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Rapsodia in noir: Sette storie di ordinaria crudeltà
Rapsodia in noir: Sette storie di ordinaria crudeltà
Rapsodia in noir: Sette storie di ordinaria crudeltà
E-book255 pagine3 ore

Rapsodia in noir: Sette storie di ordinaria crudeltà

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Sette storie di “ordinaria” crudeltà. Sette stazioni del dolore. Sette accordi noir a comporre una ipotetica rapsodia. Sinfonia stonata nel luogo delle contraddizioni: Napoli. Scoglio di sirene “sporco e malevestuto”, terra di conquista e di sfruttamento, principato dell’illegalità dove “nisciuno vaso è nu vaso d’ammore”. 
Arturo, Titta, Clotilde, Fernando, Patrizia, i guaglioni di via Emilio Scaglione, il piccolo Merdillo, Mena, note stonate che raccontano un dolore crocifisso a lettere di fuoco sui sanpietrini di piazza Mercato, sulle facciate pericolanti dei palazzi di Via Duomo, sulle volte barocche delle chiese sconsacrate dei Tribunali e dell’Anticaglia. 
Un atto di dolore, un atto d’Amore. Un libro in cui la parola diventa grido colpevole e atroce di una città, matrigna e madre, amante e puttana, che non ha più voce. 

Contributi critici di Armando Rotondi e Lucia Stefanelli Cervelli.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788832783063
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    Anteprima del libro

    Rapsodia in noir - Arnolfo Petri

    logogufo

    Arnolfo Petri

    Rapsodia in noir

    Sette storie di ordinaria crudeltà

    logofrontespizio

    Direzioni immaginarie

    Racconti, romanzi e storie per dipingere la vita

    Homo Scrivens

    Direttore di collana: Aldo Putignano

    Editing: Aldo Putignano

    Copertina: Ugo Ciaccio

    Autori: Arnolfo Petri

    Titolo: Rapsodia in noir

    Sette storie di ordinaria crudeltà

    ISBN 9788832783063

    I edizione Homo Scrivens, aprile 2017

    I edizione ebook, novembre 2022

    ©2022 Homo Scrivens s.r.l.

    via Santa Maria della Libera, 42

    80127 Napoli

    www.homoscrivens.it

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

    NOTA DELL’AUTORE

    Sono riportate espressamente in corsivo solo le espressioni chiaramente dialettali, ma non gli slang espressivi, tipici del linguaggio della periferia Nord di Napoli, che sono parte integrante del testo.

    PROLOGO

    CITTÀ

    Città dai palazzi colore del tramonto. Città dalle strade che si affacciano a mare, dai vicoli che si attorcigliano come budelli, tra salite scoscese e precipizi di fuoco, archi barocchi e torri angioine, città della mia infanzia, città dei ricordi… Città brutta, cattiva, stronza, zoccola…

    Per quante notti da quella tua pancia abbuffata di puttana ho visto nascere e crescere guagliune senza testa e senza faccia, senza occhi e senza bocca, sulo cu ’e mmane. Mani potenti, mani di piombo, mani affilate. Mani di acciaio capaci di seminare solo morte e dolore. Orde scomposte di una guerra mai dichiarata, principio e fine di tutte le cose, cataclisma delle coscienze, baionette affilate for’’o llario d’’o Castiello. Sangue che gronda ancora oggi dai patiboli di piazza Mercato: "Liberté, egalité, fraternité, magna ’o rre pure pe me". Rivoluzioni scarpesate e derise, sfuttute e tradute. Quante idee ho visto rotolare su quei sanpietrini viscidi di fanghiglia insieme alle teste mozze dei martiri.

    Città dai tramonti colore del corallo, dalle marine verde- turchese, dalle scogliere bianche di sale, dai porti fumanti di altiforni infetti, forni crematori della munnezza di ogni Nord del mondo, catena di montaggio della disperazione. Città schifosa, assassina, jastemma crudele astrignuta int’’a vocca.

