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Le conseguenze della Mole: Il ritorno del commissario Giorgio Paludi
Le conseguenze della Mole: Il ritorno del commissario Giorgio Paludi
Le conseguenze della Mole: Il ritorno del commissario Giorgio Paludi
E-book317 pagine4 ore

Le conseguenze della Mole: Il ritorno del commissario Giorgio Paludi

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Info su questo ebook

Torino, 2002. Una fredda notte di gennaio il commissario Giorgio Paludi riceve la visita di un prete che vuole confessare un omicidio. Prende le mosse una storia torbida, che muove dai tempi del fascismo e delle case chiuse, e finisce con l’intrecciarsi a un’indagine riguardante gli omicidi di una serie di prostitute avvenuti in città negli ultimi anni. Inizia un ballo a tre fra il commissario, Martine, una femme fatale con cui Paludi vive una pericolosa relazione, e il prete che sembra conoscere i segreti di troppe persone. Sullo sfondo, il passato dei protagonisti e quello della città. Storie, fili rossi e neri, che sembrano imbastire la trama di una stretta mortale. Giorgio Paludi si racconta finalmente in prima persona, svelando gli enigmi della sua prima indagine torinese.

Fabio Beccacini (Imperia, 1977). Scrittore e sceneggiatore. I suoi ultimi romanzi sono Mentre Torino Dorme, Ultimi Fuochi per Paludi, Sushi sotto la mole, Giorgio Paludi, 44 anni il giorno dei santi e Via del Campo (Fratelli Frilli Editori). È uno dei fondatori del collettivo di giallisti ToriNoir e della casa editrice OmerO Audio Storie.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2022
ISBN9788869436086
Le conseguenze della Mole: Il ritorno del commissario Giorgio Paludi

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    Anteprima del libro

    Le conseguenze della Mole - Fabio Beccacini

    In medias res

    I primi ad avvicinarsi al cadavere sfracellato furono due cani bastardi.

    Si mangiarono un pezzo di braccio caldo e sanguinante e corsero indietro dal loro padrone. Albert, così si chiamava, passeggiava pigramente, tenendo gli occhi incollati su una lattina di Coca che stava prendendo a calci per farle attraversare la strada, senza un motivo. L’alba arrossava le colline dietro la bretella della tangenziale ed Albert, annoiato, abbandonò la lattina a metà della carreggiata andandosi a sedere su un paracarro che, insieme ad altri cilindri di cemento, delimitava uno spiazzo dove gli ambulanti, ogni martedì, tenevano abusivamente un mercato. Banchi poveri: cianfrusaglie, frutta, verdura, roba rubata e anticaglie. A quell’ora, generalmente, passava il tempo a osservare i venditori montare. I manovali, guardinghi come animali selvatici, scaricavano la roba da vecchi furgoni. Alle loro spalle, invece, la civiltà finiva di schianto e si smarriva nei campi incolti e lucidi di brina.

    Albert sentì le bestie correre. Sbuffò.

    Era stanco morto, quel mattino. Sarebbe rimasto volentieri a letto a girarsi e rigirarsi, scorreggiando. Ma se non fosse uscito a portarli fuori, Jules e Paco avrebbero raspato tutta la porta. E per la moglie, quella maledetta porta nuova, aveva più valore della Sacra Sindone.

    Quando Albert vide tornare Paco con il muso lercio, pensò che avesse rubato qualcosa da mangiare al banco della carne.

    Non sarebbe certo stata la prima volta.

    – Perché hai il muso sporco, che cosa hai combinato?

    Si alzò di scatto, indugiando verso l’animale. Pensava a quale scusa mettere in piedi per giustificare il comportamento del proprio cane, quando si avvide che l’algerino che teneva la macelleria non era ancora arrivato. Anzi, non era ancora giunto praticamente nessuno degli ambulanti tranne un tizio che scaricava da un VAN decine di bacinelle e recipienti di plastica impilati uno dentro l’altro, come matriosche.

    Albert si guardò attorno, smarrito. L’altro cane, Jules, continuava ad abbaiare nei pressi del palazzo. Lo sentiva, ma non riusciva a vederlo perché era coperto da una fila di macchine parcheggiate a lisca di pesce.

    In quel momento sui parabrezza scintillanti di ghiaccio si specchiava un emiciclo di nuvole grigio bachelite. Forse da lì a poco avrebbe piovuto.

    Era meglio rientrare.

