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Storia di un uomo comune
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E-book206 pagine2 ore

Storia di un uomo comune

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Info su questo ebook

Cosa rende unica la vita di ognuno di noi? Il modo in cui affrontiamo quelle domande e quelle sfide universali che ci accompagnano durante il tragitto della nostra esistenza.
Storia di un uomo comune non è altro che questo: l’irripetibile vicenda di un uomo qualunque, nato fra gli stenti del dopoguerra e cresciuto nei borghi palermitani, raccontata in un libro che viene letto per la prima volta dopo vent’anni.
È il protagonista stesso, Davide, a narrare la sua vita al nipote, dando vita a dialoghi, riflessioni e confessioni che scavano fra i fantasmi di un passato turbolento, i rimpianti di un presente malinconico e le speranze sul futuro.
In un botta e risposta avvincente, catartico e sincero, Davide Giannò e Vittorio Chiparo raccontano una vita ricca di avventure rocambolesche: un’infanzia povera, un’adolescenza divisa fra il servizio militare e un amore impossibile, un’età adulta costernata da scelte difficili e rivelazioni spirituali. Senza non pochi colpi di scena, gli autori ci accompagnano attraverso il viaggio tortuoso, sorprendente, mistico, drammatico e unico di questa incredibile storia di un uomo comune.


Davide Giannò nasce a Palermo il 24 giugno 1947. Figlio di un appassionato sindacalista e di madre africana, cresce e si forma autodidatticamente tra gli stenti di una famiglia numerosa. All’età di 18 anni conosce e sposa Sara, amatissima madre dei suoi primi tre figli. Crea dal nulla una fiorente attività commerciale che crolla dopo la morte della amata compagna. Si risposa con Marisa dalla quale ha una quarta figlia. Vive in pensione tra penne, libri e musica.


Vittorio Chiparo nasce a Palermo il 21 ottobre 1993. Fin da piccolo si appassiona di musica e scrittura, avvicinandosi prima al pianoforte, poi alla chitarra e al cantautorato. Da adolescente, visita New York e l’America, cominciando una lunga serie di viaggi che gli cambieranno la vita. Terminati gli studi all’università di Palermo, viene a conoscenza della devastante realtà quotidiana che vede soffrire inutilmente miliardi di animali, e intraprende la strada dell’attivismo per i diritti animali. Si trasferisce a New York, con la speranza di lasciare un segno nella lotta contro tutte le discriminazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2023
ISBN9788830676312
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    Storia di un uomo comune - Davide Giannò

    LQgiannochiparopiatto.jpg

    Davide Giannò

    Vittorio Chiparo

    Storia di

    un uomo comune

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7042-6

    I edizione dicembre 2022

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Storia di un uomo comune

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Con un ruvido colpo di tosse, prova a schiarirsi la voce. Stringe fra le mani le copie riscritte per l’ennesima volta, probabilmente sperando che questa sia l’ultima, prima di vedere il progetto finalmente compiuto. Nonostante il violento schiocco di gola, la sua voce vibra debolmente fra le umide pareti del salotto, affidandosi a tutto l’entusiasmo raccolto fino ad allora, negli anni, per cominciare a leggermi le prime pagine:

    "Vengo alla luce in una famiglia composta da nove persone: io, il quinto di sette maschi, sono stato chiamato Davide, in omaggio ad un fratello di mamma residente all’estero. Mio padre, Giuseppe, era un uomo molto orgoglioso, dal carattere sanguigno e generoso. Amava essere protagonista dei suoi giorni, così da viverli intensamente. Sono sempre stato molto fiero di lui e ancora oggi custodisco con enorme gioia il suo ricordo.

    Caden Ester era il nome di mia madre, nata in Asmara, Eritrea, nel 1917 da genitori ebrei, e cresciuta fin dalla giovane età in Italia. Una donna dal carattere introverso, altera ed orgogliosa, con la quale purtroppo condivido pochi ricordi piacevoli in giovane età.

