TASSELLI. La storia nascosta e ritrovata
Di Lucio Aiello
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TASSELLI. La storia nascosta e ritrovata - Lucio Aiello
Lucio Aiello
Tasselli
La storia nascosta e ritrovata
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2016
ISBN: 978-88-6822-427-1
Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Per liquidare i popoli si comincia
con il privarli della memoria.
Si distruggono i loro libri,
la loro cultura, la loro storia.
E qualcun altro scrive loro altri libri,
li fornisce di un’altra cultura
e inventa per loro un’altra storia.
Dopo di che il popolo comincia lentamente
a dimenticare quello che è e quello che è stato.
E il mondo intorno a lui dimentica ancora più in fretta.
M. Kundera
Premessa
Sono stato a Napoli la prima volta nell’estate del ’59 e ad allora risalgono i miei primi timidi dubbi sulla storia come me la insegnavano insieme ad una sensazione che mi ha accompagnato negli anni, come un vuoto nella memoria, qualcosa che mi sfuggiva ma continuavo a cercare. Questo è il racconto del mio percorso in quel vuoto, di anni nei quali mi muovevo vedendoci a stento nella penombra o nel buio totale oppure, se c’era luce, in mezzo alla nebbia o guardando attraverso un vetro impolverato. E nel vuoto raccoglievo quasi a caso tasselli di un grande mosaico, a tratti arrivavo ad intuire almeno in parte il quadro ma non riuscivo a vederlo nel suo insieme, mi sentivo come uno che non sa chi è suo padre e gli manca. A un certo punto, ma ormai era ieri e il più della mia vita era passato, ho letto Terroni
e lì il quadro c’era tutto, i tasselli che avevo raccolto e talvolta dimenticato trovavano il loro posto, si inserivano fra gli altri e mi dicevano che sì, era andata davvero così, era tutto vero e quella era la storia, almeno a grandi linee l’avevo avuta sempre davanti ma non l’avevo vista, me l’avevano nascosta ma anch’io non avevo saputo vederla, forse non l’avevo neanche voluto fino in fondo per una paura che mi impediva di prendere coscienza della verità. Ma la paura ormai era sparita e mi misi a ricordare, ricordare, rivoli di memoria formavano ruscelli e si facevano fiume, dovevo fare ordine e mettere nero su bianco fatti, persone, luoghi ed emozioni. E mentre scrivevo leggevo, libri nuovi e vecchi libri di scuola, le mie riviste di storia accatastate in soffitta e poi Internet, copia-incolla per ore, per giorni. A un certo punto ho deciso di fermarmi, a furia di fare e disfare mi sentivo come Penelope ma io la tela volevo finirla.
Per prima cosa troncai le letture, non la finivo più di consultare libri e articoli, sia cartacei che in rete. Chi scrive non legge
affermava un bravo scrittore e cattiva persona, nemico del Sud, allo stesso modo conclusi che chi legge troppo non ha il tempo per scrivere. Fra una cosa e l’altra da quando ho cominciato ad inquadrare i primi ricordi sono passati più di quattro anni, smesso di leggere il grosso del lavoro l’ho fatto la scorsa estate nella pace di Camigliatello e poi ho lavorato nei ritagli di tempo, ho fatto un po’ di correzioni, ho aggiunto alcune cose e ne ho tolte molte di più.
Il mio viaggio cominciato nel ’59 è diviso in otto tappe che si susseguono in un ordine cronologico riferito al momento iniziale o a quello più significativo del racconto: è naturale ad esempio che di mio nonno Angelo io conservi ricordi anteriori al viaggio a Napoli ma quelli attinenti al discorso di oggi sono posteriori. Mentre finivo l’ultimo capitolo ho scritto anche un’articolo che volevo mettere in rete ma alla fine ho deciso di aggiungerlo al lavoro principale, come un’appendice. Non avevo del resto deciso cosa fare di tutto quello che avevo scritto, non era affatto scontato che volessi, dovessi o potessi farne un libro. Avevo ritrovato la memoria, avevo preso coscienza di una storia che mi era stata negata, ero tornato a Napoli con la mente e con il cuore; avevo scritto più che altro per sfogarmi, farmi una specie di autoanalisi e fermarla sull’hard disk, scrivere e poi rileggermi, sentirmi meglio.