    – Jules – urlò – Jules, dove cazzo sei!

    Tutto quel che ottenne fu che anche Paco ricominciasse ad abbaiare. Continuando così, avrebbero svegliato qualcuno, ragionò l’uomo. Rischiavano che dalle finestre gli tirassero qualcosa sulla testa. Quello non era un quartiere per bene, se lo fosse stato, lui non avrebbe avuto un alloggio da quelle parti.

    Albert si avviò verso le case popolari.

    Calcolò che fossero passati quasi venti minuti da quando aveva abbandonato la trapunta sintetica del letto. Un tempo che giudicò sufficiente, nel caso i cani avessero avuto qualcosa da fare. Quando superò le macchine, oltre la via, finalmente vide Jules. Era indaffarato con qualcosa. Da quella distanza, con che cosa precisamente, non avrebbe saputo dire in quanto erano anni che doveva cambiare gli occhiali. Non ci vedeva un accidente.

    La bestia teneva le zampe anteriori lunghe distese e la testa bassa nello sforzo di trascinare qualcosa. Un involto informe e piuttosto voluminoso.

    – Paco, Jules. Basta. È ora di tornare.

    Fece ancora qualche passo e si accorse che quell’involto non era un fagotto e che per lui stava iniziando l’ennesima giornata di merda.

    Jules stava tirando per un braccio il cadavere di una donna riversa sull’asfalto. Attorno a lei insisteva, allargandosi, una pozza di sangue.

    Dell’insieme, la testa di capelli biondi, gli occhi spalancati e la camicetta leggera, gli rimase impressa nella memoria la gonna costellata di papaveri rossi stampati su uno sfondo bianco e azzurro.

    E dopo anni, non avrebbe saputo spiegarne il motivo.

    Nessuna notte dovrebbe essere così buia, così oscura e senza fine, come la notte in cui incontrai Martine.

    Uno dei miei libri preferiti inizia pressappoco così, beh senza Martine, ma le parole sono quelle. Quale è il libro? Non ha nessuna importanza. Quel che dovrebbe importare è solo la domanda: cioè se una notte così descritta possa illuminarsi improvvisamente di una luce irresistibile.

    La risposta è sì. Sì se incontraste una donna come lei.

    Tutti dovremmo conoscerne almeno una, nella vita.

    Insomma, ero immobile davanti alla paletta della fermata del tram. Stavo lì senza un motivo, quando sentii tossire alle mie spalle e mi voltai.

    Davanti ai miei occhi si materializzò una donna alta e sottile, di una raffinata, dolente bellezza. Il cappotto color petrolio che indossava non riusciva a mortificarne le curve. Questione di armonia, una sinfonia romantica piena di arpeggi, equilibrio. Mi venne vicino piano piano, dondolando, aveva bisogno d’accendere. Sopra il labbro superiore, lievemente sollevato, e il naso all’insù mi scrutavano, come se fossi un animale di una razza difficile da interpretare, due occhi di un colore quasi impossibile, tendente al viola. La figura flessuosa era fasciata da un abito di pregio un po’ liso, a sottolineare un’eleganza forse troppo altera. Con quel tipo di donne non riesco mai a trovare le parole da dire, mi mettono soggezione. Così non dissi niente, un mio grande classico, e la fissai tornare da dove era venuta scomparendo in una pioggerellina sottile.

    Ogni notte d’inverno Torino regredisce negli anni ’70, è come se non si fosse mai affrancata dal piombo di quel decennio. Le strade silenziose, le macchine parcheggiate in centro, i neon che friggono instabili sulle volte dei portici, sono un manifesto strappato di un’epoca mai del tutto conclusa. L’illuminazione cittadina del resto è rimasta la stessa delle vecchie pellicole di Torino Violenta e Torino Nera o di Banditi a Milano, che a dispetto del titolo parla di una celeberrima banda di rapinatori torinesi. Ora, il friggere delle luci, ricorda prevalentemente sale slot, Compro Oro, umidi anfratti dove la carne di capra gira sugli spiedi, e decine di ristoranti orientali all you can eat dove potete mangiare un sacco di cose, nessuna delle quali propriamente commestibile.

    Vicino a dove incontrai la donna teneva bottega il barbiere che mi dava una ripulita ogni tanto, poco distante da Palazzo Nuovo, la sede dell’Università Statale. Probabilmente riconoscerete il volto del proprietario, se mai ci farete un salto: il signor Natale per molti resta il malvivente di Torino Violenta.

