Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Nudo
Nudo
Nudo
E-book505 pagine8 ore

Nudo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

il racconto di una generazione nata dalle macerie della Seconda guerra mondiale, che ha conosciuto le droghe e utilizzato musica e scrittura come atto politico e di libertà. Il romanzo di Michael Pergolani è un blues grondante disperazione, narcisismo, umorismo, voglia di vivere misto a tragedia, romanticismo deformato dalle droghe, amicizia, musica, vita e morte. È il romanzo di un testimone eccezionale. Eccezionale perché il testimone non parla ma scrive con precisione e poesia. La bellezza del suo romanzo sta nel dettaglio della scrittura e negli ingredienti visionari, ritmici, incalzanti, senza pudori. Il suo libro è un portafoglio di memorie vitali (dal nazismo ai giorni nostri col carburante dell'arte d'avanguardia, del sesso, del rock, delle droghe, della televisione, del giornalismo e della sua vita privata): quarant'anni di vita riversi su un romanzo polifonico a più piani temporali e drammaturgici.

LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2022
ISBN9791280143099
Nudo

Correlato a Nudo

Ebook correlati

Biografia e autofiction per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Nudo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Nudo - Michael Pergolani

    prefazione

    questa è la storia del mio viaggio, di un cammino che non necessariamente porta da un luogo all’altro, da una città all’altra o da un paese all’altro, una storia che non segue neppure un ordine cronologico ma saltella tra le pieghe del tempo. se dovessi scegliere una sola definizione per identificarla, direi che si tratta di una baruffa sentimentale in movimento e quindi piuttosto distante dai recinti della logica. è un andare fatto di avvenimenti realmente accaduti in luoghi come roma, lubecca, londra, malta, new york, rimini, e di altri, frutto di un cocktail tra realtà e finzione, ingredienti che, una volta shakerati insieme, anch’io trovo difficili da separare. pensate a quando andate in macchina da soli, ci sono le cose che accadono fuori dal finestrino, c’è il traffico, gli autobus, i turisti ai musei vaticani, le buche sulla gregorio vii, c’è poi tutto ciò che accade dentro all’abitacolo in cui siete seduti, cambiare le marce, frenare, il cellulare che squilla, la musica di giuliano leone a radio rock e infine anche le cose che accadono nella vostra mente a prescindere, e allora ecco i ricordi, i sogni, gli incubi, ecco le fantasie erotiche, le nostalgie, i desideri, ecco le vostre donne, il bel culo di cleo, le labbra d’ivonne, la lista delle cose da fare, l’appuntamento da picci per i denti, con silvio per il pranzo dal cinese… ecco, forse non l’avete mai fatto prima, ma adesso pensate a tutto questo insieme, pensate anche a quanto spesso tutto questo miscuglio accada nella giornata e senza che ve ne rendiate conto… immaginate attraverso quanti avvenimenti e quanti livelli temporali siete in grado di transitare, pare una follia ma credo che il cuore del romanzo sia proprio questo passaggio attraverso gli infiniti livelli spazio-temporali, un viaggio che scorre cavalcando la distorsione dei fatti e del tempo, essendo esso stesso distorsione, un fascio scomposto, deformato di pensieri, azioni e sentimental-data che si sovrappongono, si intersecano, si sfilacciano, si accoppiano creando di conseguenza nuove reti neuronali, fino a formare un insieme in costante, incessante movimento, un movimento che mi fa pensare alla fisica quantistica ma che a me, persona del novecento, piace chiamare cubista. un viaggio quantistico con pablo picasso seduto sul sedile accanto che si fuma l’ennesima gauloises mentre con la mano libera sintonizza la radio in cerca di notizie sulla caduta di madrid… mi viene anche in mente guernica, les demoiselles d’avignon, il ritratto di marie-thérèse walter, mi viene in mente un pomeriggio assolato del 16 agosto 1936, la fucilazione di garcía lorca, ma anche le avventure de i ragazzi della via pàl nella fioca luce dell’abat jour accanto al letto. ecco questo è il mio romanzo.non aspettatevi una biografia in senso stretto, anche questo naturalmente ma al contempo ampie zone di deformazione e distorsione, di reale e fantastico, di passione, tristezza ed ironia, insomma un vero romanzo, in definitiva qualcosa che potrebbe benissimo essere la storia di qualcun altro, di qualcuno che non sono io, di uno che nella distorsione mi assomiglia e di cui scrivo usando un falso nome… il mio. qualcuno direbbe che alla fine non è che uno dei tanti romanzi on the road scritti dal tempo dell’odisseo, in effetti lo è ma quella long and winding road di beatlesiana memoria accade nella mia testa e nel mio cuore con picasso nell’orecchio sinistro a farmi perdere l’equilibrio dal giorno della mia nascita al giorno in cui sto scrivendo, settant’anni dopo, presumo ad una manciata di mesi dal giorno in cui arriverà la mia fine. un pensiero per voi sgradevole, lo so, ma quest’è, non c’è di che preoccuparsi, alla fine questo è solo un romanzo… o no?