Indubbiamente mi sarebbe piaciuto vedere il libro stampato, prenderlo in mano e sfogliarlo, pensavo che fra 10-15 anni le mie nipotine e qualche loro cuginetto/a avrebbero potuto leggerlo ma alla fine avevo deciso di non farne nulla, non sono uno storico né un letterato e quello che ho scritto mi sembra cosa davvero modesta. Senonché un pomeriggio mi trovavo con un collega, amico tra l’altro da una quarantina d’anni, mio conterraneo. Non parlavamo di storia né di politica, parlavamo di paesaggio e in particolare di una parte della Calabria che si attraversa ma nella quale raramente ci si ferma, quella catena di monti e colline che, fra le propaggini occidentali del Pollino a nord e della Sila a sud, divide la valle del Crati dal Tirreno, boschi e prati ed acque che vengono dolcemente a confluire nel fiume più grande o scendono precipiti al mare. In mezzo paesi e paeselli testimoni di tanti passaggi della storia, una Liguria in miniatura mi venne da dire.
Sì, fu la risposta di quell’amico, ma la Liguria è Italia civile. Ecco, quella risposta che mi arrivò come uno schiaffo inaspettato mi fece prendere la decisione definitiva: questo libro voglio proprio pubblicarlo, non è detto che sia del tutto inutile.
Napoli è una città viva e rovinata.
Tutto è bello, orrendo e in disordine,
niente funziona bene tranne il passato.
Ma tutto è possibile.
S. Nievo
Il viaggio a Napoli
L’estate del ’59 avevo dieci anni ed avevo superato ben due esami, quello di licenza elementare e quello di ammissione alla Scuola media, mio fratello di anni ne aveva cinque, eravamo al mare a Diamante ed alla fine della vacanza ci fu una bellissima sorpresa: un viaggio in macchina, era la prima volta che succedeva. Per me era una novità straordinaria, in macchina avevamo sconfinato fuori provincia solo per andare a Nicastro, a Catanzaro e, se ricordo bene, una volta a Pizzo dove c’era un castello alto sopra il mare.
L’anno prima eravamo andati a Bologna, la città mi era piaciuta molto ma c’eravamo andati in treno, non era stata la stessa cosa. È difficile spiegare ora cos’era, per chi aveva dieci anni quando la televisione ancora non era in tutte le case – tre ore di trasmissione al giorno gli intervalli con le pecore e dopo Carosello i bambini a letto – farsi la costa di Maratea fino a Sapri e continuare fino ai templi di Paestum, uguali a quelli che avevo visto solo sul sussidiario in terza elementare. E poi Amalfi (l’anno prima avevo studiato le Repubbliche marinare) col suo Duomo fantastico e la scalinata ripida come le montagne sulla Costiera, le barche di mogano nel porto di Sorrento, la reggia di Caserta dove papà era stato durante il servizio militare e che mi lasciò letteralmente a bocca aperta, la prima autostrada che vedevo in vita mia e sulla quale provai l’ebrezza dei 90 km/h che (scoprii più tardi) non erano neanche veri e infine Napoli…
Come ho già detto l’anno prima avevo visto Bologna che mi era piaciuta molto: il centro con Piazza maggiore, San Petronio, le due torri, la fontana di Nettuno, il palazzo di Re Enzo. I portici mi avevano colpito ma mi sembrava di essere all’estero, non saprei spiegare questa cosa anche perché all’estero non c’ero ancora stato ma quella bella città non aveva punti in comune con la mia: le vie, i palazzi, le strade erano del tutto diversi, nonostante la lingua italiana e l’atteggiamento accogliente della gente mi sentivo in un paese che non era il mio. Non mi dispiaceva, non era un problema, tuttavia era così. Anche col passare degli anni, superata Roma ho sempre provato la stessa sensazione che a dirla tutta ho provato anche, almeno le prime volte, quando sono andato in Sicilia. Sensazione che per moltissimo tempo non ho saputo spiegarmi, indubbiamente basata su un fatto oggettivo, quello che in tempi recenti ha saputo individuare Giordano Bruno Guerri il quale, in modo illuminante, ha parlato di una diversità radicale e radicata, non un’inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile ad un’estraneità
. Tra l’altro a Bologna c’erano solo vie, palazzi, viali, piazze e qualche parco pubblico; per uno che viveva in una piccola città dalla quale si vedevano le montagne era una sensazione strana.
