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A.L.F.: La storia di Donovan Bradley
A.L.F.: La storia di Donovan Bradley
A.L.F.: La storia di Donovan Bradley
E-book410 pagine6 ore

A.L.F.: La storia di Donovan Bradley

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Info su questo ebook

L'ingenuo quanto divertente protagonista Stuart Curtiss, ci racconta della sua amicizia con Donovan Bradley, nella Londra di fine anni ’80.

Entrambi si trovano loro malgrado coinvolti nell’attività di un fantomatico gruppo di animalisti d’assalto, il cui scopo primario è liberare gli animali dalle mani di chi li imprigiona e li maltratta. Il loro obiettivo è creare danno alle grandi multinazionali e alle case farmaceutiche, che dallo sfruttamento animale traggono profitto.

Il romanzo si inoltra in chiave ironica nelle ipocrisie e nei paradossi dell’attivismo animalista, dove i due ragazzi finiscono invischiati, tra situazioni divertenti ma anche drammatiche.

Il prezzo da pagare sarà la solidità della loro amicizia, attraverso un viaggio che li strapperà alla gioventù, per consegnarli all’imprevedibilità del destino e alla vita adulta.

LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2019
ISBN9788869345555
A.L.F.: La storia di Donovan Bradley
Autore

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci nasce a Cagliari nel 1964. Scrittore e disegnatore, la sua produzione in ambito letterario spazia dalla poesia alla narrativa (romanzi e racconti brevi). La rosa di Monet (Youcanprint, 2017) è la sua opera prima. A.L.F. - La storia di Donovan Bradley è il suo secondo romanzo.

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    Anteprima del libro

    A.L.F. - Maurizio Ricci

    Maurizio Ricci

    Maurizio Ricci nasce a Cagliari nel 1964. Scrittore e disegnatore, la sua produzione in ambito letterario spazia dalla poesia alla narrativa (romanzi e racconti brevi). La rosa di Monet (Youcanprint, 2017) è la sua opera prima. A.L.F. – La storia di Donovan Bradley è il suo secondo romanzo.

    …e fu così che quel giorno feci conoscenza con Don, l’amico di tutta una vita. Ancora oggi cerco di grattare via dalla mia coscienza piccole sfumature della nostra amicizia, per provare a spiegarvi Don Bradley e di quanto quella notte giù a Dorking fu determinante per noi…

    La domanda che ci dobbiamo porre è:

    siamo felici di immaginare che i nostri nipoti non vedranno mai un elefante,

    se non in un libro illustrato?

    David Attenborough

    Dobbiamo guardare il mondo con occhi diversi.

    Dobbiamo guardare noi stessi con occhi diversi.

    Siamo più liberi di quanto pensiamo.

    Non abbiamo ancora incominciato a vivere.

    Ben Okri

    La vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un essere umano.

    Trovo che più una creatura è indifesa,

    più ha il diritto ad essere protetta dall’uomo,

    dalla crudeltà degli altri uomini.

    Mahatma Gandhi

    Fissa il tuo cane negli occhi

    e tenta ancora di affermare che gli animali non hanno un’anima.

    Victor Hugo

    Dedica

    A Barry Horne,

    che ha acceso una fiamma fulgida,

    su questo mondo oscuro.

    Dedicato anche a un vecchio amico

    e all’amicizia… se ancora qualcuno

    è disposto a crederci.

    1.

    Galline.

    In fondo non si trattava che di otto stupide galline!

    Mi chiedevo perché Donovan prendesse la cosa così seriamente.

    Dal momento esatto in cui l’avevo conosciuto mi era piaciuto… Don voglio dire. Lui è un tipo che si fa amare e devo ammettere di averlo amato subito.

    Aveva cinquanta difetti, ma ai miei occhi il suo modo di comportarsi sembrava fantastico. Come avrei voluto essere come Don! Come avrei desiderato possedere quel suo sguardo magnetico e arrogante, quel suo modo di camminare agile e indolente allo stesso tempo. Quante volte avevo cercato di imitarlo, sperando di riuscire a bere tanta birra quanta ne beveva lui, e fumare le sigarette così come lui le fumava, con quelle tirate lunghe e corpose.

    Donovan Bradley era un esempio per me. Delle volte arrivavo a pensare che non si potesse vivere diversamente da come viveva lui! Non esisteva pub londinese che non ci avesse visto allegri e scanzonati a bere la nostra gioventù, seduti a luridi tavolini accanto alle vetrate appannate lungo il Tamigi, per osservare meglio il culo delle ragazze in minigonna che passavano infreddolite.