    l'inizio

    mio padre aveva perso la guerra. molti suoi coetanei, tra cui un certo numero di suoi amici, dalla russia non erano più tornati a casa, molti erano rimasti storpi, altri s’erano ammutoliti e altri ancora erano diventati tristi com’è triste la pioggia invernale sul lago bajkal. sì, papà aveva perso la guerra. faceva parte di quell’umanità che tecnicamente aveva perso la seconda guerra mondiale, il che stava a significare, nella pallida luce di quel 2 settembre 1945, molti cadaveri ancora da seppellire, molti ragazzi fatti a pezzi in posti lontani, milioni di madri con la sabbia al posto delle lacrime, migliaia di sbandati, penosi ritorni a casa di gente senza scarpe, decine di città ridotte a mucchi di calcinacci e mattoni sbriciolati, molta fame, tante toppe al culo, mani e piedi coi calli, unghie sporche, pidocchi, piattole, chiazze d’urina ad ogni angolo di strada e pantaloni con in tasca poco più che un pezzo di spago e una cicca fatta con la paglia. loro erano quelli che avevano perso la guerra, che in pratica significava che avevano perso tutto, anche l’onore ma ad essere sinceri anche ai vincitori non andò molto meglio. avevano vinto, sì avevano vinto ma i cimiteri, gli ettari di croci bianche sparse in giro per il mondo stavano lì a ricordare a chi poteva ancora spendere un’erezione o una parola dolce, che milioni di coetanei vincenti non se l’erano cavata, che al contrario li avevano abbattuti come pupazzi al luna park sulla spiaggia di salerno, a montecassino, lassù in normandia, sulle dune d’africa, a stalingrado, nel pacifico e in mille altri posti. ta-tà-ta-ta-tà, morti. kaput. ta-tà-ta-ta-tà, dead. shit. merda. sheisse. erano tanti questi ragazzi, milioni di facce sghembe e occhi stralunati sulle figurine del più grande album mai concepito dalla panini: mi manca, ce l’ho, mi manca, mi manca, mi manca, ce l’ho, mi manca... con queste figurine, rigorosamente in bianco e nero, noi ragazzini giocammo e giocammo fino a consumarle sotto i polpastrelli, fino a cancellare facce ed eventi, giocammo infinite partite a sottomuro lì accanto al lampione di viale vaticano, per ore e ore, fino al buio della sera, fin quando le nostre madri ci venivano a cercare per cena. noi eravamo quelli sbucati dall’ecatombe, quelli che, come me, erano sbucati dal buio a causa di una copula frettolosa, forse di uno stupro, forse di una insopportabile voglia di vita mentre l’ultima sequenza di bombe inglesi cadeva sui quartieri ad ovest di lubecca. noi eravamo quelli arrivati in ritardo all’appuntamento mortale della storia, quelli del dopo, per intenderci, i fortunati. questo ti dico michael, questo mi viene in mente, in apparenza senza ragione, parole sconnesse dalle cose di oggi, parole gettate sul tavolo così tanto per festeggiarti e festeggiarci in un giorno che ci riguarda da vicino e lo faccio, scusami, con l’insolenza di un parente all’improvviso riapparso dallo stupido buio della storia solo per dirti questo, per regalarti qualcosa di mio nel giorno della nostra festa. abbi cura di te e di tua moglie. ti voglio bene michael, tuo miky.

    potrei cominciare così. il romanzo può cominciare da qui, da questa mail di miky a michael, dalle foto allineate sullo schermo del mac il 14 gennaio del 2018 giorno del mio settantaduesimo compleanno e da una banalità che rasenta l’idiozia la vita è nel groviglio tra nascita e morte, la vita è il groviglio.

    1.

    esisto da un mese. meine mutter si chiama herta elise augusta stooss, è bella che potrebbe fare l’attrice di cinema altro che la sarta come dicono i documenti, ha 22 anni, gli occhi blu e i capelli biondi, mio padre si chiama carlo pergolani, è italiano e scuro, lui dice d’esser nato a perugia e d’essere architetto, di sicuro è andato volontario in russia, lì i tedeschi a un certo punto l’hanno fatto prigioniero e internato nel campo di concentramento dove mutti lavorava come segretaria e dove si sono conosciuti. c’è poi oma christine wilhelmine neelsen che è quella che più di tutti pensa a me, ai miei bisogni, tipo lavarmi, cambiarmi, cospargermi di pomata, fasciarmi e darmi il biberon, donna essenziale nonna christine solo un po’ burbera, poi c’è opa hans kniephoff che ha sposato nonna in seconde nozze, gli voglio bene a nonno, è grande e grosso, ha la faccia tonda come la luna, gli occhi a mandorla come un mongolo e ha un sorriso buono quando mi prende e mi trasporta in giro per casa nelle sue immense mani a cucchiaio, ha un buon odore nonno hans, di professione fa il capitano di rimorchiatore al porto di amburgo, sa di nafta ma tra le rughe dietro al collo nasconde il sale e il garrito dei gabbiani.

    gennaio 1956, travemünde. una giornata invernale e un’immensa spiaggia sulla quale s’abbatte fischiando e sollevando sferzanti vortici di sabbia il micidiale vento del nord mentre file e file di cavalloni s’infrangono imbizzarriti sulla battigia. verso la svezia il cielo è solcato da nubi basse e nere che avanzano come una mandria di cavalli al galoppo mentre laggiù, verso la danimarca, si vede un orizzonte di schiume sollevarsi tra cielo e mare.

    - fu in una giornata come questa che su una secca a 3 miglia da qui e coi motori fuori uso, si arenò il trinidad, un vaporetto svedese carico di legname che proveniva da malmö. era il 14 gennaio di tanti anni fa. lo stesso giorno del tuo compleanno, michael. la cosa straordinaria fu che la tempesta, quella volta, durò per quasi venti giorni e quando alla fine qualcuno riuscì a raggiungere la nave, trovò solo metà dell’equipaggio

    aveva detto opa, fermandosi dietro i capanni ad aggiustarmi il cappellino e la sciarpa per difendermi dal vento, da quel vento teso e sibilante che, passando sul baltico increspato, s’era caricato di pulviscolo d’acqua e di sabbia finissima.