    La nostra casa era nascosta in un vicoletto del centro storico di Palermo, a due passi dalla cattedrale. Eravamo poveri, al punto da ritenere un privilegio riuscire a mangiare quattro giorni a settimana. Mio padre si dava da fare col sindacato e lo si poteva trovare spesso in piazza pronunciando comizi e interagendo con la gente. La mamma cominciava a stancarsi di dover badare a sette ragazzi non proprio mansueti. Si era sposata giovanissima e a quindici anni si ritrovò già ad allevare figli, costretta dall’incombente periodo storico a continui spostamenti improvvisati. Aveva dovuto rinunciare alla sua adolescenza, vestendo subito i pesanti abiti da madre. Il suo inevitabile sacrificio ad una realtà molto pesante stava rapidamente plagiando la sua vita, affidandole esperienze e responsabilità estremamente precoci data la giovane età. Migliaia di chilometri…"

    Alza lo sguardo con una vistosa smorfia di disgusto e ammirazione.

    «Migliaia di chilometri, a verità è chista, percorsi a piedi. Roma-Palermo per esempio…»

    «Chi?» chiedo.

    «Mia madre e mio padre!»

    «A piedi?!»

    «Dopo la guerra, sfollati… Mia madre ebrea, capisci? Pure a mmia bruciavano! Davide, Isacco, non so se rendo l’idea». Alza le sopracciglia. «Scappavano sempre, loro.»

    Si aggiusta gli occhiali, punta il dito sul foglio e riprende la lettura:

    Migliaia di chilometri percorsi a piedi per le campagne, trascinandosi dietro la responsabilità dei figli e le difficoltà del periodo post-bellico. Mancavano beni di prima necessità, cibo, vestiti, lavoro, casa. Tutto ciò fece ben presto di lei una donna stanca ed appesantita. Soffriva di crisi epilettiche.

    Stacca nuovamente lo sguardo, concludendo la frase.

    «Ecco perché i miei ricordi non sono così…» prende un sospiro. «Mi… Vi, davanti l’uocchi…»

    «Che intendi?»

    «Diciamo che il contesto era quello della povertà, delle problematiche, dei troppi figli, di un casino a cui badare… la bava in bocca!»

    Stringe i pugni e i denti, rivivendo quei momenti con sua madre distesa per terra.

    «L’ho vista morire mia madre, e poi rinascere. Quante volte le ho allargato le mani, ma io non ce la facevo da quanto si serravano le dita. Riprendiamo!»

    "Soffriva di crisi epilettiche e nella mia mente rivive ancora il ricordo di quei malori improvvisi, che la riducevano a contorcersi in uno spasimo continuo ed angosciante. Ero piccolo, molto piccolo, ma la memoria di mia madre per terra, nella sofferenza, non ha mai cessato di essere presente nei miei pensieri.

    La nostra casa, di antica costruzione e livellata su due piani, era una delle diverse abitazioni che disegnavano il centro città. Le mura, costituite da grossi mattoni di tufo tirati su, uno sull’altro, erano tenute insieme da ben pochi pilastri, e i tetti coperti da grosse tegole irregolari. V’era inoltre un piccolo spazio che usavamo chiamare ‘terrazzo’. Il vecchio portone di legno, costantemente aperto a qualsiasi orario, introduceva ad una vecchia scalinata deforme che portava all’entrata del nostro appartamento al primo piano."

    «Come ti sembra per ora?»

    Mi chiede con tono curioso.

    «È un po’… va beh, è l’inizio, non si capisce dove stiamo andando ancora, però stai raccontando…»

    «Sto raccontando gli episodi», risponde borbottando. «Vedi… questo libro, nella mia mente, è stato suddiviso in episodi, in aneddoti…»

    «Storie.»

    «Sì, storie. Storia di un uomo comune, infatti.»