    Don era un meccanico e la sua professione la potevi intuire dal colore delle sue unghie, sempre un po’ sporche di grasso. Le sue mani callose volavano con destrezza e pazienza sui tasti del flipper, mentre l’eterna sigaretta penzolava a un lato della bocca… ma di lui avrò molto da dire mano a mano che andremo avanti…

    Giocavamo a calcio, a ping-pong, tiravamo di boxe, qualsiasi cosa ci passasse per la mente. Organizzavamo feste magnifiche – che ancora oggi molti ricordano con nostalgia – e frequentavamo ogni genere di persona e di gruppi strani. Era un periodo così…

    Londra a quei tempi era fervida di novità: era la fine degli anni Ottanta e sentivamo dentro la certezza che avremmo lasciato un segno indelebile nelle nostre vite. Il nostro forte era organizzare gite fantastiche; di solito in gruppo ma non era raro che la cosa fosse, come dire?... più intima! Facevamo lunghe scampagnate in macchina e ci fermavamo dove capitava; delle volte nei camping o in piccoli alberghi di provincia.

    Ricordo che appena qualche settimana prima, agganciammo due ragazze simpatiche e disponibili. Con loro facemmo una gita in Scozia. A me toccò sopportarmi una belloccia bionda che si faceva chiamare Peg, la quale per tutto il viaggio si mise d’impegno per gonfiarmi il cervello con tutte le manie della sua scalcinata famiglia, che a suo dire da ben sette generazioni discendeva dal cardinale Wolsey.

    Ero incazzato e non mi divertivo per niente. Mi chiedevo come avevamo potuto pensare di spassarcela con quelle due cretinette prive di spirito e con le loro arie da ragazzine per bene.

    Così, mentre sfilavamo nella campagna scozzese tra un castello e un’osteria, mi capitò di gettare uno sguardo allo specchietto retrovisore della mia Mini Morris.

    Due erano le cose che mi sarei aspettato di vedere a quel punto: la prima era che Don sul sedile di dietro si stesse dando da fare come un matto, infilando le mani negli indumenti intimi dell’amica di Peg; la seconda invece era in fondo quello che poi stavo provando io: una profonda noia! Così me lo immaginavo buttato di lato sul sedile, fumando e guardando fuori dal finestrino.

    Ma ciò che vidi negli occhi di Donovan fu qualcosa di nuovo che non avevo mai osservato prima. Se ne stava estasiato, rigido come un pesce congelato e perso negli occhi di Lucy, una brunetta dai capelli corti e le orecchie a sventola. Lei gli parlava sommessamente a meno di cinque centimetri dal viso e Don era tutto preso e interessato a ogni parola la ragazza dicesse.

    Ora non so se possa esistere una sorta di gelosia per un amico che guarda con interesse qualcuno al di fuori di te, ma ero davvero invidioso di quella Lucy. Parlottavano e Don gli sorrideva spesso. Non mi riusciva però di capire che cosa stesse dicendo di così interessante da attirare l’attenzione del mio amico, il quale col suo grado di istruzione, di solito non sopportava discorsi più lunghi di dieci parole!

    «…sicuramente gravitavano in uno dei tanti rami reali, legati alla grande Elisabetta Prima. Ma Stuart, mi ascolti o no?»

    La voce stridula di Peg mi arrivò come un gong, facendomi sobbalzare al posto di guida.

    «Certo, certo. Elisabetta Prima.» dissi confuso mentre dietro di me era in atto una vera e propria confessione. Che si sentisse una parola perdio!

    Ad un tratto, mentre Peg si lanciava con veemenza a disquisire sulla regina vergine (che tanto vergine non era), su Francis Drake o giù di lì, udii una piccola frase alle mie spalle che mi fece sprofondare ancor più nell’abisso senza fondo della curiosità.

    Era la voce morbida di Lucy: «Hanno il diritto di essere liberi. Questo lo capisci vero?»

    Lanciai un’occhiata allo specchietto e vidi Don annuire sorridendo come un bambino. Non potevo credere ai miei occhi. L’uomo virile senza sentimentalismi, sprezzante di ogni pericolo, fautore convinto del sesso libero e senza legami, quello stesso uomo che avevo eretto a monumento, a modello della mia esistenza, quell’uomo al cui confronto io sembravo un cretino senza speranza, sorrideva ad una scemetta neanche fosse un ritardato mentale.

    Non ne potevo più. Così alla prima insegna lungo la strada – credo si trattasse di un pub chiamato Deep Sunshine – accostai, facendo sgommare la Mini.

    «Che succede? Stai ammattendo?» starnazzò Peg finendomi addosso per la brusca manovra.