    Insomma, ero appena uscito dal cinema Massimo dove avevo visto una pedante ricostruzione storica degli omicidi vittoriani di Jack Lo Squartatore, e il robusto punto esclamativo della Mole mi segnalava la direzione di casa.

    Non avevo voglia di tornare a bere birra guardando il muro e decisi di passeggiare verso il centro. Fu così che all’altezza di un night, vicino alla sede della RAI, incontrai per la prima volta Martine, ve l’ho detto, mentre facevo una pausa sigaretta. Io non cammino mai con il mozzicone in bocca, fumo solo da fermo. Non è certamente l’unica stranezza che ho.

    Prima che mi rivolgesse l’attenzione fantasticai che fosse una puttana appena uscita dal club.

    Aspetterà un cliente facoltoso. Lui sarà andato a prendere la macchina in un parcheggio sotterraneo. È un gentleman. È pieno di gentleman che si accompagnano con le prostitute. Magari non vuole farla stancare, su quei tacchi maledetti.

    Questi erano più o meno i miei pensieri, anche se, ancora non sapevo nemmeno quale fosse il suo nome. Però ricordo che aveva i tacchi a stiletto rossi, come la suola. Neve sporca, invece, veniva accatastata accanto sul marciapiede dai mezzi che la spalavano.

    Poco prima, o forse ore, camminavo lungo via Roma quando notai una Lancia Delta. I vetri rotti, sparsi a terra, indicavano che era appena passato uno scassinatore d’auto. I cristalli raggrumati sul cofano denotavano forse solo un atto vandalico. Perché occuparsi di sfondare il vetro anteriore, il più resistente, quando basterebbe dedicarsi con parsimonia di sforzo, al deflettore?

    Indicai una candela della Magneti Marelli rotolata sotto il copertone dell’auto accanto. Un gesto istintivo, visto che non ero in servizio ed ero da solo a passeggiare, quella notte. L’ispettore Anastasi non era lì con me per prendere nota della targa, delle caratteristiche, del colore.

    Fatto sta che mi ricordai del modello della macchina, e della nuance: era a metà strada tra il verde e il blu. Una tonalità più chiara del cappotto che avrei visto indosso a Martine da lì a poco. E dopo, mentre osservavo la donna allontanarsi al rallentatore, indovinai che curva faceva il suo sedere e sospirai al pensiero di vederlo in ginocchio.

    La sua bocca soffiava volute di fumo al mentolo e vapore acqueo. Camminava? Stava ferma? Faccio fatica a rammentarlo. Ero attratto come una calamita da quella femmina. Se non fossi uscito da poco dal commissariato di via Verdi. Se non avessi sentito la sigla del tiggì di mezzanotte. Se non ci fosse stata la stalagmite della Mole a ferire il cielo di nebbia e a ricordarmi di essere al mondo, di essere a Torino nelle ore che attraversavano la notte dell’11 gennaio, avrei potuto immaginarmi in qualsiasi luogo e in nessuno.

    Perché niente poteva avere importanza fino a che i miei occhi si potevano posare su quella camminata. Quella traccia di luce in quella notte così scura.

    Questa è una di quelle storie che non avrei voglia di raccontare a nessuno, anche se è proprio quella che ho deciso di riferirvi.

    Più tardi finii a casa sua, è ovvio.

    O in quella che le pagava Paweł, il pappone che gestiva con una certa classe il Tout Va La Nuit. Il polacco è un protettore istruito, sa cinque lingue ed è formato in fisica e matematica. È anche molto intelligente, per cui predilige parlare solo di donne. Donne e macchine costose. In una delle tante visite che ho condotto da lui per la buoncostume – con un certo piacere non lo nego – mi aveva illustrato la sua filosofia di vita. Meno spiccia di quel che potrebbe apparire. Gli avevo chiesto: Non ti sei mai sposato?

    Aveva scosso la testa.

    Figli?.

    Aveva allargato le mani.

    Non ne ho il tempo, né tantomeno l’interesse. La famiglia rende vulnerabili. Preferisco di gran lunga le donne sposate. Le donne sposate o le puttane di lusso. A volte le due cose coincidono ed è il massimo che un uomo della mia età possa chiedere da questa faccenda.

    Mi ero chiesto di quale faccenda parlasse. Forse voleva sentenziare con una massima la spiegazione del vivere. Non mi era parso attendibile.

