Apertura alla francese
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Anteprima del libro
Apertura alla francese - Benito Apollo
Prefazione
Le scene cinematografiche hanno il dono di porgere all’immaginario, individuale e collettivo, un serbatoio di suggestioni e sensibilità simile a quello che avevano garantito per secoli la letteratura e il teatro. Anzi, il teatro come testo scritto, come vicenda che precede la sua rappresentazione, richiedeva al pubblico e all’attore un ulteriore sforzo ermeneutico. La cinematografia ha forse tolto un passaggio all’immaginazione, ma ha di molto rinforzato la capacità di decodificare ambienti, storie, strutture.
Il libro di Benito Apollo è dal punto di vista estetico una scansione di sceneggiature legate a una certosina intagliatura di immagini: il suo protagonista è un formidabile registratore degli umori dalle parti più archetipiche del Novecento. È un tipo complesso, ma munito di una straordinaria umanità che passa sopra persino ai suoi rari momenti di cinismo e ai suoi numerosissimi istanti di disincanto. Si tratta di un disincanto inizialmente metodologico, da spirito critico, da collettore colto di nozioni e di esperienze, che mano a mano si fa antropologico, persistente, connaturato a quello sguardo mite e turbolento insieme, non convenzionale eppure educato, anche elegante.
Non ha nulla di eroico, intenzionale o involontario che sia questo eroismo, ma quella natura di antieroe apparentemente passivo allo scorrere delle vicende ne fa un uomo capace di esercitare, come si dice oggi con parola abusata, una estrema, pacifica, resilienza. In fondo – scoprirà presto il lettore – è nel suo carattere: l’intelligenza e l’erudizione lo schermano dalla violenza della sorpresa, eppure la sua vita è costellata di un disorganico gomitolo di esperienze che affronta con gagliarda noncuranza e picchi di malcelata partecipazione.
Non gli sono estranee le esperienze del tempo e del luogo che volta per volta si trova a vivere: il pregiudizio antiebraico, anche di molto successivo alla fine della guerra e per certi versi edulcoratosi amplificato, la bella Parigi di lampioni, caffè, cultura, i grandi teatri, la crisi internazionale, l’arruolamento e la violenza. Le amicizie ataviche, sedimentate, che non si dimenticano, il gusto estremo per l’esoterismo, non come salto in un vuoto irrazionalismo, ma in quanto sforzo spirituale che porta la ragione a un suo nuovo metro. In questo senso misticismo ed esperienza marchiano a fuoco l’anima dell’attore principale come un iniziato, che ogni volta si inizia a un nuovo viaggio.
La narrazione in prima persona è una scelta particolarmente appropriata, perché consente di rendere familiare, diaristico, entusiasmante e caloroso, anche il frasario dell’autore, che compete col suo protagonista nell’utilizzo di una parola levigata, concreta, ben modulata, ma sempre inscritta nella sua raffinata consistenza rara.
A volte non si riesce a tifare: Benito Apollo non ha voluto creare un personaggio irenico e a una dimensione. Ne ha fatto invece un narratore che incassa e attacca, scopre e rivela, dimentica e ricorda, affastella vissuto accatastandolo con competente umanità, tribolata postura, passo fantasioso. Ha qualcosa di Gatsby e qualcosa di Fiesta, ha sguardo latino e cultura medio-orientale, passa senza vittimismi e senza trionfalismi dalla famiglia all’adulterio, dal tradimento alla fedeltà, dall’essenzialità al travestimento, dalle difficoltà di una casa o di un lavoro all’analisi sbeccata del mondo internazionale che cambia. Un gentile signore, sfollato impertinente nella seconda metà del secolo breve: il secolo che non è ancora passato, nonostante sia stato sepolto. Lunga vita.
Domenico Bilotti
1
La prima volta che entrai in un teatro avevo sei anni, era il 21 dicembre 1956.
Quel giorno mio padre accompagnò me e mio fratello maggiore al Rex, che era anche uno dei cinema più celebri di Parigi e tra i più grandi d’Europa. Negli anni dell’occupazione tedesca venne requisito al suo proprietario, Jacques Haik, un produttore cinematografico ebreo, e per tutto quel triste periodo fu rinominato Soldaten Kino, ma alla fine della guerra riacquistò il suo vecchio nome e fu il primo in Francia a proiettare i film della Disney. In stile Déco, con il soffitto puntellato di stelle, ornamenti fiabeschi e uno schermo di trecento metri quadrati, era un luogo magico e unico per far scoprire ai bambini il fantastico mondo del cinema.