    Don parve svegliarsi da un sogno. Disse solo: «Ci fermiamo?»

    «Che ne dici di una bella rossa, Don?» domandai. Ero sicuro che non avrebbe rifiutato. Davanti ad un bel boccale di birra avrei avuto le spiegazioni che desideravo.

    «Oh no, grazie Stu. Andate pure. Preferisco stare qui con Lucy a parlare.» rispose Donovan con un sorriso di circostanza.

    Non volevo credere alle mie orecchie. Era Donovan che aveva parlato?

    «Ma che dici? Una sosta ci farà bene, che diamine!» replicai seccato.

    «Io scendo. Almeno potrò andare al bagno!» esclamò Peggy aprendo la portiera.

    «Ha ragione Stuart. Una sosta ci rimetterà in forze. Scendo con te Peg, l’idea del bagno non è male.» disse Lucy improvvisamente.

    Donovan la guardò scendere e ci rimase un po’ male. Lo osservai alzando le spalle. «La maggioranza vince, amico.»

    Scesi dall’auto e Don a malincuore mi seguì. Dentro di me ero tremendamente soddisfatto.

    Il Deep Sunshine era un bel localino, arredato completamente in legno rosso mogano, con tavolini tondi e piccoli comparti che garantivano una certa riservatezza oltre a una nota di eleganza e tranquillità.

    Sedemmo subito mentre le ragazze domandavano alla cameriera dove fosse la toilette.

    Guardai Don accendersi una sigaretta.

    «Che cazzo succede? Voglio dire, io sto là a rompermi le balle con Peg e tu invece a pendere dalle labbra di quella!»

    «Non capisco. Che vuoi dire?» disse lui serio.

    Cercai di allentare la tensione. Mi guardai intorno, poi ripresi cercando di non alzare la voce. «Quella Peggy è un vero strazio. Non la sopporto.»

    «Davvero? Sembra carina.»

    «Sembra che tu invece ti stia divertendo. Cosa dice Lucy di così interessante?»

    Mi lanciò un’occhiata ironica. «Niente di particolare.»

    «Spero non si tratti di stronzate politiche, perché non ti ho mai visto così attento a problemi di quel tipo.» dissi con disinteresse, fingendo di guardare la lista degli alcolici.

    Ci pensò un attimo prima di aprire bocca. «Lucy è un’animalista di quelle convinte, capisci? Mi parlava solo di questo.»

    «Animalista? Che vuol dire?» restai deluso: mi aspettavo molto di più.

    «Lei ama gli animali e non sopporta che si faccia loro del male. – spiegò Don imbarazzato. – Da un certo punto di vista è un’animalista talmente convinta da essere addirittura estremista.»

    «Che stronzate dici Don? Vuoi dire che fa parte di qualcuna di quelle associazioni verdi tipo Greenpeace

    Rise. «No, no! I verdi sono spettacolari nelle loro imprese, ma i loro obbiettivi cercano di conseguirli alla luce del sole. Quelli sì che in fondo sono politicizzati.»

    «Non ti ho mai sentito parlare così.»

    «Forse perché non mi conosci così bene come credi. O pensi non ci sia niente che possa interessarmi o appassionarmi, da rimanerne colpito. È vero che sono un ignorante e a differenza tua non ho fatto nessun genere di studi… io sono quello che ha sempre lavorato. Ma anche io ho i miei sogni sai? E anche qualche ideale.»

    «Ehi Don, non te la prendere. Non ce l’ho mica con te amico. – Ero dispiaciuto per la sua tirata sull’istruzione. – Volevo solo capire cosa c’era di così importante da assorbire completamente la tua attenzione.»

    «Okay. Lasciamo perdere, non me la sono presa. Beviamoci sopra.» disse alzando la mano per chiamare la cameriera.

    «Però la curiosità mi è rimasta. Non vorrei che ti mettessi nei guai. Lucy fa parte di qualche oscura organizzazione?»

    La donna s’avvicinò e prese le ordinazioni.

    Don guardò intorno a sé, come avesse paura che quei quattro zoticoni avvinazzati seduti negli altri tavolini, fossero in qualche modo interessati ai nostri discorsi.

    «Fa parte di un’organizzazione chiamata A.L.F.»

    «A.L.F.?» blaterai con la sigaretta tra le labbra.

    Non mi sembrò che la voce fosse troppo alta, ma a Don doveva sembrare così. «Ehi! Vuoi smetterla di urlare?»

    «Di cosa si tratta, maledizione? Non saranno davvero terroristi?»

    «Animal Liberation Front. Ecco cosa significa il termine A.L.F.»