    Era stato lui a tradurre quel pensiero, con un’immagine ben figurata.

    Una buona cena, due risate, champagne freddo, una bella scopata. Poi ciascuno torna alla propria vita: vuoi mettere, commissario?

    Non ci sono molti papponi che possono darmi del tu. E non ce ne sono nemmeno così tanti con cui abbia tempo e voglia di scambiare quattro chiacchiere. Non è così comune, né conveniente, per un commissario di polizia entrare in confidenza con persone a cui un giorno potrebbe dover dar la caccia, o controllare i segreti fin dentro il nero dell’anima.

    Molto più tardi, finii a casa sua, di questo stiamo parlando.

    A casa di Martine, non di Paweł. E intendo anche dire che non fu la stessa sera, ma nel ricordo sono cose che collego, la prima volta che la vidi e la prima in cui ci andai a letto, come fossero perle della stessa collana. O maglie della medesima catena.

    Dipende da molte cose. Alcune delle quali non le ho ancora comprese.

    Una stranezza è che non mi sarei aspettato di trovare un camino acceso. Sono questioni che ho sempre legato all’immagine delle case di montagna. Chi lo innescava? Chi soffiava sul fuoco per farlo ardere? Possibile che già fossi geloso se pur la conoscevo da pochi istanti?

    La legna nel camino crepitava, i sospiri fluttuavano dalle sue narici. Andavano tra il profumo francese e la puzza del cognac, caldo, che aveva imbrattato il colletto della sua camicetta. Martine si era sbrodolata con civetteria. Ostentava ubriachezza, con una certa disinvoltura.

    Io ce l’avevo duro, nei pantaloni, lo sentivo pulsare.

    Mi accarezzò con una mano, senza togliere i guanti neri.

    Fu come fossi tornato un bambino e lei fosse la polluzione notturna al risveglio di un sogno paradisiaco.

    Eiaculai, bagnando la stoffa.

    Nel duemila e due abitavo in città da meno di sei mesi.

    Avevo ancora il sale del mare di Genova sui vestiti, come amavo dire forbendo di nostalgia le poche parole che spiccicavo coi colleghi della sezione della mobile. Pensavo che parlare del mare, dei vicoli, della caccia alle bande di ecuadoregni, potesse darmi un tono. Era un esercizio stupido e puerile.

    I poliziotti del quadrante e le puttane di via parlano la lingua della strada. Alfabeti criminali con poche rime, spesso inintelligibili a chi la notte non la abita, né la conosce. Allora capii presto che per farmi rispettare dai nuovi colleghi non sarebbe servito a niente lagnarmi del matrimonio ridotto a pezzi e del fegato pulsante come un secondo cuore, ne avevano anche loro da parte di storie così, con la polvere, sotto al tappeto.

    L’ho già detto che quella notte sembrava troppo buia?

    È che invecchiando si diventa come stupidi dischi, si gira attorno alle stesse ricostruzioni, che si ripetono spesso, finendo di credere che sono tutto quel che abbiamo. Perlomeno ciò che ci resta.

    Vi sto parlando di quanto? Quindici, sedici, anni fa, ormai è tutto passato. Anche quello che credevo non avrei mai potuto sopportare.

    Così come non avrei mai stimato di resistere tutto questo tempo in una città che non sono mai riuscito veramente ad amare.

    Eppure, eccomi qua, Giorgio Paludi, cinquantanove anni il giorno dei Santi.

    Dieci giorni prima

    Era una notte come le altre in commissariato, l’11 gennaio del 2002.

    È sempre una notte come le altre quando sta per succedere qualcosa.

    La notte era una come le altre, ma il giorno precedente lo ricordo originale fin dalla mattina. Ero sceso dal letto col piede sbagliato, con una convinzione marziale. Ai tempi lavoravo alla seconda sezione della mobile, criminalità straniera e prostituzione, un feeling tra papponi e meretrici che andava avanti dalla notte dei tempi.

    Quel giorno davo una mano a un collega che si occupava di criminalità diffusa. C’era un problema che girava per i corridoi della questura come merda nei tubi e stava in un bel fascicolo beige di cui nessuno si voleva occupare. Dalle scrivanie del primo piano era salito al quinto per poi tornare ai livelli bassi. Sinteticamente: non ne fregava niente a nessuno.