    «Storie di un uomo comune…»

    «Giusto, bravo, osservazione valida. Storie di un uomo comune, magari per quelli ai quali non comunico il senso di questa storia. Perché», si sistema sulla piccola sedia da ufficio, «io dico sempre che la vita di ognuno di noi è irripetibile, noi siamo come la neve, sembriamo tutti uguali, ma non ci sono due fiocchi identici. No?»

    "Il terrazzo e due camere anguste erano gli unici ambienti condivisi. Un lungo tavolo, un vecchio lavello, un cucinino a gas, una pila stracolma d’acqua ed alcune stoviglie appese alla parete con dei chiodi, rendevano tale la nostra cucina. Le cene e i luculliani pranzi a base di sanguinacci, frattaglie, interiora di vitello, ali di gallina, uova, broccoli, pane riscaldato, milza e panelle, hanno lasciato un indelebile segno insito nella memoria di tutta la famiglia."

    «Questo era», stacca lo sguardo dalle pagine, e mi guarda scuotendo la testa. «A quel tempo compravo venticinque grammi di caffè da Annaloro, che era un droghiere, e cinquanta grammi di zucchero. Questa era la spesa, non so se rendo l’idea. Non come oggi, duemila cialde, la macchinetta… allora era così, questo era la povertà. Io senza scaippe, i primi reci anni, capisci? Va beh, altri tempi.»

    «Senza scarpe?»

    «Senza scarpe, a peri in tierra, quando c’era bisogno mi metteva i scaippe i me matri

    Prende un’altra pausa, rivivendo gli anni passati.

    «Eh, manciari quattro vuote a simanaancuora u pitittu mi fa acidità uora a pensarlo. Mio padre ogni tanto spuntava, sangu miu…»

    «Eravate tutti magri, immagino.»

    «No, io pagnotta ero», sorride.

    «Pagnotta?»

    «Sai che mangiavamo, che ci faceva bene? Il pane duro cu l’acqua e l’olio, a chili… quello che rimaneva, vugghiutu, cotto nella padella, con l’acqua bollita, diventava morbido morbido. Ci mettevi l’olio e il sale… tutta a vita accussì mangiavamo

    Erano altri tempi. Il cibo era considerato un pieno di carburante. In questa realtà, un giorno di festa si presentava come un grande evento, poiché quasi sempre si accompagnava con uno di quei deliziosi dolci a base di ricotta che in rare occasioni era possibile gustare. Il panettone di Natale era atteso già da novembre, e giungere alla vigilia delle feste era motivo di immensa gioia.

    «Noi aspettavamo i morti, u rue i novembre, come festa. Tutto l’anno aspettavamo queste feste!» aggiunge, estasiato.

    "Un giorno ricordo che, stremati dalla fame, aspettavamo con ansia il broccolo in pentola che emanava uno straordinario profumo. Ad un tratto, pronta che fu la cottura, la mamma tirò fuori dalla pentola una lucertola ormai cotta, ospite poco gradita nella nostra cucina. Ebbene, vi erano due possibilità: la prima era rinunciare al broccolo e rimandare il banchetto ad una data incerta; la seconda, gettare l’animale nella pattumiera e fingere che non vi fosse mai stato.

    Nessuno ebbe dubbi. All’unanimità decidemmo di riscaldare lo stomaco e coricarci con la pancia piena."

    La mia Diana

    "Diana non era una bambina, ma insieme abbiamo condiviso l’infanzia. Era un cane bastardo, grande e grosso, capace di riempire le giornate di noi bimbi privi di giochi. Gli unici giocattoli erano quelli costruiti da me con le lattine vuote da cui ero in grado di ricavare delle macchinine. La palla era fatta di stracci o con della carta, cucita. Il ruolo di Diana consisteva nel rincorrere la palla e fungere da cavallino, portandomi in groppa. Il mio affetto per lei era immenso, amavo abbracciarla e accarezzare il suo manto bianco. Eravamo inseparabili.