    Fuori al tuo porto che spercia merda e piscio, vedo ancora adesso colare fiumi di diossina, catrame nero e sporco, sputato dal culo dei transatlantici di lusso. Crociere della vergogna per i trafficanti di odio, feste da ballo tra violini tzigani e Dom Perignon, tavole imbandite c’’o sanghe fraceto della povera gente. Diarrea del nuovo Malaffare ca se mesca alla nafta vomitata dai barconi della speranza. Galere galleggianti sbattute a est a ovest, a nord e a sud di questo Mediterraneo di sangue appestato di colera. Mare nero e sporco, brodo di cultura per enterococchi, coliformi, salmonelle, merda svacantata a mare dagli aliscafi zeppi di pendolari. Crociere della miseria svendute per trenta denari fore Porta Capuana, viaggi senza ritorno per Ischia, Procida, Licola, Miliscola: Vedi Napule e poi muori!

    Città dai palazzi che brillano comm’’a prete ’e vulcano. Città mia, matrigna e mai amica, che dalle scogliere ti apri a mare a cosce aperte come una baldracca presuntuosa. Distesa di sabbia avvermecata dagli escrementi del profitto, piattaforma di cemento dove mitili e cozze sguazzano tra la schiuma di rifiuti tossici. Latrina legalizzata per secula et seculorum, imbarco obbligato per tutti i Sud del mondo: Tripoli, Tangeri, Lagos, Kinshasa. Rotte del dolore per i Kuntakinte del nuovo Millennio, viaggi di sola andata, schiavi senza catene, maree umane alla deriva, carne appestata di vermi e di dissenteria.

    Città che dalle colline, a sera, scendi a mare, con le tue ville panoramiche, i tuoi alberghi di lusso, colate di cemento salvate da tutti i condoni di destra e sinistra, di centro e centrodestra, tanto ’o cetrulo semp’’a nuie va nculo! Fondamenta marce pagate due soldi su cui hanno campato e campano generazioni di papponi e mammasantissima, zoccole arreccute e ricuttare, nuovi Apostoli di un Verbo rivelato, sacerdoti di una jastemma diventata verità.

    Città di truffatori e venditori di fumo, capace di innamorarsi mai dei suoi figli, ma di ogni nuovo Masaniello, arruffapopoli di turno pronto a elargire mazzette e pacchi di pasta, tanto, poi, comme dicite ’a ’sti pparte: «Tirammo a campà».

    Città dalle strade strette comm’’a senghe ’e mure, dai vicoli neri e affumicati che si intrecciano come dedali contorti dalla collina verde di Capodimonte fino all’angiporto di piazza Mercato, dai tabernacoli scoloriti di santi patroni, dalle piazze luride di fontane, dove scorazzano gatte impazzite, inseguendo zoccole bavose e scarrafune bastardi e cattivi con gli occhi asciutti e chine ’e sanghe. Sangue spierzo senza colore, sangue fraceto che non si scioglie, sangue ’e chella faccia ngialluta ’e chi v’’è stramuorto.

    Citta dalle cattedrali sconceche di malaffare. Minareti svettanti come le torri di Chicago nel cielo del Vomero, di Fuorigrotta, del Pendino, di Montecalvario. Pisciatoi legalizzati di sacramenti a buon mercato, cocaina e Lsd. Ostie agliuttute da chi, pure si masto, ’a furia cavece, è rimasto sempre e soltanto guaglione.

    Città dalle torri malate, dalle chiese sconsacrate, dai castelli gravidi di congiure e di incesti, dai tabernacoli svacantati di padreterni svenduti. Città senza più Vergini e senza Madonne, col cuore sacro di Gesù smerciato sulle bancarelle di Secondigliano miez’’a borze faveze, stereo arrubbate e occhiali contraffatti.

    Città schiava e serva dei suoi figli bastardi. Caporali e sottocaporali di un sistema che della vergogna legalizzata ha da sempre fatto il suo Dio. Cancrena maesta, oramai reggente, che ha saputo impizzare i suoi tentacoli in ogni pertuso di via: Santa Lucia, Palazzo San Giacomo, Centro direzionale. Colera che ribolle su ogni segreteria di partito e non sente più Zappatore o Lacreme napulitane, ma manda i suoi figli alla Cattolica o alla Bocconi. Master in economia e in comunicazione, dottorati di ricerca in management e direzione aziendale.