    Si trattava di un giro di affari a cielo aperto, così sfacciato da essere allestito alla luce del sole.

    Ogni giorno davanti alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova, al Giardino Sambuy, tossici e vecchietti si mettevano in combutta. I primi per accumulare i soldi che gli consentivano di comprarsi la droga, i secondi per pagare meno possibile il cibo da portare in tavola ottenendo un bello sconto sulla spesa. Il sistema che avevano adottato era più semplice della pisciata di un bambino. I tossicodipendenti si presentavano al Giardino Sambuy. Lì, ad aspettarli, c’erano sempre gruppi di vecchietti che attendevano con pazienza di fare il loro ordine. Tonno, carne in scatola, olio, lamette per la barba, pomodori pelati, concentrato di limone... generi che i tossici andavano diligentemente a rubare al supermercato, annotandoli sul taccuino, lista alla mano. Una volta rubata la spesa i tossicodipendenti tornavano dai vecchietti che gli pagavano il cibo a circa la metà del prezzo. In questo modo i cari nonnini risparmiavano il cinquanta per cento del denaro e i tossici accumulavano una cresta sufficiente da consentirgli di comprarsi la dose e spararsi una pera. Non tutti però erano vecchietti che non riuscivano ad arrivare a fine mese, alcuni di loro possedevano case in città o fuori regione, a volte anche affittate in nero. Lo riuscimmo ad appurare con dei successivi controlli incrociati in collaborazione con la Guardia di Finanza. E io sono altrettanto sicuro che i pensionati fossero consapevoli che i loro risparmi avrebbero potuto portare i tossicodipendenti che rubavano per conto loro fino alla morte, contribuendo direttamente alla loro ultima overdose.

    Insomma, durante quel turno dovetti fare affidamento su delle risorse di autocontrollo che non credevo di possedere per non mettere le mani al collo di quei cari nonnetti stempiati, e stringere forte forte.

    Questo però è quel che accadde il mattino.

    La notte, dopo aver strigliato un paio di quegli ottuagenari, mi sentivo a posto con la coscienza e facevo correre le lancette in attesa di buttarmi in branda, magari dopo essermi fatto una sega.

    Però, continuavo a pensare a lei.

    Mi era bastata un’apparizione nella nebbia per perdere la testa, inutile negarlo. Scacciai il pensiero.

    Cercai a caso in una catasta di libri che tenevo sempre in ufficio un volume che non fosse troppo spesso. Lo trovai. Era un romanzo di Raymond. Le parole con cui iniziava il capitolo erano queste Interrotto dalla vecchia, venuta a vedere che cosa stava succedendo nella stanza accanto mentre lui doveva ancora finire con la ragazza, l’assassino le saltò addosso senza una parola... quando all’orecchio me ne giunsero altre, di parole, pressappoco queste.

    – C’è un prete che vuole parlare con lei.

    Era l’ispettore Anastasi. Stava sulla porta con due borse sotto agli occhi che parevano i lividi di una scazzottata.

    Gli indicai la sedia e lo feci accomodare.

    – Perché proprio con me?

    L’ispettore non rispose. Si era addormentato.

    All’epoca non sapevo ancora del suo problema: Anastasi è narcolettico. Evitai di disturbarlo, non avevo idea del comportamento da tenere in quei casi, magari avrei potuto creargli qualche impaccio svegliandolo di soprassalto e mi infilai nel corridoio. Raggiunsi la sala di attesa e ripetei la stessa domanda all’ombra che appariva in controluce oltre i vetri smerigliati.

    – Perché vuole parlare proprio con me?

    Il prelato non era vecchio, doveva avere pressappoco cinquant’anni, ma la pelle raggrinziva attorno alle sue ossa come una decorazione di carta pesta.

    – Il commissario, Giorgio Paludi?

    – In persona, di fronte a lei.

    – La facevo più alto.

    Trovai la considerazione priva di senso. Sono un metro e novantacinque, ho fatto il servizio di leva nei corazzieri.

    – Dunque voleva parlare con me – scrutai l’orologio appeso al centro della parete che ticchettava – alle due meno un quarto, di notte.

    Il prete allargò le braccia, come volesse parare un pallone proveniente dal corridoio.

    – Certi peccati c’è bisogno di confessarli a chi li sa capire.

    – Cosa le fa supporre che io sia la persona giusta?

    – Io non suppongo, sono un prete: io ho fede che quella persona sia lei.