    - gli uomini stavano tutti rannicchiati in sala macchine intorno alle caldaie. pareva dormissero, ma erano morti, tutti morti assiderati, s’erano ghiacciati michael. degli altri, di quelli che probabilmente tentarono di salvarsi a bordo delle scialuppe, non si seppe mai nulla. fu un inverno terribile, uno dei peggiori di tutti i tempi, ricordo che il termometro per tutto il mese di gennaio e febbraio era fisso sui 20 gradi sotto zero. con tua nonna si andava a pattinare sul fiume e il carbone scarseggiava.

    aveva concluso opa, chiudendosi nel silenzio dei suoi pensieri. allora mi aveva messo un braccio sulle spalle e attirato a sé come a volermi proteggere non più dal freddo, ma da quei pensieri, dai fantasmi del trinidad. insieme poi ci eravamo avviati verso il lungomare deserto.

    concepito nei giorni che vanno dalla morte di hitler alla resa della germania, sono nato alle 10.37 di lunedì 14 gennaio 1946, capricorno con ascendente pesci e piuttosto infelice di essere venuto al mondo, voglio solo dire che questo posto, questa camera sempre in ombra a causa di due finestre troppo piccole e questa culla di legno norvegese con materasso di crine non è il massimo, ma posso farcela, sì, sono convinto di potercela fare, anche se ci sono cose che ancora mi spaventano e mi fanno battere forteforte il cuore. il buiototale per esempio, i piccioni che schiamazzano sui davanzali, le ombre che di notte s’agitano sul soffitto e a volte pezzi di quell’altra vita che si accende quando mi addormento. abitiamo tutti, eccetto papà carlo che sta a marlesgrube, al 24 di hundestrasse una strada in leggera pendenza che parte in alto dalla più importante e illuminata königstrasse e sfocia in basso nella kanalstrasse che costeggia il fiume trave solcato da silenziose chiatte cariche di carbone. la hundestrasse è una stretta strada che si srotola tra due file di antiche case coi tetti spioventi. sulle sobrie facciate gotiche si aprono piccole finestre ingentilite da tendine di cotone bianco e qualche vasetto di fiori.

    pioveva finissimo e fitto quel 16 luglio 1950. tutto era grigio e bagnato oltre i vetri appannati della finestra di casa di oma christine, vetri su cui col dito mi divertivo a disegnare la nave di opa hans. in strada, sotto un ombrello nero, passava il mio amico franz tenuto per mano da sua zia annelore, un donnone cattivo e sfacciato che, come al solito, lo strattonava gridandogli di camminare più svelto. era una donna che incuteva terrore e non aveva vergogna a prendersela con chiunque, uomini, donne e soprattutto bambini. anche il cane di karl schneider, il figlio del fornaio, un pastore belga che tutti schivavano per il suo ringhio feroce, sembrava intimorito quando incontrava quella montagna di lardo e capelli biondi che faceva la parrucchiera in un negozio vicino alla porta di burgtor. povero amico mio!

    era stato proprio in quel momento che con la coda dell’occhio avevo intravisto un taxi girare dalla könig e lentamente scendere lungo la hundestrasse e mi ero paralizzato davanti alla finestra mentre il cuore s’era messo a battere come un tamburo e le lacrime avevano iniziato a scendermi dagli occhi sulle guance.

    erano loro, mio padre e mia madre, me n’ero convinto come avevo intravisto il taxi in cima alla strada. finalmente dopo 4 anni, 5 mesi e 11 giorni erano tornati a prendermi giusto in tempo prima che io morissi trafitto dai mille aghi dell’abbandono. solo il loro ritorno, soltanto il loro amore, insperabilmente ritrovato, m’avrebbe permesso di tollerare che per seguirli avrei dovuto lasciare lubecca e sopportare, come un bravo soldatino, l’angoscia di dover lasciare tutto ciò che conoscevo, quella strada, quella casa, la mia stanza, il letto col piumone, il campanile spezzato della katharinenkirche, l’adorata soffitta, la mia slitta, la neve a natale, baast il gatto nero, franz l’amico silenzioso, il piccolo karl e sua sorella cleo con cui giocavo a palla, il nonno e la nonna. solo il mio spropositato bisogno mi avrebbe spinto a lasciare tutto questo e partire per un futuro incerto, tra persone sconosciute che non parlavano neanche la mia lingua. mi aspettava una paurosa vita lontano, laggiù a sud, in una città chiamata roma.

    la chiatta naviga lenta, la chiatta naviga lenta e taciturna sulle acque del trave. opa hans s’è seduto sulla panchina sotto il salice piangente, è immenso come la katharinenkirche, buono come una frittella di patate, nella tasca del giaccone ha infilato lo zeitung del 14 gennaio del ’56, nello sguardo d’acqua e gabbiani vola l’impero dei mongoli, tra le rughe che gli solcano il viso scendono sottilissimi nastri di sale, nelle grandi orecchie ulula ancora la sirena del suo rimorchiatore. quanto manca all’ultimo attracco? si domanda opa hans gelando e imbiancando sotto le raffiche della tempesta polare.

    la chiatta naviga lenta, la chiatta naviga lenta e taciturna sulle acque del trave. herta sua figlia, bella come ingridbergman, è sull’argine pigro del fiume a osservare quel suo malinconico riflesso che l’inseguirsi d’esigue onde distorce e deforma come davanti agli specchi del castello fatato al luna park, nell’aria l’eccitante odore dei würstel-con-senape alla piastra, il trillante suono della pianola che accompagna la giostra dei cavalli, le risate che zampillano dall’animo come una fontana di mica cinese. quante possibili vite in quei riflessi mostruosi, quante imprevedibili e bizzarre strade a ogni salto del destino, quanto dolore a ogni nuova sconosciuta deviazione. perché t’ho lasciato a lubecca, klein michael? si chiede herta ingridbergman rabbrividendo e sciogliendosi in un rigagnolo di perle lucide di colpa.