Dal punto più alto che visitammo, il Colle di San Luca, si vedeva solo la città (che era grande ma non grandissima) forse anche perché non era una bella giornata. A Napoli non mi sembrava di essere all’estero, il centro storico mi ricordava con le debite proporzioni Cosenza vecchia, molte architetture erano simili anche nell’abbandono e con gli stessi segni del tempo, gli alberi e le piante erano come da noi, il mare aveva colori per me familiari. Rimanevo incantato a guardare il golfo e il Vesuvio ma nonostante la grandiosità dello sfondo la città riempiva la scena. Mi venne in mente la parola metropoli
, lo dissi a mamma che rispose: questa era una capitale, lo è stata per secoli.
Oggi può sembrare incredibile nella nostra società plurietnica, ma prima di quel viaggio a Napoli, nel ’59, non avevo mai visto delle persone di colore vere, in carne e ossa, come non ne avevo mai incontrato né a Cosenza né a Nicastro né a Catanzaro, e neanche a Bologna. Rimanemmo non ricordo se quattro o cinque giorni e vedemmo tante cose, il porto col molo Beverello dal quale papà era partito alla conquista dell’Impero (più modestamente ora provò senza successo a convincere mia madre a prendere il vaporetto per Capri), il borgo marinaro e la riviera di Chiaia, il centro con la galleria, il San Carlo, Posillipo, la funicolare…
La città aveva un aspetto grandioso ma a poco a poco feci caso come molti di quei grandi palazzi, i portoni enormi e le scale solenni, come tante splendide Chiese e monumenti mostrassero i segni impietosi del tempo e dell’abbandono. Mi veniva in mente Bologna: anche là c’erano palazzi che risalivano al Medioevo, al Rinascimento, al Sette e all’Ottocento, ma non sembravano vecchi e decadenti. Persino a Cosenza vecchia gli edifici mi sembravano in condizioni migliori (ancora non c’era stata l’alluvione che portò in pochi anni all’abbandono del centro storico).
Feci queste osservazioni a papà che mi rispose: effettivamente è come dici tu, ma devi tenere presente che Napoli da quando non è stata più una capitale si è impoverita, non c’è stata più la corte né il governo, né gli uffici statali, tanta gente che campava quando c’erano queste cose è rimasta senza possibilità di lavoro… poi c’erano tante industrie che a poco a poco hanno chiuso perché non reggevano la concorrenza con quelle del Nord che erano più moderne. Del resto, aggiunse, i grandi industriali del Nord hanno preferito sviluppare le industrie da loro e poi i napoletani non sono grandi lavoratori, preferiscono la musica, le canzoni…
. Mia madre annuiva, erano convinti che le cose stessero proprio così, la storia gliel’avevano insegnata così. Mio padre era del ’12 e mia madre del ’20, quando qualche frammento di verità aveva cominciato a venire a galla (penso agli scritti di Nitti ma anche di Gramsci o Salvemini) ci aveva pensato il Fascismo con la sua retorica nazionalistica a seppellire definitivamente, almeno fino a qualche anno fa, la verità storica.