    – E lei sarebbe?

    – Mi perdoni, ha ragione.

    Così facendo si alzò in piedi e mi lasciò a bocca aperta.

    Raggomitolato sulla sedia con la schiena ricurva e il capo occultato da un Borsalino Montecristi bianco immacolato, si era mimetizzato a dovere. Ora svettava su di me di almeno cinque centimetri.

    – Piacere, monsignore Carlo Azzolini.

    Monsignore? Il suo nome mi diceva qualcosa che sul momento non seppi decifrare. La situazione si faceva interessante.

    Lo condussi alla macchinetta che faceva il caffè in fondo al corridoio del piano. Il prete ne accettò uno doppio con un’alzata di spalle.

    Con la punta della lingua controllai che non scottasse troppo e lo trangugiai senza zucchero, utilizzando quei momenti per studiare il mio avversario.

    Ancora una volta l’uomo mi stupì, precedendomi.

    – Voglio confessarmi. – mi disse.

    Mi sentii a disagio. Per un attimo pensai che non avesse tutte le rotelle a posto. Magari era scappato da un convitto di suore che fungeva da ospizio per i preti in pensione o pazzi, come doveva essere lui.

    Scrissi il suo nome su un pezzo di carta.

    Nel frattempo Anastasi si era svegliato, come se niente fosse, e mi stava venendo incontro nel corridoio. Gli passai il pizzino. Capì che doveva controllare le generalità.

    Ogni tanto comprende qualche cosa anche lui.

    Annuì e si tolse dai piedi.

    – Confessare, che cosa, monsignore? – gli chiesi.

    – Un omicidio – rispose affabilmente.

    Sette giorni prima

    Martine non so se si chiami davvero Martine, lo avrete capito anche voi. Probabilmente è solo il nome che si è scelta. Uno dei tanti che le consente di concorrere alla vendita del proprio corpo.

    Per altri si chiama Luana, Iride, Natalia.

    Per me è sempre stata Martine e sempre lo rimarrà.

    Non è francese e non ha la erre moscia.

    Ha soltanto un’inflessione dolce caratterizzata da un forte rilievo delle consonanti e da una notevole moltiplicazione dei suoni vocalici, probabilmente è originaria della riviera romagnola. Non glielo chiesi mai.

    Martine mi piaceva guardarla, starla ad ascoltare, oltre che vederla godere. Almeno credere che lo facesse, bisogna sempre essere riservati su certe questioni. Non le ho mai fatto troppe domande, ne faccio già abbastanza per lavoro, e cerco di evitare nel privato, se proprio non devo. E poi, non ce n’era bisogno, era lei a raccontarmi molte cose, persino troppe. Parlare sembrava alleggerirla di qualcosa, a me non creava disturbo ricevere quelle confidenze e così le prestavo il fianco. Avrei fatto tutto per lei. Persi la testa.

    Non l’ho mai detto a nessuno.

    Ho cercato di non pensarci per tutti questi anni.

    Martine aveva tredici anni la prima volta che un amico di suo padre ci provò con lei. Ne aveva tredici ma ne dimostrava diciassette. Tutti i suoi muscoli lottavano contro la forza di gravità uscendone vittoriosi. Probabilmente era ancora lontana dalla raffinatezza che avrebbe raggiunto in seguito, ma le sue curve erano al posto giusto e ben pochi uomini in futuro avrebbero dimostrato la risolutezza di dirle di no.

    Il tizio la stava accompagnando a casa, l’aveva tirata su vicino all’uscita da scuola dove lui aveva finto di passare per caso. A lei non importava, aveva male ai piedi dopo l’ora di ginnastica e un passaggio le avrebbe fatto comodo in ogni caso. All’improvviso, in macchina, mentre parlava della sua squadra di calcio preferita l’uomo le aveva preso la mano e se l’era messa sul cazzo. Lei aveva fatto per toglierla, con una certa esitazione, era confusa ma sorpresa dell’espressione che era apparsa sul volto dell’uomo. Intimamente per lei era una novità, la trovava affascinante, perché la faceva sentire potente, irrorata da una sensazione inebriante che non aveva mai provato prima.

    Pochi istanti appresso era salita su quella macchina sbuffando e levandosi goffamente di spalla lo zainetto rosa. Era convinta di essere soltanto una ragazzina, un’adolescente di fronte al turbamento dei primi brufoli, e nel volgere di un attimo,

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