    «Lottano per la liberazione degli animali insomma, non è così?» cominciavo a sentirmi un po’ più sollevato.

    «Diciamo che è così…» disse Don stendendo le gambe e guardando altrove.

    Ora vi devo dire che quando il mio amico Don stende le gambe e guarda da un’altra parte, quello è un chiarissimo segno che le cose non stanno come si pensa. È come se nascondesse qualcosa; come se un inspiegabile pudore si impadronisse di lui, portandolo a non proferire neanche una parola in più sull’argomento. Lo conosco bene credetemi!

    M’allungai verso di lui. «Ehi, ehi, sentimi bene. Non è che mi nascondi qualcosa? C’è dell’altro vero?»

    In quell’istante notammo che le ragazze tornavano al tavolino.

    «Non rompere le palle adesso! – sibilò Don verso di me, considerando chiusa la faccenda. – Ne riparliamo in un altro momento, va bene?»

    Annuii con la rabbia che non accennava a diminuire: Don per la prima volta mi sembrò un estraneo, un perfetto sconosciuto!

    Non ne parlammo più, almeno per quel giorno. Continuammo tranquillamente ad evitare l’argomento e passammo le vacanze, io ad ascoltare i vaneggiamenti storici di Peg e lui a confessarsi con Lucy.

    Dopo il rientro non vidi Don per almeno quattro o cinque giorni. Sembrava essersi eclissato. Lui aveva ancora qualche giorno di vacanza, ma non mi riuscì di rintracciarlo nemmeno all’officina dove lavorava. Si rese irreperibile. A casa sua non c’era mai e al telefono continuavo a scontrarmi con la sua segreteria.

    Ora vi starete chiedendo cosa c’entrano le galline?

    Con calma adesso vi spiegherò tutto…

    A dire il vero le galline erano solo sette. Se si calcolava il gallo in effetti diventavano otto, o perlomeno tante ne riuscimmo a contare dal cespuglio dove eravamo nascosti.

    Avevamo sulla faccia dei passamontagna neri, ma non stavamo oltre il reticolato che ci separava dal pollaio per compiere un atto terroristico, una ruberia o, ancor peggio, per uccidere qualcuno. Non volevamo rapire il mezzadro, peraltro proprietario dei polli. Nossignori, niente di tutto questo. Il nostro scopo era tra i più nobili e seri che un essere umano possa compiere: liberare le sette galline più gallo al seguito.

    L’idea era neanche a dirlo di Donovan.

    Quando cominciai ad essere preoccupato per il fatto che il mio amico risultasse introvabile, decisi di telefonare a Lucy. Quando rispose alla chiamata mi dichiarai seriamente in apprensione per la sorte di Don e indovinate un po’?

    «Ciao Stuart. Di cosa ti preoccupi? Don sta benissimo. È qui con me. Te lo passo?»

    Mi sentii furibondo nei confronti del mio compagno di avventure. Per la prima volta da quando lo conoscevo, mi evitava! Aveva una relazione con Lucy e mi teneva fuori, non si confidava con me. Mi sentivo tradito e fui davvero tentato di sbattere il telefono e chiudere la conversazione.

    In quel momento avrei potuto anche sparire, rispettando la sua privacy. Potevo con discrezione far finta di niente e magari risponderle: No grazie salutalo per me!.

    Se solo avessi fatto così, ora non starei qui a raccontare questa stupida storia o, con ogni probabilità, mi sarei anche dimenticato di Donovan e – non senza fatica – mi sarei fatto altre amicizie.

    Ma purtroppo dalla mia bocca uscì solamente: «Sì, grazie.»

    Don ci mise quasi due minuti per venire al telefono e mi sembrò persino stesse sbuffando mentre prendeva in mano la cornetta. «Ehi.» disse con quella voce bassa che conoscevo così bene.

    «Sono giorni che ti cerco e l’unica cosa che mi sai dire è Ehi? Che fine hai fatto? Ero preoccupato Don. Potevi chiamare perdio.»

    Il silenzio che ci separò dopo la mia sparata, mi fece comprendere quanto tra me e il mio amico si fosse instaurata una forma di imbarazzo difficilmente colmabile. In quel preciso istante capii che nulla sarebbe più stato come prima. La sua mente, il suo cuore e ogni attimo della sua vita da quel momento in poi, sarebbe stato monopolizzato da quella donna. L’aveva così stregato che la nostra amicizia di certo, poteva passare in secondo piano. Quello che mi colpì in particolare, fu il pensare a quanto Don fosse fragile e plasmabile. Capii che tutto sommato quella scorza mostrata a tutti non era poi così dura come sembrava.