    la chiatta naviga lenta, la chiatta naviga lenta e taciturna sulle acque del trave. com’è forte nel fasciame di legno e nel ferro brunito della chiglia, pare un mostro marino addomesticato dal suo capitan domatore, un drago sonnolento che fende le arcane acque come in un sogno.

    la chiatta naviga lenta, la chiatta naviga lenta e taciturna sulle acque del trave con quella gobba che è un’enorme collina di carbone sul dorso, lanciando uno sbuffo di fumo scuro tra le betulle del boschetto mentre l’odore acre del coke si spande nello slavato pomeriggio di lubecca.

    la chiatta naviga lenta, la chiatta naviga lenta e taciturna sulle acque del trave. sulle rive gli uomini in bicicletta si fermano a guardarla con la fame negli occhi, portano morbidi berretti marinari calati sulla fronte, immense giacche trequarti di pelle nera, maglioni a collo alto di grezza lana blunavy e pantaloni di fustagno tenuti alla caviglia con mollette da bucato. forse domani andrà meglio, si dicono gli uomini in bicicletta, riprendendo a pedalare con la sconfitta che s’è seduta in canna.

    la chiatta naviga lenta, la chiatta naviga lenta e taciturna sulle acque del trave. ci son donne sul ponte di mattoni rossi, camminano appesantite dalle borse della spesa e dall’età, sformate nei vecchi cappotti conservati in naftalina, vanno sole per la loro strada rasentano le gotiche mura, senza guardare, invisibili se potessero, come la grazia smarrita tra i corpi sepolti nel fango del don, dov’è finita la primavera del ’38? si chiedono le donne del ponte, rapide ticchettando sul selciato col pianto negli occhi.

    lunedì 24 aprile 2018, ore 4.18, tapum-tapum-tapum. i feel so helpless mentre i pensieri rabbrividiscono e scappano frusciando tra via sconosciuta e largo qualunque e poi giù per il muro storto fino alla piazza che ti spiazza, nel buio ubriaco e viscido della notte più sordida, nella notte dell’anguilla, come sguscia e sputazza l’anguilla.

    tapum-tapum-tapum. senza sogni buoni, senza nemmeno incubi, senza sogni e basta, solo questo rimbalzare ottuso di pensieri sulle pareti dello studio. ta-toc, ta-toc-toc, palline da tennis nel neon mentale mentre cammino avanti e indietro, salone, camera da letto, studio e poi studio, camera da letto, salone… ta-toc, ta-toc-toc. 40/15 due set point per federer. helpless, i feel so helpless tonight, can you hear me, babe? please tear my eyes out, snatch my very soul, babe, non voglio niente indietro, prenditi tutto ciò che vuoi, cleo mentre ti canto i’m so glad you came into my life the 24th of april 1991.

    non facile questa nottata con tutti i fantasmi sulla pista da ballo, a volte mi spiazzano i bastardi e mi ritrovo come un vecchio idiota a non riconoscerli neanche. e tu chi sei? tu lì nell’ombra, chi sei? il tanghista? e tu dietro la colonna? sei federico il grande? sei ivonne la mia black lover di los angeles? la mia goddess delle pompe al risveglio? oppure mia madre alle prese con la lametta?

    tapum-tapum-tapum. helpless all’ora degli spettri, ma lo so, sono sempre io, questo e quell’altra e quell’altro ancora, maschio e femmina, uomo o animale non importa, sono io, tolomeo il grande, michael il narratore, miky il ragazzaccio di fulham, sono anche il faraone, sono la regina cleopatra in vetrina sui canali a luci rosse di amsterdam, sono io il figliol prodigo e il nipote imbroglione, eccoci tutti, siamo i cupi consanguinei in fila dietro il carro, dietro i cavalli i cui pennacchi si agitano nel cielo di piombo al ritmo degli zoccoli sul pavet, siamo ombre cinesi sui fili elettrici e ci odiamo, ci odiamo l’un l’altro con rabbia e vorremmo farci a pezzi, sbranarci. this is my family, my only family, my lovely e affezionata famiglia.

    continuo a scrivere in attesa che il cuore si acquieti, nel frattempo un tavor, mezzo bicchiere di gin e due cubetti di ghiaccio.

    tapum-tapum-tapum. suona il cuore, adesso vorrei andare oltre le parole, fermarmi magari nella terra dei mugugni o in quella dei fischi o magari in quella della tosse e del catarro. in questo momento scrivere anzi de-scrivere ciò che accade non posso proprio, ho perso la docu-scrittura, mi sembra di non saper dare forma a quel mare di lettere e punti e virgole che mi sfiorano la corteccia, attorniato da insetti decapitati, frrrr-frrrr-frrrr, lugubri ali trasparenti. ecco, eccole arrivare le parole, possenti o suadenti o inutili perdio, ecco gli aggettivi instupiditi, i verbi come madonnine fluorescenti, gli avverbi nudi e sconci col moscio ente tra le cosce.

    tapum-tapum-tapum. maximam-ente, il cuore non conosce decenza o indecenza, posso solo immaginare di raccogliere briciole d’indecenza sulla tovaglietta dove ho smollicato parole per vivere e qualche volta per amare.

