo disturbai più.

    Cinque anni dopo, in occasione di una sua visita ufficiale in Comune, lo avvicinai e, confortato dal fatto che si ricordasse di me, gli dissi che mi sarebbe piaciuto mostrargli uno dei miei documentari, quello sulla costruzione dei carretti. Mi diede appuntamento nel suo studio di Palermo e ne fui felice. Caricai sulla mia Fiat 500 il proiettore super 8, lo schermo, l’altoparlante, le bobine e mi recai in via Ruggero Settimo. Era la prima volta che mostravo quel documentario a un estraneo, e durante la proiezione non smisi mai di sudare e di fissare il Maestro. Ancora oggi mi capita di pensare a Guttuso quando, facendo vedere a qualcuno un mio film appena finito, mi ritrovo a cercare di interpretare l’indice di gradimento dello spettatore nel corso dell’intera proiezione, e non faccio altro che studiare i piccoli movimenti dei suoi piedi, delle mani, delle gambe, delle spalle, del capo…

    Alla fine di quella proiezione Guttuso fu entusiasta e volle sapere a che punto fossi con le mie ambizioni e i miei progetti cinematografici. Gli raccontai che oltre a quel tipo di documentari, ideati, girati, montati e autofinanziati in totale solitudine e senza possibile sbocco, non potevo fare altro. Rispose secco che me ne dovevo andare, che restando lì non avrei mai potuto incontrare il cinema che volevo fare io. Lo confesso: alcune delle frasi che Alfredo dice a Totò in Nuovo Cinema Paradiso, nelle sequenze in cui il ragazzo sta lasciando la Sicilia, sono ispirate a quelle esortazioni di Guttuso. Infine, il Maestro concluse chiedendomi cosa volevo che facesse per me. Ne fui disorientato, non ero preparato a tutta quella disponibilità. Tentennai qualche secondo, pensando a come utilizzare quell’occasione unica… Cosa potevo chiedergli? Un disegno, come faceva la maggior parte della gente che lo andava a trovare? Una raccomandazione presso uno dei tanti registi che di certo conosceva bene? Un altro vago consiglio? Ero confuso. Alla fine, chissà perché, balbettai: «Perché non scrivi le tue impressioni sul documentario?». Mi guardò, sembrava vagamente deluso, ma aveva occhi lucidi e sorridenti: «Vieni domattina, ti lascerò una busta in portineria». Il giorno dopo infatti trovai una busta contenente tre paginette scritte a mano che ancora oggi rammento come la più emozionata recensione che un mio film abbia mai avuto e che in qualche maniera mi ha aiutato a trovare la forza e andare avanti. In seguito, anche dopo il mio primo film, andavo a trovarlo una volta all’anno per salutarlo e scambiare quattro chiacchiere. Conservo un ricordo vivissimo di quegli incontri che avvenivano come un rituale, senza che lui smettesse di lavorare. Dipingeva quando parlavamo, oppure semplicemente stavamo in silenzio e io lo studiavo mentre, avvolto da un’eterna nuvola di fumo, stringeva gli occhi quasi a penetrare negli oggetti e nelle persone che utilizzava come modelli traducendoli sulle sue tele con mano agile e malinconica. Una delle ultime volte che lo vidi, sospirò: «Prima o poi arriva una mattina in cui, mentre ti fai la barba, ti guardi allo specchio e t’accorgi per la prima volta che assomigli a tuo padre… Allora capisci che sei diventato veramente vecchio». Rivedendo i suoi quadri, oggi ancor più che all’epoca in cui era circondato da cori osannanti, mi accorgo che la sua pittura è realmente grande e credo sia grave che non se ne parli più tanto. Penso anche che un siciliano come Guttuso, ossessionato dall’idea della morte come tutti i siciliani, non poteva avere un destino peggiore di quello che gli ha riservato la nostra società troppo sensibile al pettegolezzo e prontissima a confondere le circostanze in cui ha fine un’esistenza con la stessa intera esistenza.

    * Nati a Bagheria. In dialetto, appunto, Baarìa. I suoi abitanti sono dunque bagheresi e baarioti. Sul senso della difformità tra i due termini, che non è soltanto di natura linguistica, si è a lungo dibattuto. Ma la disputa non è mai approdata alla definizione formale di un concetto che, pur restando inespresso, dalle parti di Bagheria sembra chiaro a tutti. Lo stesso Renato Guttuso, a un giornalista che lo interrogò a tal proposito, rispose: «Io non lo so che differenza ci sia tra baarioto e bagherese, ma io sono baarioto».