Di quel giorno e non solo, conservo un ricordo speciale, perché, se un dono ho ricevuto alla nascita, è quello di una inossidabile memoria. Dall’età di tre anni rammento con incredibile precisione le sensazioni che mi hanno accompagnato nel corso della vita, anche quelle legate a giornate ordinarie. E così quando succede, come oggi, che la memoria mi conduce tra le strade dell’anima, riesco a scorrere tra i ricordi le emozioni che più hanno segnato la mia crescita. E ogni volta che i ricordi si presentano alla mia coscienza, proprio come capita con un libro che si rilegge a distanza di tempo, riesco a vederne gli aspetti più reconditi, quelli che sfuggono alla vista ma non all’inconscio. E di questo, se ne avrete voglia, vi parlerò più avanti.
Del Rex ricordo quando si spensero le luci. I suoni amplificati dei titoli d’inizio arrivarono qualche istante prima delle immagini, facendomi sobbalzare per lo spavento, e istintivamente mi coprii il volto con le braccia, come per proteggermi da un colpo in arrivo. Mio fratello dovette fare un’opera di persuasione, per costringermi ad abbassare la guardia, mentre gli altri bambini, forse già assidui frequentatori della sala, tardavano ad acquietarsi. Poi, una volta rassicurato, rimasi immobile e in silenzio per tutta la durata del film e, nonostante il fastidioso vocio di sottofondo, non persi un solo fotogramma di Davy Crockett et les pirates de la rivière, di Norman Foster. L’eroe americano, con la sua fida carabina Betsy, interpretato da Fess Parker, divenne il mio primo idolo, tant’è che, non appena uscimmo dal teatro, dissi a mio padre che da grande avrei voluto fare il cacciatore. Lui provò a spiegarmi, a più riprese, che non esisteva più quel mestiere e quando finalmente riuscì a farmi capire cosa significasse recitare un ruolo, replicai dicendo che allora avrei fatto l’attore, anche se m’intimoriva l’idea di vivere il resto della vita su uno schermo. Mio padre sorrise, sembrò compiaciuto della mia pervicacia e intenerito dal mio candore; quella fu tra le poche volte in cui lo vidi partecipe di un mio desiderio e, nel cammino fino a casa, provai una gioia immensa. Intorno, le strade erano linde e silenziose e il freddo gelido ci accompagnò come un servo fedele e discreto, mentre dal cielo cominciò a cadere qualche fiocco di neve blu, che rese quel giorno e quegli scorci di Parigi ancora più incantevoli. Eh sì, perché Parigi d’inverno al crepuscolo è un’ode alla bellezza: l’aria pregna dell’aroma dei caffè consumati nei bistrot, unita al calore e al brusio degli habitués, raggiunge in strada il passante, assorto nei suoi pensieri, imponendogli di arrestare il passo; il cigolio dei cardini delle porte segna la cadenza dell’andirivieni degli avventori, scandisce il battere del tempo e lo invita ad entrare in quel mondo, a cogliere il meglio dell’esistenza.
Questa è l’immagine della mia città che ancora conservo e che, dopo molti anni, mi fa sospirare. Ma se vi ho raccontato questo aneddoto è, soprattutto, perché poi sono diventato davvero un attore, tant’è che adesso, proprio mentre vi sto parlando, mi trovo nel camerino di un teatro a prepararmi nell’attesa di entrare in scena.
Prima di riuscire a dare seguito ai miei progetti, però, sono successe tante cose che, avendo ancora un po’ di tempo a disposizione, proverò a mettere in ordine.
2
Con la mia famiglia, a quel tempo, vivevamo sull’Avenue Hoche, uno dei viali che conducono alla Place de l’Etoile, che già allora era la zona abitata dalla gente più facoltosa di Parigi.
I miei genitori, rientrati in patria dall’Inghilterra dove s’erano rifugiati a causa alle persecuzioni naziste, erano proprietari di un noto marchio legato al mondo della moda. Erano molto ricchi e la loro paura, comune a quella di molti altri ebrei, di essere spogliati degli averi – come tante volte era accaduto nel corso della nostra storia millenaria – li aveva spinti a investire quasi tutti i loro capitali in oro e diamanti e a camuffarli negli arredi di casa. La rubinetteria dei servizi e le maniglie delle porte erano in oro massiccio, i lampadari, apparentemente di vile cristallo, erano adornati di pietre preziose, ed io, da bambino, trascorrevo interi pomeriggi a contarle e a classificarle per genere, colore e grandezza, scoprendo, così, di avere un talento naturale per il calcolo matematico, e per la catalogazione. Ma non