    tapum-tapum-tapum. l’indegnità è nel mio portafoglio come in quello di tutti e allora certe volte vorrei esplodere e sentire nel guizzo di quell’attimo fatale, il suono e la forza del bang, di quel momento lì, dell’esatto momento in cui il corpo esplode e si polverizza. fottervi, potrei dimezzare le parole, ecco, potrei conservare una sola sillaba e dire pen- e sen- invece che pensiero e sensazioni oppure id- ed emo- per ideali ed emozioni. come scaglie di dna, consapevole però che dentro c’è tutto, tutto quello che ho vissuto, visto e sentito fin dalla notte egizia, un nulla a dir la verità.

    tapum-tapum-tapum. due ore di nonsoché, due ore di gioia e tristezza le mie amanti ammutolite, due ore a braccetto con l’ambiguità sulla superficie oleosa dello specchio, per una notte a letto con la sorella gemella della morte, per una notte dietro le sirene, dietro le puttane col culo all’aria e la passera ombrosa, dietro lo struggimento di un pianoforte che suona as time goes by a piazza navona o di una chitarra elettrica, penso a clapton e a suo figlio accanto alla finestra in attesa del destino, penso anche a segovia su e giù per le colline della sierra de andújar. bellezza scarcerata, bellezza in libertà vigilata, due ore di libertà vigilata che valgono come l’universo intero o come il nulla da cui tutto proviene, anche il mio cuore inquieto. poi, all’improvviso niente più tapum-tapum-tapum, sono le 6.12 minuti e, dopo catinelle di pioggia, fuori dal bar nettuno di salerno finalmente ti scorgo cleopatra e mi viene da cantare, mia dottoressa.

    'cause you came and you took control,

    you touched my very soul.

    you always showed me that

    loving you was where it's at

    you made me so very happy,

    i’m so glad you came into my life

    thank you baby, yeah yeah

    (you made me so very happy, blood, sweat & tears)

    la guardo dal buco della serratura. sono 23 giorni che è rinchiusa là dentro. sta appollaiata sul bordo della vasca da bagno completamente nuda. non parla mia sorella cleopatra e, per quanto ne so, non mangia, non beve e non dorme. ma come si fa a sopravvivere in queste condizioni? all’inizio di questa ennesima follia del bagno nata dopo l’arrivo delle navi di cesare, di notte le mandavo la mia schiava neithhotep per ungerla, per tentare d’imboccarla e condividere calore, ma da qualche giorno cleo non la vuole più ed ora sempre più spesso mi capita di svegliarmi di notte, tutto sudato ed urlare il suo nome al deserto. pensare che la prima volta mi ero persino eccitato a spiarla da dietro la porta.

    2.

    25 maggio 1565 anno domini, malta, in mezzo al mediterraneo, tra i fumi delle case andate a fuoco, durante una pausa dei cannoni turchi. io e cleo siamo sul terrazzo del nostro palazzo a san michele ed osserviamo i bagliori che vengono da forte sant’elmo, lì ancora si combatte. non potranno resistere a lungo quelli del forte, presto saranno tutti morti per mano di mustafà pascià. abbraccio cleo da dietro prendendomi il suo calore e quel suo profumo di gelsomino che ha portato in un’ampolla da rodi, poi mi avvicino all’orecchio.

    - non sarà senza dolore sorella

    sussurra tolomeo a cleopatra mentre la luna turca sale verso altair a creare ombre sguscianti tra i loro corpi affacciati sul porto e sullo smarrimento.

    - no, meo, il distacco non sarà senza dolore

    risponde cleo appoggiandosi alla balaustra del terrazzo.

    - ho concesso al padre e alla sua nuova sposa di vivere l’esilio in casa nostra ma a lui non bastava. anche adesso che è morto sento i suoi passi incerti su e giù per le scale, sento il vecchio imbroglione riprendere fiato nella grande sala del giudizio. quel suo respiro, quell’opaco fetore di morte...

    - l’esilio non l’ha mai intristito meo.

    - vuoi dell’uva cleo?

    - guarda, il catamarano da pozzallo entra in porto.

    - puntuale come ogni sera meo, con gente che torna dall’ikea di catania carica di frigoriferi e librerie da montare.

    verso est, oltre la balaustra, protetta dai bastioni che sconfissero i turchi dorme birgu, a nordest la valletta si spinge verso il mare aperto come una grande balena scura, è tardi, poche luci ne illuminano i fianchi, luci fioche, sepolcrali che non servono neanche a sparecchiare la tavola dopo cena. questa sera il mare è piatto, pare olio, l’aria è immobile e carica di umidità. sudiamo, gli abiti di cotone egizio ci si sono incollati addosso. sudiamo stando immobili. la fronte di cleopatra è madida, piccole perle di sudore le sono apparse tra il naso e il labbro. adoro mia sorella, adoro la mia sposa con gli occhi torvi e la mente alessandrina, lei gloria del padre, di quel padre che sconfisse archelao ma che poi si giocò il regno a dadi con amon ra per di più cercando di barare.

    il palazzo non è la casa dove andiamo ad abitare ma è la casa che abita noi ogni volta che io e cleopatra arriviamo a malta con le nostre piccole valigie al seguito. è lui che prende possesso di noi e lo fa appena mettiamo la chiave nella serratura, appena accendiamo la luce dell’androne protetto dai grandi cani cinesi di legno. è come entrare nella pelle di un drago che prima ci accoglie e ci riscalda e poi ci ingloba condividendo con noi succhi e odori. ogni volta che arriviamo dobbiamo percorrerlo in lungo e in largo, stanza dopo stanza, scala dopo scala, dal piano terra al mezzanino, dal piano nobile al nostro appartamento e su fino alla terrazza che s’apre sul grande porto. ogni singola pietra, ogni colonna, ogni arco o finestra, perfino le ombre che ondeggiano in quei mille e passa metri quadri diventano carne della nostra carne, spirito del nostro spirito, diventano casa, la nostra casa. è così che accade.