    Dopo attimi interminabili lo sentii dire: «Scusami, ho avuto da fare. Io e Lucy siamo stati un po’ insieme. Spero non ti sia offeso se non mi sono fatto sentire.»

    «Okay, ero solo preoccupato. Non pensavo fosse una cosa importante. – stavolta ero io ad essere imbarazzato. – Sai voglio dire, tra te e Lucy intendo. Pensavo fosse una cosa già finita…»

    Lo udii ridacchiare e questo mi diede ancora più fastidio. Mi sembrava di percepire attraverso la cornetta le ondate di complicità che si scambiava con Lucy, mentre stava a parlare con me!

    «No, non è come pensi. Senti ora ho da fare. Sentiamoci stasera al Red Lion. Sarò lì verso le sette per una birra, così potremo parlare.»

    Ero allibito. Mi liquidava così!

    Ebbi appena il tempo di dire: «Okay.»dopodiché sentii il rumore della cornetta che chiudeva la conversazione.

    Con l’umore sotto le scarpe lo raggiunsi a Westminster e così ci ritrovammo seduti all’interno del Red Lion, circondati dagli specchi e dalle lampade tonde, in un soffice ambiente vittoriano che non placò affatto la mia rabbia.

    «Due Guinness scure e due sandwich al roastbeef!» dissi alla signorina che raccoglieva le ordinazioni.

    Don s’intromise. «No. Per me un’insalata mista e melanzane grigliate. Niente roastbeef grazie.»

    «Non vuoi il sandwich?» domandai perplesso, mentre lui continuava distrattamente a fissare la carta delle pietanze.

    «Niente sandwich. Preferisco tenermi leggero…»

    In un primo momento mi sembrò strano che Don non prendesse il roastbeef visto che era un divoratore di carni rosse, ma non ci diedi un gran peso.

    «Te la stai spassando con l’animalista a quanto pare, eh? Ti stai facendo strapazzare per benino.» domandai col solito tono cordiale e amichevole.

    Donovan però non fu chiassoso come al solito nella sua risposta. «Mmh, sì. Mi trovo bene con Lucy. È una ragazza molto intelligente.»

    «Una bestia come te è di sicuro in buone mani con lei, eh?»

    «Non è solo il sesso che ci lega.» ridacchiò Don e per qualche secondo mi sembrò di riconoscere il mio vecchio amico.

    «Certo, certo, ti ha catturato nella sua rete tanto da farti dimenticare anche degli amici.»

    Mi guardò fisso negli occhi. Poi accese una sigaretta allungandosi sulla sedia. Continuava a squadrarmi senza rispondere alle mie provocazioni.

    «Che c’è? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» domandai spazientito dopo qualche istante. Cominciavo ad essere nervoso e così accesi anch’io una sigaretta: ero teso e non intendevo dargliela vinta. Mi aveva umiliato, dimenticandosi di tutte le cose fatte insieme e dell’amicizia che ci legava. Tutto per una stupida puttanella insignificante, magra come un chiodo e che probabilmente non era neppure una bomba a letto.

    «Senti Stu, non ho voluto incontrarti per farmi coprire di insulti. Non ho alcuna intenzione di starmene qui a sentire le tue sciocchezze di amico ferito e sanguinante nell’orgoglio!»

    La sua forte personalità cominciava ad avere la meglio, così cercai di blandirlo. «Non ho intenzione di farti alcun rimprovero. Ti sei invaghito di una bella ragazza e sono contento. L’unico dispiacere per me resta il fatto che malgrado la nostra amicizia, ti sei allegramente dimenticato di me.»

    «Ma cosa dici? Senti, sono qui stasera proprio perché ho bisogno di te. Direi questo se non ti considerassi un grande amico?»

    Lo squadrai perplesso. «Ora dici che hai bisogno di me?»

    «Dobbiamo fare qualcosa assieme. Stanotte.» disse allungandosi nuovamente sulla sedia. Aveva un sorriso enigmatico sulle labbra.

    Arrivarono le ordinazioni e subito mandai giù un gran sorso di birra. Cercavo di riflettere su ciò che mi stava chiedendo. Mi augurai non fosse uscito completamente di cervello.

    «Cosa dovremmo fare stanotte di così importante? Spero non ti sia messo nei guai.»

    Don ridacchiò. «Ho bisogno che mi porti a Dorking nel Surrey. Con la tua Mini potremmo arrivarci in meno di un’ora.»

    «Fermo fermo. Dove dovrei portarti?» mi domandavo cosa avesse in mente. Forse era un’altra delle idee che gli aveva messo in testa quella stronzetta con cui si era accoppiato?