    Città di arricchiti dai guanti bianchi sporchi di sangue. Moltitudine brulicante dalle camicie firmate, che calpesta gli ideali con le sue Hogan firmate, scamazza i sogni con i suoi pneumatici di morte, sputa sulla storia con quelle bocche impastate di ecstasy. Portafogli imbottiti di Visa e Mastercard che traseno e ghiesceno dalle boutique di via Calabritto o dai locali alla moda del Lungomare liberato. Nuovi profeti di un Nulla diventato verità che in estate se ne vanno a Capri, mica a Miliscola. Infestano Posillipo, il Chiatamone, via Petrarca. S’accattano ’e meglio palazze di questa città e sventrano, violentano, cancellano. Passano sopra a ogni cosa con una strafuttenza che non ha uguali. Mattia Preti, Vaccaro, Naccherino, ma chi cazzo so’?: «Neh, Totò, ma che ce n’hamma fà ’e stu suffitto pittato, vott’’o ’nterra, aggià piglià ’o sole».

    Città lurida, corrotta, infestata. Figlia neonata, sgravata dalle crepe di quel cataclisma che è stato questo ventennio, fratello assai più subdolo del terremoto dell’ottanta. Nessun palazzo venuto giù, nessun cornicione sfrantummato. Solo affarismo, commerci illeciti, protezioni politiche, speculazioni e trasformismo, opportunismo di lacchè senza scrupoli. Papponi e ricottari del ventunesimo secolo non più a sfruttare le puttane del litorale Domizio, ma a inculare le idee, grazie alla santa benedizione dei loro nuovi sacerdoti: vescovi e cardinali che nei Santuari di Piazza Affari celebrano una nuova santa eucarestia. Borghesia affaristica cresciuta e pasciuta sul contrabbando e sul malaffare e che ha saputo riciclare i suoi sporchi trenta denari. Scommesse clandestine, totip, poker, sale giochi. La moltiplicazione dei pesci e dei pani. Tutto legalizzato, alla faccia ’e chi è strunzo. Nessuna coscienza di classe, nessuna storia alle spalle. Solo gli articoli di una legge comprata e imparata a memoria per fottere il prossimo: «Tant’’o ffanno tuttequante

    Città lazzaretto, brodo di cultura appestato di una nuova epidemia. Morbo assassino peggiore di qualsiasi altro virus, più temibile dell’AIDS, peggio dell’Ebola. Gas venefico che passa di bocca in bocca, da cuore a cuore, da cervello a cervello. E che prolifera, si moltiplica, cresce a ritmo esponenziale e contagia, aizza le folle, evangelizza le masse, converte chi ancora non ci crede a bott’’e miracoli. Altro che Lazzaro e nozze di Cana, oplà, ecco il nuovo centro commerciale venuto su in una sola notte alla faccia chiaveca ’e chi ce vo’ male e dieci ristoranti accattati vascio Marechiaro, dove li pisce non fanno chiù ammore, ma abballano la macarena tra gli stereo appicciati, al massimo volume, dei cabinati di lusso, mentre ’o sole mio se ne fuie oltre Coroglio e dieci cento Carulì alluccano Ti amo ai concerti sold-out di Gigione. Unghie pittate, bocche al silicone, orecchini alla moda. Si strafocano una pita e, intanto, dicono ai loro figli criaturi, ca sempe piezz’’e core so’, in quella loro lingua bastarda chiena-zeppa di emoticon e tvb: «’O vì, a mammà? Tutto questo domani sarà tuo».

    Città madre, sorella e puttana, schifosa latrina, Vergine dalle sette spade del dolore, santa strega ed eretica, matrigna cattiva, jastemma sputazzata miez’’a via, tu, che all’ombra dei tuoi palazzi a spuntatore mi hai visto nascere, crescere e morire, segnato dint’’o core da quella malattia che infraceta solo il cuore ’e chi t’è figlio, raccogli tra le tue braccia di madre addolorata, quello che resta del mio amore disperato.

    I

    L’AGGIUSTASANTI

    E se tutti noi

    fossimo solo sogni

    che qualcun altro sogna?

    (Fernando Pessoa)

    La prima volta era successo per caso.