    Camminavo scalzo, poiché non in dotazione di scarpe. Avendo l’abitudine di stare a piedi nudi in casa e per le strade…"

    Si interrompe ed aggiunge:

    «Ovviamente quando c’era la pioggia, o un scinnieva, o mi metteva i scaippe i me matri. Io scappavo, ammucciune, e si scinnieva. Perché c’era un baglio cosiddetto all’antica, che era la fine del mondo. Io quando passo di là, che non c’è più niente… c’è solo la chiesa rimasta e poi ci sono le scuole… mi vengono pure le crisi. Era bellissimo!»

    Con vigore alza il tono di voce, cercando di esprimere tutta l’euforia che quel ricordo gli sta regalando.

    «C’era una comunità in questo baglio. Le porte aperte stavano! In estate era festa per tutti, uscivano i tavolini, cu iucava i caitte, a zicchinietta» ride, «chi mangiava i meloni. In estate era una festa, sempre, per tutti!»

    «Gli scarafaggi?» chiedo divertito.

    «Eh, ma quelli manco li consideravamo», ridacchia singhiozzando. «Tutte le case al pianterreno!»

    «Pieni, insomma.»

    «Beh, scusa, al piano terra, le case antiche, le fognature quelle che erano, i suicci… menomale ca io unni vitti mai… però!». Si riavvicina alle pagine strette in mano e riprende:

    "Avendo l’abitudine di stare a piedi nudi in casa e per le strade, questi avevano fatto i calli. Ciò nonostante, vivevamo intensamente e il tutto lo ricordo con piacere.

    Un giorno, all’età di otto anni, un silenzio inusuale comunicò la fine dei miei giochi più belli in compagnia della mia Diana. L’ho cercata, chiamata a squarciagola per l’intera mattinata, facendo su e giù per le scale di casa. Scesi in strada aspettandomi di vederla da un momento all’altro, ma lei non si presentava. Risalii le scale fino a giungere al terrazzo e, affacciandomi dal tetto, mi sentii d’un tratto il bambino più triste del mondo. Diana stava distesa in una pozza di sangue, con la testa quasi staccata dal corpo. Ancora oggi mi è difficile immaginare chi abbia potuto compiere un gesto simile. Cominciai a piangere e ad urlare disperatamente.

    Quel giorno, per la prima volta, prendevo coscienza del fatto che vivere avrebbe comportato anche soffrire."

    «Ca, picchì un picciriddu com’è? O è povero o è ricco, s’addiviette siempre, è vero o no? In qualunque situazione», commenta.

    "Non potevo credere ai miei occhi, rossi dal pianto, mentre papà mi stringeva forte, portandomi via da lì, fino a quando qualcuno non si occupò di seppellire la mia Diana. Per molti giorni pensai a quanto accaduto, ma il tempo avrebbe inesorabilmente compiuto il suo corso, aiutandomi lentamente a dimenticare.

    Venne il giorno della scuola. Mi ricordo che per l’occasione mi furono trovate un paio di scarpe usate, dalla misura un tantino più grande."

    «Scuola media?» chiedo incuriosito.

    «Ma quale media, elementare!»

    «A nove anni?!»

    «A nove anni, sì, scuola elementare. È dove mi sono preso i calci nel sedere dal professore Rao, mi ricordo ancora il nome. Sono stato preso a calci e arrivavu a casa… megghio ca un ci rissi niente a me patri, perché finiva peggio.»

    «Stavi cominciando la scuola?»

    «Esattamente. Io unni fici asilo, l’asilo in mezza a strata iera

    "L’idea di passare del tempo in compagnia di altri ragazzi mi entusiasmava. Prestai molta attenzione alle lezioni perché ambivo al premio di fine anno scolastico, che consisteva in una coccarda di stoffa colorata di giallo, rosso e verde. Più di una volta fui proprio io ad

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