    - ci sono stati morti. metà del popolo morì di peste. era estate anche allora, la torrida estate del 1675. ti ricordi meo? quasi 2000 morti solo qui intorno. fu comprato un pezzo di terra dove bruciare i corpi.

    - la gente buttava i cadaveri fuori dalla porta e li lasciava sulle strade a marcire. sulla piazza dove c’è adesso la chiesa di san filippo ce n’erano a mucchi. la puzza era terribile, topi ovunque, il liquame scendeva giù per il vicolo fino al mare. anch’io scavai buche e raccolsi i morti.

    - poi c’è stato il terremoto. l’isla si stava appena riprendendo dalla peste che fu squassata dal terremoto. la chiesa della vittoria si spaccò in due, ancora morti e case abbattute...

    - fu danneggiata anche questa casa cleo.

    quando nel 1987 l’acquistai ero un giovane fantasioso e scapestrato. fu il terrazzo con la sua vista maestosa e struggente a convincermi di comprarlo, sarei invecchiato come matisse in una celebre foto dov’è seduto su una poltrona di vimini, col pancione e la barba bianca, gli spessi occhiali poggiati sul naso, il cappello di paglia in testa, indosso un bel kaftano bianconuvola e una gatta nera.

    - quando diventerò vecchio sarò matisse nel suo palazzo di malta

    dissi a cleopatra quando, qualche anno dopo, mi capitò di rincontrarla. non ci vedevamo da un bel po’ io e cleo, tant’è che come la incrociai a roma non la riconobbi. certo era cambiata, s’era allungata di diversi centimetri, un piccolo neo le era cresciuto sopra il labbro e portava una curiosa capigliatura triangolare col vertice in basso, dietro il collo, vagamente maschile, vagamente ottocento inglese, vagamente... ma come ho fatto a non riconoscerla! fratello e sorella, marito e moglie, amanti dai tempi della grande piena del nilo. un idiota.

    - meo svegliati, svegliati!

    - che c’è cleo?

    - ti ho sognato fratello. ti ho sognato ed era tutto così vivido e reale che quando mi sono svegliata il cuore mi batteva forteforte ed ero tutta sudata. stavi partendo, stavi partendo da un’isola e mi stavi lasciando.

    - ma che dici cleo! di che isola parli?

    14 gennaio 1523. ci aveva concesso la vita, il solimano. in un momento di grande generosità, di cui si pentirà poi amaramente, decise di graziarci e di lasciarci andare perché avevamo combattuto con grande valore. cominciammo così a lasciare la nostra rodi conquistata e distrutta dal turco il 1 gennaio dell’anno del signore 1523. in pochi giorni presero il largo con rotta verso il regno di sicilia le 50 galee dei cavalieri di san giovanni che erano ancora in grado di navigare con a bordo più di 4.000 civili cristiani con i simboli della nostra religione. io di queste navi ne comandavo una, la santa esperanza e, fatte le riparazioni necessarie, approntata una nuova vela, salpai dall’isola il 14 gennaio di quell’anno... eravamo stati sconfitti ma più che la sconfitta mi bruciava l’essere stato costretto a lasciare la mia adorata casa tra gli ulivi a poca distanza dalla chiesa nuziale di aghia irini nel villaggio di koskinou. in quella casa, ch’avevo costruito con l’aiuto di vito di theologos il miglior capomastro dell’isola, avevo messo su famiglia e lì nella grande stanza che guardava il mare la mia sposa egizia cleo partorì nostro figlio andreas che morì di febbri malariche nel viaggio verso la sicilia. passati alcuni anni, dopo che re carlo per ordine di papa clemente concesse malta all'ordine degli ospitalieri in cambio di un falcone all’anno che doveva essere consegnato ad ogni pentecoste, trovammo dimora sulla punta dell'isla, nel luogo sacro a san michele arcangelo. lì mettemmo su casa ma non avemmo figli, lì vivemmo la nostra vita fino ad arrivare entrambi alla vecchiezza.

    (dal libro di tolomeo de rebus ordinis sancti ioannis)

    non ha veri mobili il palazzo di malta. poche cose senza valore nella grande sala del giudizio. un divano, due poltrone consunte sui braccioli, un ampio tavolo quadrato di ferro e vetro con otto sedie intorno, due per lato, un paio di madie una per le stoviglie, una per i libri, un pianoforte, due grandi vasi cinesi, un paio di stufe, un impianto con due casse da 40 watt e mille canzoni nell’ipod per la musica. nulla in una sala di 120 metri quadri e alta 6. sul lato della strada c’è una portafinestra che dà su un balconcino in pietra e due grandi finestre che guardano il vicolo e la casa di klaus l’industriale bavarese. tra le grandi pietre d’arenaria di cui sono fatte le pareti ne è stata trovata una con la croce dei cavalieri e la data, 1525. per il resto pochissime cose sparpagliate in 15 stanze. scarna, essenziale, maestosa, nobile, vuota, polverosa, povera e ventosa. non cambierei nulla. forse un bagno in più, un frigorifero in più. spesso ho pensato alle innumerevoli vite che ci sono passate, che qui sono nate e morte, che sono state felici o disperate, ho pensato alle cose di tutti i giorni, ai pianti dei bambini, alla fatica dei servi, al rosario della sera, ai rantoli d’amore, alle calze e ai vestiti poggiati sulle sedie, agli odori della cucina, alla carne sul fuoco, al vento che fa sbattere le lenzuola stese al sole sui terrazzi, alla luna piena che si specchia nel mare e negli occhi, alle tempeste che fanno paura, al grecale che fa sbattere ogni cosa, allo scirocco che rende pazzi uomini e bestie, al sangue e al sale versato.