    «A Dorking. Devo mettermi alla prova. – poi inaspettatamente tornò a parlare di noi come di un’unica entità indissolubile. – Sarà il nostro battesimo del fuoco.»

    Mi lasciai convincere senza osare chiedere alcuna spiegazione, anche se la mia curiosità era ai limiti estremi. Così, dopo aver mandato giù la cena, passammo a casa di Don. Disse che doveva prendere qualcosa.

    Arrivati a Kilburn dove il mio amico aveva un’appartamento in affitto, lo attesi impaziente sino a quando non tornò con due passamontagna neri.

    «Cosa dobbiamo fare con quelli? Ti sei ammattito?» cominciavo ad allarmarmi per quella strampalata idea.

    «Ci serviranno vedrai. Andiamo ora.» replicò secco lui consultando nervosamente l’orologio.

    La Mini Morris sfrecciò nella notte verso la periferia sud-ovest di Londra. Coprimmo la distanza che ci separava da Dorking in meno di quaranta minuti. Don mi fece evitare la città, facendomi svoltare su una tortuosa strada che sembrava portare in aperta campagna. Cominciava a piovigginare e questo non faceva che aumentare il mio nervosismo.

    «Mi chiedo come ti sia venuta in mente questa cazzata. – dissi restando sconvolto dal suo incredibile piano. –

    Dovremmo andare a liberare le galline da un pollaio di un tizio di nome Farnworth?»

    «Le galline sono solo un inizio diciamo. Voglio mettermi alla prova con qualcosa di facile.»

    «Facile? Pensi che sia facile entrare nella proprietà di questo agricoltore per fare scappare le sue galline?»

    Il solo pensarci mi fece partire una risata incontenibile che a quanto pare fu contagiosa, perché anche Don cominciò a sganasciarsi. Devo ammettere che in quel momento ringraziai Dio per averci riunito, nel bene o nel male.

    Mentre lui continuava a ridere ripresi: «Le galline non scappano, sai? Se anche riuscissimo a forzare le gabbie, pensi sia facile farle uscire da lì dentro? Poi, misericordia, non penso che le galline se la diano a gambe. Forse sarà il massimo della nostra fortuna se si metteranno a razzolare nell’aia. Questi animali non sanno cos’è la libertà. È un concetto tipicamente umano, la libertà. Nel loro codice genetico non vi è contemplata che la vita in cattività.»

    «Non è importante. È solo una prova. Voglio capire sino a dove posso spingermi.»

    «È stata Lucy vero?» dissi facendo attenzione alla strada: la pioggia era aumentata parecchio.

    «Cosa vuoi dire?»

    «Ti sto chiedendo se questa idea te l’ha messa nella testa lei.»

    Don sembrò a disagio. Continuava a giocherellare col passamontagna, in un atteggiamento di timidezza che non riconoscevo come suo. «No. – disse finalmente. – È un’idea mia. Pensavo di poterti coinvolgere, ma forse mi sbagliavo.»

    Scalai di una marcia per evitare un fosso pieno d’acqua. «Ehi che ti prende? Siamo amici no? Hai deciso di liberare delle galline da un pollaio, che problema c’è? Ci sono qui io ad aiutarti. Don e Stuart i liberatori delle galline oppresse!»

    Cercavo di sdrammatizzare. Pensavo in fondo che quella fosse solo un’altra matta idea di Don, ma non sarebbe passato molto tempo per farmi comprendere quanto fossi lontano dalla realtà.

    «Entra in quel cancello! Svelto!» esclamò il mio amico con voce seria.

    Ruotai il volante all’ultimo momento e la Mini slittò un poco sulla fanghiglia del viottolo. La pioggia batteva fortissimo tutto intorno a noi. I modesti fari dell’automobile non miglioravano di certo la visibilità illuminando quel tanto che bastava da farmi notare un cancello di metallo aperto, da cui si dipanava un basso steccato di recinzione.

    Lateralmente notai un inconfondibile cartello: PROPRIETÀ PRIVATA – VIETATO L’ACCESSO. E più sotto: ATTENTI AL CANE!

    «Dove stiamo andando perdio…?» dissi in tono preoccupato.

    «Non ci pensare, conosco molto bene la proprietà Farnworth. Adesso prosegui dritto e al momento giusto ti dirò dove parcheggiare.»

    Un tuono così forte da gelare il sangue lacerò il cielo sopra di noi coprendo il forte sferzare della tempesta. «Hai notato la scritta vero? VIETATO L’ACCESSO!» replicai scandendo le parole.