    Arturo stava fissando dal finestrino dell’autobus le palazzine del Don Guanella quando l’aveva vista.

    La donna stava in piedi sulla ringhiera, con il pigiama beige, la pinza tra i capelli, la vestaglia color pesca. La pelle diafana strideva con la vernice rosso spento della ringhiera. Aveva lo sguardo nel vuoto, oltre l’orizzonte, la frangetta, leggermente ondulata, mossa dal vento, in quel tramonto color antrace. Guardava nel vuoto eppure sembrava che lo fissasse. Un’espressione né triste né felice. La stessa di quando era volata giù dal terzo piano, quel freddo pomeriggio di marzo, alle sette e mezza in punto. Ci aveva impiegato nemmeno tre secondi per schiantarsi sull’asfalto, proprio davanti all’autofficina Scudellaro. Non un grido, non un’invocazione, solo un tonfo sordo, ottuso. Il guaglione del meccanico era corso fuori. La macchia di sangue si allargava concentrica sotto la vestaglia color pesca. Gli occhi sbarrati, senza espressione.

    Arturo aveva provato subito l’istinto irrefrenabile di gridare, poi si era fermato. La grassona al suo fianco continuava imperterrita a ingozzarsi di cipster al peperoncino. Ne sentiva il ruminare fastidioso e anche l’aroma pungente. Possibile che non la vedesse?

    Allora aveva inforcato gli occhiali e, approfittando della sosta prolungata del pullman a quell’incrocio maledetto, sempre il solito, aveva guardato meglio. Solo allora si era accorto di quei pochi garofani sparpagliati e di un manifestino bianco e nero,con in primo piano il viso brufoloso di una donna. Campeggiava, attaccato con lo scotch, sopra a una piccola croce di legno.

    «Madò!», un grido soffocato gli era uscito di bocca. La grassona al suo fianco si era girata un istante e lo aveva fissato con disprezzo. Solo un istante, poi aveva ripreso imperterrita a ruminare.

    Arturo aveva cominciato a sudare freddo. Per quanto ci provasse, l’immagine di quel viso devastato dall’acne non lo abbandonava. Allora aveva deglutito, si era asciugato il sudore col fazzoletto e aveva ripreso a guardare oltre il finestrino. La donna era ancora lì, in bilico sulla ringhiera. Sotto di lei quel buffo monumento funebre. Se non avesse visto quel volantino mezzo ammappuciato e chi ci avrebbe pensato! Le cose si dimenticano facile da queste parti, eppure… Come aveva potuto scordarsi di quella povera dia, quella della fabbrica di Melito: camicie Maietta, camicie perfette. La Finanza ci aveva fatto irruzione sei mesi prima. La titolare, Nunzia Maietta, arrestata. Un buco di bilancio da brivido, montagne di fatture false e dieci operaie, tutte italiane e tutte naturalmente a nero, stipate in uno stanzone scuro, senza nemmeno i servizi igienici. Tra queste Marianna Savastano, trentacinque anni, tre figli piccoli, il marito in galera.

    «La Signora Maietta? Una santa», così aveva dichiarato lei, durante l’interrogatorio e non aveva torto. In fondo doveva tutto a quella vecchia contrabbandera. Un tuppo alla Moira Orfei, il seno rifatto, ’a panza a meza votte. Se l’era presa che era solo una piccerella in quel seminterrato di via Pizzone. Dieci ore di lavoro al giorno, è vero, ma a Natale ci usciva pure la tredicesima, oltre che il panettone. E poi, parliamoci chiaro, che se ne fotte dei contributi una povera crista come lei, nata per scagno in quel Bronx desolato del falso? Quelle quattrocentomila al mese erano ossigeno. Il necessario. Nessuno sfizio, nessun lusso. E poi a casa ci stavano Dieghito, Greta e Mariastella e le criature, si sa, non mangiano certo contributi. E poi, spiegatemi, chi cazzo sta in regola in una terra in cui nemmeno l’aria sta in regola?

    Eppure i finanzieri quella volta si erano mostrati inflessibili. Sospensione immediata dell’attività. Non come due mesi prima, quando la fabbrica abusiva dei Matarazzo, quella fuori Sant’Antimo, amici di chissà quale consigliere regionale, era stata riaperta dopo nemmeno un mese.