    EMILIO TADINI, UN VIAGGIO IN SIBERIA

    Dopo mesi e mesi vissuti in una moviola, al buio, con gli occhi eternamente puntati a vedere, rivedere, rivedere, rivedere, ancora rivedere sempre le stesse immagini, a un regista accade fatalmente di smarrirsi nelle viscere della storia che sta raccontando, di non percepirne i contorni, addirittura di non riuscire più a vederla. Un sognatore perso in un sogno insognabile. E senza apparente promessa di risveglio.

    Ero in questo limbo dell’immaginazione quando un bel giorno, inaspettatamente, una voce nordica e gentile giunse a insinuarsi come una nota stonata nel quotidiano coro telefonico, la voce di Alberto Meomartini, presidente della Snam: «So che da ragazzo lei è stato un fotografo. Se la sentirebbe di tornare a fare fotografie?». Frenai la corsa della moviola, spensi la proiezione, già pronto a urlare: Magari! Molto più discretamente chiesi invece di che cosa si trattasse.

    «Dovrebbe venire in Siberia» mi spiegò lui, «a fotografare una città di centomila abitanti che appena diciotto anni fa non esisteva neppure, e ancora adesso non è segnata neanche sulla carta geografica. Si chiama Novyj Urengoj.»

    Ora, non è che la parola Siberia in genere faccia pensare a qualcosa di concreto, di preciso e di palpabile, e men che meno l’impronunciabile nome di quella sconosciutissima città, ma in quel momento quelle parole evocarono in me la solidità di una lima di ferro nascosta dentro la pagnotta impavidamente inviata al carcerato.

    Accettai senza pensarci due volte. Tutto accadde sul finire degli anni Novanta. E poiché erano mesi che ero circondato da una troupe affollatissima, decisi di andare da solo, senza assistenti. Qualcuno che mi aiutasse a reggere la borsa con gli obbiettivi e i rullini l’avrei trovato strada facendo, pensai. Fu così che conobbi Emilio Tadini. Ci incontrammo all’aeroporto, in partenza per Mosca. Anche lui faceva parte della pattuglia, e anche lui, insieme a Meomartini, a Daniele Mammolini, Ernesto Ferlenghi e Cristiano Re, si offrì subito come aiutante in campo.

    Di Emilio Tadini ricordo oggi soprattutto lo sguardo concentrato e curioso che sembrava scrutare sempre qualcosa in lontananza, il viso rassicurante solcato da rughe amiche. Non lo avevo mai incontrato prima di quell’avventura.

    Il viaggio in Siberia fu indimenticabile. La fase più interessante cominciò col volo da Mosca a Novyj Urengoj. Era un aereo vecchissimo, tappezzato di velluti dal colore ormai indecifrabile. Tra i passeggeri a bordo c’era un signore che stringeva a sé uno sportello d’automobile comprato chissà dove. Emilio lo guardava quasi incantato.

    A destinazione ci accolse una temperatura di meno 20°, ma il sindaco del paese ci dette il benvenuto sorridendo e ringraziandoci di aver portato il bel tempo. Fino al giorno prima di gradi ce n’erano stati meno 40. Da quel momento cominciò il nostro pellegrinaggio in giro per la città a caccia d’immagini. Mi era stato garantito il diritto di poter entrare in qualunque luogo e, forte di un tale privilegio, fotografavo senza limiti, con quel senso di libertà che il cinema riesce a darti raramente, e i miei compagni di viaggio reggevano a turno la mia zavorra. Anche Emilio Tadini, che mi stava accanto sempre, comunque, in qualunque posto decidessi di intrufolarmi. Case private, negozi, ospedali, teatri, scuole, luoghi e mezzi pubblici, ristoranti, supermercati, stazioni ferroviarie, laboratori artigianali.

    Ben presto mi accorsi che la sua presenza cominciava a provocare in me un ineffabile disagio. Un senso di smarrimento che solo dopo le prime scorribande mi si rivelò in tutta la sua complessa semplicità. Era l’immediatezza del rapporto che Emilio riusciva ad avere con quel mondo così lontano da noi, che io m’illudevo di portar via con me per il fatto stesso di ritrarlo. Sì, era quello che mi disorientava. Era una lotta impari. Io mi affaticavo a guardarmi intorno fiutando l’immagine da conquistare, mi muovevo continuamente, cambiavo obbiettivo, corpo macchina, pellicola, inquadratura, in base a quanto si presentava ai miei occhi mentre mi spostavo, entrando e uscendo dalle case incredibilmente tutte uguali di quella cittadina quasi metafisica la cui vita cercavo di immortalare. Invece Tadini guardava soltanto. Ma il suo sguardo mi sembrava ancora più implacabile di una macchina fotografica. Avevo la sensazione, insomma, che stesse fotografando più lui di me. Che stesse fissando la vita di quella gente su una pellicola più sensibile e duratura della mia. Inoltre mi colpiva che non si limitasse soltanto a contemplarlo, quel mondo, lui andava oltre, cercava di farne parte. Non so, entravamo nel bar della stazione ferroviaria dove notavamo un uomo seduto in un angolo intento a mangiare uno strano pesce secco. Io rapidamente lo fotografavo, Emilio Tadini invece lo fissava pensieroso per qualche istante, poi si guardava intorno, scopriva dove vendevano quei pesci a noi sconosciuti, ne andava a comprare uno e cominciava a mangiarlo. Ecco, io fotografavo una scena di vita quotidiana, lui non si limitava a fissarla nella sua memoria, cercava, sia pure per un momento, di esserne parte.