    Don si girò verso di me con un sorriso a denti stretti. Cercava di allentare la tensione che cresceva in me. Non ero mai stato un tipo coraggioso e il più delle volte me la facevo sotto.

    In quel momento fui grato al mio amico per ciò che disse: «Se per questo c’era scritto pure: ATTENTI AL CANE!»

    Lo guardai, e dal modo languido e strafottente con cui sorrideva, compresi che cercava di prendermi in giro perché sapeva benissimo che con il cane di Farnworth, non avremmo avuto problemi. Di certo non abboccai e cambiando espressione cercai di rilassarmi: «Non è la scritta attenti al cane che mi spaventa, ma il punto esclamativo finale!»

    Ridemmo fino a farci venire le lacrime, mentre la pioggia cominciava a diminuire.

    Ad un tratto Don mi chiese di spegnere i fari e di procedere lentamente. Lo feci senza problemi, visto che l’acquazzone si era quasi placato. La strada ora si vedeva meglio.

    D’improvviso indicò un filare d’alberi e mi intimò di accostare. «Ci avvicineremo a piedi.»

    Fuori la pioggia accennò una ripresa, così ce ne restammo tranquillamente seduti ad aspettare che terminasse del tutto. L’atmosfera era molto intima, adatta alle confidenze tra amici. Si stava bene e così speravo di strappare qualche altra informazione a Don. Tirai fuori il pacchetto di Marlboro allungandogliene una. Accendemmo, e subito la macchina si riempì di fumo. Aprii leggermente un finestrino e subito mi giunse da lontano l’abbaiare di un cane parecchio incazzato.

    «Dì un po’, siamo sicuri per il cane? Voglio dire, non vorrei beccarmi la rabbia per colpa di un morso.»

    Don illuminò il buio della Mini con una tirata di fumo lunga. «Rilassati Stu. Vincent Farnworth tiene i suoi cani legati.»

    «Come fai ad esserne sicuro? Di certo ci hanno già sentito arrivare. Quelle bestie hanno un istinto alla guardia molto affinato.»

    «Conosco Farnworth ti dico. Sono venuto diverse volte a casa sua. L’ultima volta gli ho riparato la testata di quel suo merdoso trattore.»

    «Sei già stato da queste parti allora?»

    «Per questo ho deciso di fare questa cosa proprio qui. Quella vecchia canaglia è un vero coglione. Merita molto di più di quello che stiamo per fargli!» disse il mio amico con un moto di stizza.

    Ridacchiai. «Pensi di arrecargli danno facendo scappar via le sue galline?»

    «Non è questo che voglio. Devo mettermi alla prova e capire fin dove posso spingermi. Dove posso arrivare, insomma.» replicò Don imbarazzato.

    «Dove puoi arrivare? Non capisco.»

    «Ti spiegherò in un altro momento. Andiamo ora.» fece lui balzando fuori dalla Mini.

    Saltai fuori anch’io con tale veemenza che pestai una merda enorme. Quale dimensione poteva avere la vacca che aveva prodotto quella cosa?

    «Merda! Questo non è fango. Porca merda infame!»

    Mentre Don si sganasciava, strofinai per bene la suola in un ciuffo d’erba e, con evidente difficoltà, feci il giro della macchina. Non si vedeva ad un palmo dal naso.

    Donovan si calcò per bene in testa il passamontagna.

    M’accostai a lui. «Abbiamo qualche luce con noi, o finiremo in un canale di scarico senza nemmeno accorgercene?»

    Tirò fuori dalla tasca una di quelle mini lampadine che la gente generalmente utilizza per inquadrare la serratura della porta di casa. Lunghezza fascio luminoso: con buon ottimismo venti centimetri!

    Vidi i suoi occhi illuminarsi dietro il passamontagna. Quello sguardo sembrava dire: Perdio, ho pensato proprio a tutto sai?

    «Ah beh, se è così non dovremmo avere problemi.» dissi.

    Così ci avviammo nella notte verso i confini della tenuta di Farnworth e per qualche secondo pensai non ci fosse niente di buono in quello che stavamo per fare. Poi il mio pensiero tornò alla merda di vacca sotto la suola della scarpa.

    Passammo per i campi e l’oscurità ci avvolse. Non potevamo contare sulla luce della luna, completamente coperta da un fitto strato di nubi temporalesche. Ricordo che di tanto in tanto finivamo coi piedi in grosse pozze d’acqua e già dopo un centinaio di metri mi ritrovai coi pantaloni luridi di fanghiglia.

    Pensai a cosa sarebbe successo, se avesse ripreso a piovere forte. Intanto c’è da dire che già dopo pochi passi, la piccola torcia di Don si spense. Lo sentii bestemmiare nel buio.