    «Stiamo qui per far rispettare la legge, anche nel suo interesse», così le aveva detto il maresciallo. E allora vai coi sigilli, senza che quella legge, scritta da chissà chi e in quale Palazzo, se ne fottesse né di lei né dei suoi figli.

    Marianna aveva resistito due mesi, poi non ce l’aveva fatta più. Prima aveva tentato di farsi ricevere dal sindaco, poi vista l’impossibilità – il cavaliere era in campagna elettorale, un seggio assicurato al Senato – si era attaccata con le manette fuori al palazzo comunale. E quando la polizia l’aveva portata via a forza perché turbava l’ordine pubblico, lei era diventata una iena.

    «Puzzate ittà ’o sanghe!», così aveva gridato disperata, mentre la trascinavano via, tra il mormorio della gente, «E mo chi ’e fa mangià ’e criature?»

    Intorno a lei il vuoto. Le facce degli agenti impassibili, come quelle degli impiegati e della gente. Povera Marianna! Era proprio vero. Per gente come lei, senza santi in paradiso, in quel paese bastardo dove la legge è scritta solo col piombo, non c’è speranza.E così, una sera, al colmo della disperazione, dopo aver chiuso le criature dentro al gabinetto, aveva fatto una sola corsa, senza fermarsi, verso il balcone. Senza un messaggio, senza un biglietto. Un salto dritto nel vuoto, senza un grido, neppure una parola.

    Il giorno dopo era su tutti i giornali. Ironia della sorte! Fino alla sera prima una nullità assoluta e ora, spiaccicata sull’asfalto, tutti lì per lei. Ne aveva parlato persino la televisione. Pomeriggio Due, Pomeriggio Tre, Pomeriggio Cinque. Inviati sguinzagliati per tutto il paese alla ricerca di vicini, parenti, perfino il compagno di banco delle elementari. Il parroco, don Faustino, che non aveva esitato a farla allontanare in malo modo, una settimana prima, durante la processione del santo patrono, aveva organizzato perfino una fiaccolata sul corso principale. In prima fila il vicesindaco con la fascia tricolore. Lo stesso che avrebbe dovuto riceverla tre giorni prima. Peccato che fosse in vacanza in Sardegna, con sua moglie. Impegni istituzionali, così recitava la motivazione ufficiale.

    Per un po’ ne avevano parlato tutti. Persino il Cardinale:«Il Signore non abbandona mai gli umili», aveva detto compassato, mentre faceva dono a Nunziata, la madre di Marianna, di un rosario. Le guardie del corpo a trattenere la folla, i flash dei fotografi a riprendere quel momento. Lei aveva fatto un inchino. Gli occhi senza più lacrime, la faccia una smorfia di dolore. Aveva baciato quella mano liscia, la cuspide di quell’anello rosso e intanto, nella testa, un solo pensiero: «Ma dove cazzo stavate tutti, Pataterno in testa, quando avevamo bisogno di voi?»

    Poi pian piano di lei, di Marianna e delle criature se n’erano dimenticati tutti. La notizia non fa più notizia. Riflettori al buio, telecamere spente, come nelle migliori tragedie.

    Arturo non poteva crederci. Ma se quella che vedeva adesso era proprio lei, Marianna Savastano, morta spiaccicata sull’asfalto tre settimane prima, che cazzo ci faceva, adesso, in bilico, a piedi nudi, sulla ringhiera del terzo piano?

    «Mamma d’’o Carmene

    Un’occhiata più approfondita e solo allora si era accorto della mandibola spaccata, del cranio mezzo aperto da cui pendeva, come un chewing gum masticato, un rivolo di materia cerebrale.

    Arturo aveva dovuto far forza su sé stesso per controllare un conato di vomito. Si era sprofondato nel giubbotto ed era rimasto imperterrito a fissare la stoffa a fiori del sediolino anteriore. Questo almeno fin quando il pullman non aveva superato il rione per immergersi nel traffico, come sempre caotico, del corso Secondigliano.