Nel ’59 gli unici cantieri navali che avevamo sentito nominare erano quelli di Genova e quelli di Monfalcone, questi ultimi moralmente più importanti, ci dissero, perché strappati all’odiato nemico austriaco con la gloriosa guerra del ’15-’18. Nessuno ci aveva parlato dei cantieri di Castellamare di Stabia e degli altri stabilimenti navali della Campania che erano i più grandi, i più tecnologicamente progrediti e quelli che occupavano più lavoratori in tutto il Mediterraneo. È appena il caso di ricordare che da quei cantieri uscivano navi mercantili e militari, che la Marina delle due Sicilie (meglio detta Armata di mare) oltre ad essere la più importante fra quelle degli Stati preunitari (la prima nave militare italiana a raggiungere gli USA fu l’Urania, costruita proprio a Castellammare di Stabia) era una delle prime al mondo e ancora più brillante era la situazione della marina mercantile (la flotta dei Florio, di Trapani, contava 99 navi, solo per fare un esempio).
Meno che mai ci avevano parlato delle altre industrie dell’area napoletana fra le quali spiccavano le Reali Officine di Pietrarsa vale a dire il più grosso stabilimento metalmeccanico d’Italia che produceva materiale ad uso bellico e civile, marittimo e ferroviario, comprese le locomotive. Le prime locomotive del Piemonte infatti non furono comprate a Torino o a Milano né a Genova e neanche in Germania, Francia o Inghilterra ma a Napoli. Peccato che ho dovuto avere tutti i capelli bianchi per sapere queste cose. Fatta l’unità d’Italia, iniziò per queste grandi industrie un lento e inesorabile declino. E non perché altrove le industrie fossero più moderne e competitive o perché queste fossero le leggi del mercato, ma perché così si era deciso a Torino. Bisognava realizzare il triangolo industriale
che avrebbe fatto decollare l’economia del Nord e creato una forte coesione nel Nord-ovest del Paese. Per fare ciò bisognava chiudere le industrie di Napoli, con le conseguenze che sappiamo ma che vengono addebitate ai napoletani sfaticati.
Di recente ho saputo anche che il processo di chiusura di Pietrarsa non avvenne in modo pacifico in quanto gli operai (che come avevano insegnato a mio padre al lavoro preferivano la musica e le canzoni) occuparono lo stabilimento per difendere il loro lavoro e furono sgomberati a fucilate dagli eroici bersaglieri e dalla Guardia nazionale con un bilancio di diversi morti sparati nella schiena. Diceva Gaetano Salvemini: se dall’unità d’Italia il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata…
e mi pare che le sue parole dicano tutto: si può rovinare qualcuno anche per errore, ma l’assassinio richiede una volontà precisa e molta determinazione. Adesso mi sono chiare le parole del Colonnello Pallavicini, quando dice al Principe di Salina che mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti. Torino non vuol cessare di essere capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le portino via le opere d’arte, Napoli piange le industrie che perde…
.
Il colloquio si svolge nel ’62, l’Italia è unificata da poco e in quel poco tempo un’azienda leader non va in crisi per motivi economici o di qualità del prodotto. Magari le locomotive prodotte a Pietrarsa venivano premiate a livello internazionale (vedi la medaglia d’oro assegnata in occasione dell’Esposizione Universale di Vienna nel 1873), ma le commesse prendevano sempre un’altra via. Del resto in tutto il Sud le industrie e addirittura i frantoi (trecento solo a Gaeta e relativo territorio) furono chiuse e quasi sempre le attrezzature, se utilizzabili, trasferite verso il Nord.
È illuminante il quadro della situazione economica del Sud post-unitario fatto da uno dei primi unitaristi pentiti, Francesco Proto Carafa, Duca di Maddaloni, protagonista delle lotte per la Costituzione, eletto alla Camera napoletana e rimasto profondamente deluso dalla retromarcia del Re del quale era poi diventato oppositore finendo in esilio. Proclamato il regno d’Italia, Carafa era tornato alla politica ed era stato eletto deputato, sperava di poter lavorare per un’unità giusta ma non