    «Tutto a posto? Che facciamo? Si torna indietro?» domandai speranzoso.

    «Non ci penso neanche. Continueremo senza luce. Conosco la via verso la zona del pollaio. Tra poco ci siamo.»

    «Se vuoi rinunciare, non c’è problema Don.»

    «No, continuiamo perdio! E mettiti quel fottuto passamontagna!» sibilò verso di me.

    Credevo avesse desistito dal suo folle progetto ma lessi una tale determinazione nei suoi occhi che non replicai, calandomi sul viso quel fetido passamontagna puzzolente di naftalina.

    «Ehi, questa cosa ha un odore terribile!»

    «Andiamo. Attraversiamo i cespugli.» sussurrò lui girando verso destra.

    Per parte mia non vedevo neppure i cespugli. «Sono pieno di fango, porca puttana!»

    «Sta zitto! Vuoi che ci sentano?»

    Mi resi conto che ora i cani che abbaiavano erano almeno due, e uno di loro ululava. Un brivido mi corse lungo la schiena.

    Camminammo in silenzio per un’altra cinquantina di metri, poi Donovan si infilò in un varco tra i cespugli che delimitavano la fattoria di Farnworth. Ora potevamo vedere il grosso caseggiato, illuminato da due enormi fari alogeni. Da qualche parte abbaiavano i cani, ma io non ne vedevo neppure uno gironzolare nel piazzale antistante alla casa. Questo in ogni caso non mi tranquillizzava.

    Il ronzio monotono e ripetitivo di un vecchio motore monofase riempiva la notte. Don disse: «Di qui.»

    Finalmente giungemmo al pollaio. Ora lo potevo vedere con chiarezza: un cubicolo di pochi metri quadrati, tutto rivestito di assi di legno malconce, con la parte superiore contornata da un perimetro di rete metallica. Nascosti dietro un cespuglio ci giunse lo sbattere d’ali di qualche gallina nervosa che doveva aver già percepito la nostra presenza.

    Donovan in qualche modo doveva essere riuscito a riaccendere la sua pila. «Non durerà molto. Si stanno scaricando le batterie.»

    «Mi auguro avrai portato almeno delle tenaglie…» mormorai con un filo di voce.

    «Tenaglie? – replicò lui. – Per farne cosa?»

    Benedetta ingenuità, pensai io. «Con cosa pensi di forzare l’ingresso del pollaio, se ci dovesse essere un qualche tipo di lucchetto o di catena?»

    Ci scappò da ridere. Di sicuro la scena aveva un che di comico e la nostra incoscienza sconfinava nell’irresponsabilità. Per certo non pensavamo minimamente di trovarci in una proprietà privata, dove la nostra intrusione era punibile dalla legge.

    «Non ho portato niente con me.» ridacchiò Don.

    «Fottuto stronzo!» dissi io sganasciandomi a mia volta.

    Gli strappai la torcia dalle mani e la puntai verso la rete metallica del pollaio.

    «Che fai?»

    «Una, due, tre… cinque… sette, otto galline in tutto. Perdio, siamo qui tutti sporchi di fango per liberare otto merdose galline!»

    L’abbaiare dei cani si fece sempre più forte. Donovan improvvisamente serio riprese la pila, puntando il tenue fascio di luce verso l’ingresso del pollaio: non c’era nessuna catena. La porta era accostata e solo un piccolo passante in metallo ne impediva l’apertura.

    «Guarda. Non servono le tenaglie.» disse dandomi una gomitata.

    E così eccoci qui, nascosti nel buio di un cespuglio pronti a fare uscire le otto galline, perché possano fuggire via e assaporare per una volta nella loro stupida vita, l’anelata libertà dalla schiavitù dell’uomo cattivo e approfittatore.

    Sentivo puzza di fallimento, oltre che di sterco di gallina. Ma soprattutto cominciavo a chiedermi realmente per quale motivo io, Stuart Curtiss, ragazzo assennato e di buona famiglia, mi fossi infilato in quella situazione paradossale.

    Ricordo molto bene quella notte e ancora oggi, a distanza di anni, la rammento come una delle più spensierate della nostra amicizia. Avevo vent’anni io e ventidue lui e malgrado la nostra incoscienza, sapevamo perfettamente che da lì a poco la vita si sarebbe occupata di noi divorandoci. Tutto sarebbe cambiato. Io, senza neanche un anno di ritardo, mi sarei lanciato anima e corpo nella vita universitaria e, se tutto fosse andato per il meglio, avrei avuto il mio bel posto di chimico nella fiorente

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