    Da quel pomeriggio Arturo si era reso conto di vedere cose che gli altri non potevano vedere. Cose dell’altro mondo. I morti, soprattutto. Sì, proprio quelli dei film di paura. A mappate, da tutte le parti. E non con gli occhi scavati, le mani protese, il passo insicuro come gli zombie, ma normali, come se fossero ancora vivi.

    E se all’inizio si era fottuto di paura, poi pian piano ci aveva fatto l’abitudine e adesso riusciva persino a capire, al primo sguardo, che tipo di morte avevano fatto. Quelli belli, eleganti, con l’abito delle grandi occasioni, la cravatta di seta, il doppiopetto grigio, morti in pace col Signore. Quelli schifosi, sporchi, trasandati, morti scamazzati o sparati o finiti sotto le ruote di qualche camion.

    Fortunatamente, il più delle volte, i morti lo ignoravano. Si facevano i cazzi loro. Li vedevi vagabondare senza meta, trascinando le cosce spezzate, gli arti fratturati, le pance spertosate. Quasi sempre in prossimità del tramonto. Si limitavano a fissarlo, con una espressione né triste né felice, come la donna sulla ringhiera. Altre volte, invece, volevano parlare e lì era la fine. Quando attaccavano ’a pippa non la finivano più! Si lamentavano di tutto: dalla scarsezza di fossi giù al Cimitero alla loro condizione di mezzi trapassati costretti, loro malgrado, a vagabondare sulla terra per chissà quale colpa. E poi dei parenti, quelli non mancavano mai.

    «Chillu chisto e chillu chist’ato

    Così li sentivi bestemmiare, prendendosela a morte mo col figlio che non gli faceva dire messe a sufficienza, mo con la moglie che si stava mangiando tutto il patrimonio.

    Certe volte capitava che se li ritrovasse perfino a casa. Si piazzavano ’ncopp’’a nu scannetiello oppure sotto all’arco della porta e parlavano, parlavano, parlavano. Nun ’a fernevano cchiù!

    Arturo li ascoltava. Qualche volta annuiva. Altre volte faceva finta di niente. Continuava imperterrito a guardare la televisione, mentre quelli gli passavano davanti, si sedevano accanto, s’appennevano ncopp’’o lampiere o sopra a un armadio. Facevano di tutto per attirare la sua attenzione e quando cominciavano a scassà ’o cazzo, allora bastava un allucco e quelli subito zitti, muti.

    Arturo li tollerava. Ma sì, in fondo, povera gente, che dovevano fare? Mica era colpa loro se erano costretti, pure da morti, ad andare annanzo e areto sopra a questo mondo fetente. E poi, in fondo, gli tenevano compagnia. Specie nelle sere d’inverno, quando fuori pioveva e il vento sbatteva forte. D’altra parte Arturo non aveva amici. Per scelta, sia ben chiaro, ma da sempre. Detestava la fetenzia del mondo.

    «Meglio ’e muorte che ’e vive», diceva sempre quella santa donna di sua nonna e aveva ragione, eppure…

    Da dove gli provenisse questo strano potere Arturo non lo sapeva. Forse c’entravano i santi, quelli senza capa, senza mani e senza piedi che gli arrivavano, al ritmo di almeno due o tre alla settimana, da tutte le chiese e conventi della città. E già, perché Arturo era il più famoso aggiustasanti di tutta Napoli e da lui andavano pure quelli di San Gregorio Armeno per farsi aggiustare i pastori.

    «Artù, a Melchiorre s’è scassata ’a capa». «Artù, tengo Benino senza piedi».

    E con la pacienza che aveva ereditato da don Antonio, il masto suo, correva subito a prendere colla e mastice e giù ad azzeccare dita spezzate, cosce sfrantummate, cape lesionate. E intanto, mentre lavorava, jastemmava!Altroché se jastemmava. Da quando era nato. Nessuno sapeva se ce l’avesse più con la sua madre naturale che, appena nato, l’aveva abbandonato a quelle jetteche delle Monache della Consolazione o con i suoi acciacchi che gli avevano reso la vita un inferno, peggio dei suoi genitori adottivi.

    «Chilli duje viecche ’e sfaccimma!», questo gli usciva di bocca ogni qual volta pensava

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