    - s’è levata la brezza meo. finalmente si respira un po’.

    - è vero ma anche così faccio fatica a sopportare lo scirocco. in realtà faccio fatica a sopportare molte cose. non credo d’essere diventato saggio con l’età mia adorata regina, gli anni invece che sanare le piaghe con l’oblio le hanno fissate nel cuore e sono sempre pronte a infettarsi. a sessant’anni sono ormai un vecchio brontolone, cleo.

    la strada in cui sta il palazzo attraversa l’isla in tutta la sua lunghezza, il vicolo parte più o meno all’altezza della chiesa della vittoria e arriva, passando per quella di san filippo, fino ai giardini e alla guardiola che troneggia sulle mura antistanti floriana e valletta. siamo sulla punta dell’isla, sull’estrema punta che è dedicata a san michele. ai lati della strada non più larga di tre metri ci sono due stretti marciapiedi. quello di destra resta sempre libero, quello di sinistra è di solito sormontato dalle auto in sosta. difficile passare, specie per i furgoni ma gli incidenti sono rari e al massimo si tratta di specchietti che saltano. il giovedì passa il camioncino delle bombole del gas e quasi ogni giorno d’estate quello dei gelati preceduto da un sonoro scampanio attira-bambini. una volta passava anche il furgone delle verdure fresche, ora non più, si ferma poco più su della piazzetta dove arrivano gli autobus. lì c’è anche la stazione della polizia, un ferramenta, un paio di spacci bui che vendono quasi tutto e la postazione wifi. è una bella strada piena di luce triq iz-zewg mini, la strada dei due cancelli. su questa strada, a qualche decina di metri dal mare e dai giardini della guardiola, una garitta d’avvistamento, s’affaccia il nostro palazzo con la sua bella e sobria facciata.

    mi piace l’isla, mi piace la sua gente. per la maggior parte sono operai dei cantieri navali, ma anche edili, piccoli negozianti, gestori di bar spesso mal messi, di ristoranti e di chioschi giù alla marina. pochi i turisti da queste parti e quei pochi di passaggio. le sere d’estate sono tutti per strada alla marina, giocano a bingo, si sfidano a karaoke, oppure se ne stanno seduti ai tavoli dei chioschi a mangiare, a bere cisk e a ingrassare. al chiosco puoi mangiare a qualsiasi ora e loro cucinano di tutto, fish&chips, hamburger pluristrato, omelettes con funghi, salsicce col ketchup, pollo fritto, il tutto accompagnato, per legge, da una montagna di chips, da un bel po’ di cipolla affettata, sottaceti e insalata verde. porzioni enormi, colline di cibo. mangiano molto qui sull’isla e più che altro all’inglese anche se d’estate si schiatta di caldo e non tira alcuna brezza dalle highlands. mangiano pesante, per lo più roba ipercondita con ogni tipo di salsa che trovi al supermercato, hp, worcester e via dicendo, mentre al supermercato ci vorrebbe la leggerezza della povertà mediterranea, quella dello yogurt, del miele, della frutta secca, dei pomodori, di una lampuga alla brace. forse è anche per questo che molte donne dell’isla sono obese o molto obese, portatrici di culi e petti giganteschi, culi e petti di cui però non si vergognano anzi sembrano andarne fiere, culi, petti, cosce e pance che esibiscono con orgoglio sotto magliette che coprono ma non nascondono, sotto minigonne sgargianti. rosso, viola, arancio e nero, i colori preferiti. credo che per i loro maschi tutta questa ciccia voglia dire sesso e ancora sesso visti gli innumerevoli ragazzini e ragazzine di tutte le età e circonferenze che sciamano chiassosi tra i tavoli. sono piuttosto sicuro che in tutta questa abbondanza c’entri anche la loro storia. forse queste signore madri sono le discendenti dirette delle femmine di cinquemila anni fa rappresentate nelle statuette trovate nei templi megalitici di mnajdra e hagar qim, dee della fertilità, grandi ventri, grandi cosce, grandi culi, grandi tette, l’immenso carnale che tutto avvolge, comprende e divora.

    il sole sta calando ben oltre l’ipogeo di hal saflieni, lì oltre l’aeroporto di luqa, oltre i bei templi di mnajdra sacri alle grandi madri, oltre lo scoglio di fifla circondato da correnti fortissime, da squali e mostri marini. sì, il grande ra sta calando sull’africa e sull’egitto, l’aria s’è fatta zuccherina e la brezza serale scivola sulla pelle come una stoffa di seta persiana. gli occhi di meo cadono su sua sorella appisolata sul lettino in terrazzo, è bella cleo e con questa luce rosata diventa irresistibile, una dea, la dea della bellezza e dell’amore, lo sguardo di meo indugia sui suoi piccoli seni, sui capezzoli eretti e poi scivola giù verso il bel ventre mosso dal respiro, quel ventre tanto amato che custodisce il segreto di ogni suo abbandono passato, presente e futuro. lei aveva 12 anni e lui 14 la prima volta che sudati e tremanti come due foglie di pioppo si unirono in un impetuoso amplesso nel palazzo del faraone ad alessandria e proprio sul letto nuziale del re il giorno in cui partì per dare l’assedio a timbuktu portandosi tutto il seguito di nobili, cavalieri, soldati, più le sue cinque concubine. meo sorride al ricordo indelebile di quel pomeriggio con sua sorella cleopatra, sorride rammentando lo stupore d’entrambi, le risa, il gioco del nascondino col premio che ne seguiva se l’avesse trovata… ma subito, e sibilando, un altro ricordo gli invade la mente, quello della delusione e della rabbia che provò verso il padre che non l’aveva portato con sé giudicandolo troppo giovane per la guerra nel mali.