    Mesi dopo tornammo in quegli stessi luoghi nella stagione delle notti bianche. Andavamo in giro per la città sino alle quattro del mattino sotto un cielo illuminato da tramonti infiniti. La città siberiana ci appariva ancora più spettrale. E dinanzi all’orizzonte sconfinato e misterioso della tundra una mattina Emilio Tadini esclamò: «È l’ora del pane. Cerchiamo un forno. Mangiamo il pane caldo!».

    Ma fu quando d’inverno andammo in elicottero oltre il circolo polare artico, tra gli insediamenti dei nomadi cacciatori di renne, che colsi in Tadini la luce di una speciale folgorazione. Quegli uomini si ostinavano a vivere nelle stesse condizioni in cui si poteva vivere secoli fa, rifiutando ogni privilegio tecnologico. Io ovviamente li fotografavo come meglio mi era possibile, ma intanto Emilio stava insieme a loro, dentro le loro capanne, beveva quello che bevevano loro, negli stessi improbabili bicchieri, mangiava il pesce crudo come lo preparavano loro, indossava i loro indumenti, riusciva persino a comunicare con loro, chissà in quale lingua misteriosa. Fissava nella sua memoria i volti di quegli esseri umani fuori dal tempo in un modo più profondo, incisivo e realistico di quanto potesse fare la fotografia. Questo mi colpiva di Emilio Tadini. Sembrava quasi un’involontaria competizione nella quale io ero fatalmente il perdente. E il mestiere di fotografo, che avevo imparato per anni e di cui andavo fiero, improvvisamente mi appariva inadeguato e inutile. La semplicità dello sguardo di Emilio, la sua coscienza dell’impossibilità che l’immagine possa sostituirsi al reale, il suo voler conoscere il mondo vivendolo e non soltanto conservandone illusorie riproduzioni, era la supremazia della poesia e della filosofia sulla fotografia. Ecco perché quel viaggio al suo fianco fu per me una grande lezione di vita.

    Molto significativo fu il momento del nostro congedo dall’accampamento di nomadi. Ci dirigevamo verso l’elicottero inseguiti da quella povera gente e dal loro capo, il più vecchio della tribù, che non aveva mai smesso di puntare i miei stivali di gomma lunghi sino a metà busto. E mentre ci salutavano come fossimo marziani sul punto di tornare al nostro lontano pianeta d’origine, Emilio mi disse: «Giuseppe, regalaglieli!». Io sfilai la corazza che nel corso dell’intero viaggio mi aveva protetto dall’umidità e la diedi al vecchio capo che mi abbracciò e in cambio mi regalò un paio di corna di renna che il giorno dopo mi sarebbe stato sequestrato dalla polizia all’aeroporto di Mosca. L’episodio divertì molto Emilio, ma in quella circostanza il suo sorriso mi sembrò diverso da quello al quale mi ero abituato. Era come sovrastato dalla premonizione di come la distanza nello spazio e nel tempo avrebbe trasformato la nostra memoria dell’esperienza appena vissuta. La distanza, uno dei temi più cari a Tadini. La stessa distanza che ci separa da lui.

    Quel viaggio verso Novyj Urengoj sembrò un salto all’indietro nel tempo, verso quella stagione della mia vita spesa ad andare in giro a rubare immagini con la mia indimenticata Rolleicord. Anni di pedinamenti e appostamenti, anni che mi hanno insegnato a osservare la gente, a studiarne le espressioni e i movimenti, sino a prevenirne quasi le azioni, sino all’illusione di condizionarne il comportamento. Anni in cui ho scoperto che se fotografi uno sconosciuto, nell’istante stesso in cui fai scattare l’otturatore, quella persona smette di esserti estranea, perché la porterai sempre con te.

    Ecco, andare per le strade di Novyj Urengoj, intrufolarsi nelle case, nei mercati, negli ospedali, negli uffici, nei negozi, nelle fabbriche, nelle scuole, inseguendo sorrisi e stupori, frugando proporzioni e geometrie, non è stata per me una fuga verso un mondo che non conoscevo; al contrario, è stato un ritornare a un paese perduto di cui, in qualche maniera, sapevo già tutto e di

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