    le campane di san filippo dicono che sono le 7 della sera, sarebbe ora di fare un salto al pub di joe, un buco buio e neanche troppo pulito, ma joe e quei pochi clienti abitudinari ne fanno un posto che tolomeo adora. brutto, sporco e maleodorante, un vero buco-del-culo-blues, ci può passare ore e ore a bere e a parlare di tutto, di politica, di donne, di avvenimenti teatrali e perfino di roma e juventus, per ore, una cisk dopo l’altra fino alla chiusura. a senglea parecchi portuali tifano per le squadre italiane, a sliema invece ci sono gli inglesi, quelli rimasti dopo l’indipendenza e i pensionati arrivati con la thomas cook che, arrossati, spellati e doloranti, continuano a mangiare eggs&bacon e baked beans and chips mentre rumorosi seguono con la pinta in mano il southampton contro lo united.

    sabato 2 ottobre 1993, senglea, è scesa lungo il filo dell’antenna della televisione e si è calata sul terrazzo. mi ha guardato con quella sua fissità innaturale mentre l’osservavo sorpreso ed in fondo felice di rivederla. si è tolta le ballerine, poi i jeans e la camicetta di cotone bianco. come sempre sotto non aveva niente. allora si è sdraiata sul lettino e si è addormentata. quant’è bella cleopatra quando dorme. non ci siamo visti per 3 anni ma appena m’è apparsa davanti 3 mesi fa m’è subito venuta voglia di stringerla e farci l’amore. l’ho invece lasciata dormire per 3 giorni e 3 notti, alle 3 del pomeriggio del quarto giorno sono uscito sul terrazzo. lei stava cantando una filastrocca col viso rivolto a ponente.

    - ho voglia di noccioline, meo

    m’ha detto girandosi con grazia.

    - non ce ne sono, cleo.

    - ma io ne ho voglia, lo sai che prima ne ho sempre voglia.

    sono 3 mesi che cleo prima di fare l’amore si ingozza di noccioline, in passato divorava semi di girasole ascoltando burlesque dei family. ora vuole le noccioline e le fa fuori canticchiando nothing compares to you di sinèad.

    sabato 14 gennaio 1956, lubecca, la chiatta naviga lenta, la chiatta naviga lenta e taciturna sulle acque del trave, rincorre e spaventa le oche il figlio di herta. michael ha 10 anni soltanto, capelli corti a spazzola, calzoncini di pelle tirolesi e pare felice in quel corpicino ebbro di giovane furore, in quei gesti scattanti che son sciabolate tra svolazzi di piume e scintille, in quell’urlo guerriero che sgorga spaventoso dal cuore.

    - cleo, mia principessa, dove sei?

    grida al vento il bellicoso michael, partendo al galoppo nel mondo a cercar l’eterno, imprescindibile odore.

    la chiatta naviga lenta, la chiatta naviga lenta e taciturna sulle acque del trave.

    3.

    abitavo a viale vaticano dalla parte che da porta pertusa scende verso il ponte della ferrovia, poi le scalette, l’aurelia, largo cavalleggeri, il tunnel da non prendere mai se non con un grande e a destra fino alla mia scuola elementare 2 ottobre a via di santa maria alle fornaci. questo era il percorso di ogni giorno per andare a scuola, io e guglielmo pallesecche stavamo in classe insieme, in quarta c. io abitavo nella parte meno nota e meno trafficata del viale che circonda le grandi mura dello stato dei preti, abitavo in una palazzina nuova che da una parte si affacciava sul prato dove noi ragazzi della via pál ribattezzata via vát ci distruggevamo giocando a pallone in tempo di pace e a sassaiola con fionde e lancio di pietre a mano in tempo di guerra. da una parte della strada le alte mura del vaticano e dall’altra c’era una scarpata fatta di qualche albero, di un intrico di rovi, di cespugli e piante carnivore che stavano lì a bocca aperta in attesa di strani insetti con la proboscide, insetti strani e pericolosi che si cibavano – e meno male – delle tremende formiche dalla testa rossa che mordevano e facevano un male boia. a parte questo la scarpata brulicava di ogni tipo di ragnetto, per non parlare poi di lucertoloni verdi, salamandre, ranocchie, rospi e bisce nere come la cacca del diavolo, una terra piena di pericoli assolutamente vietata alle femmine. in cima alla scarpata e sopra questo ingarbugliato tappeto di vita animale e vegetale svettava un grande pioppo che era da subito diventato la mia casa, la casa dei tanti me e delle mie tante vite, lo era diventato per la facilità con cui si faceva scalare fino ai rami più alti e per la densità delle foglie che mi nascondevano agli occhi indiscreti di genitori e nemici. adoravo il mio pioppo – dico sul serio – nessun regalo al mondo (eccetto forse una bicicletta) avrebbe potuto allontanarmi da lui, no non l’avrei tradito per niente al mondo, era il mio rifugio, il posto dove leggevo i miei adorati libri, le gesta del buon boka e del suo fiero nemico feri áts, e poi ventimila leghe sotto i mari, le avventure di marco polo alla corte del khan nel milione, il giro del mondo in 80 giorni. era tutto là il mio mondo, su quel grosso e comodo ramo tra le foglie argentate che risuonavano a ogni minimo alito di vento. ero circondato, direi avvolto in un batuffolone di lana merinos, la morbidissima lana di cui ogni tanto mi sembrava fosse fatto il bene.

    scrittore, sarei diventato scrittore e mia madre herta, la tedesca micamale, ne sarebbe stata felice, sarebbe stata orgogliosa di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1