Chicchi di grano
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Info su questo ebook
Domenico è un “chicco di grano”, in quel piatto in cui insieme a tutti gli altri rappresenta la “storia”. “Chicchi di grano” è una storia vera. Domenico, nato nel 1898 e morto nel 1964 vive un periodo storico di profonda e sostanziale trasformazione per l’Italia.
La sua povertà, un po’ imposta e un po’ voluta, lo induce a mettere a frutto tutta la sua fantasia, il suo estro, la sua voglia di vivere per poter rimanere sempre e comunque un buon marito e un responsabile padre, al punto da rappresentare un esempio da imitare per i figli ed i nipoti. Uno di questi nipoti ne resta così affascinato che, sfruttando i ricordi da bambino, sente il dovere di raccontare di lui.
Tutto parte da un nefasto giorno, il 21 agosto 1962, quando nel sud, con epicentro in Irpinia, si scatena un tremendo terremoto. La famiglia di Domenico si riunisce nel cortile del caseggiato e nell’attesa che il “mostro” si fosse calmato, il nonno racconta della sua vita, delle sue peripezie e delle sue furberie attuate con l’unico scopo di sopravvivere insieme a tutta la sua famiglia.
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Anteprima del libro
Chicchi di grano - Luciano Medusa
parziale.
A Sara, perchè lei vuole che lo faccia
La Storia siamo noi
Siamo noi padri e figli
Siamo noi
Bella ciao
Che partiamo
La Storia non ha nascondigli
La Storia non passa la mano
La Storia siamo noi
Siamo noi questo piatto di grano
Francesco De Gregori
Premessa
Nulla si crea,
nulla si distrugge,
tutto si trasforma.
Antoine Lavoisier
Una fogliolina, colpita da una folata di vento, si stacca dal suo ramo e cade, col tempo, di lei non ne rimarrà più traccia. Questo potrebbe essere vero se nessuno l’avesse vista cadere, ma se qualcuno ha potuto vederla volteggiare nell’aria e confondersi con altre migliaia di sorelle già staccate e adagiate al suolo, allora, non sarà caduta invano, resterà nei nostri ricordi ad alimentare pensieri, passioni, ad evocare profumi, tepori, colori, vivrà nei nostri ricordi e nelle sensazioni.
Questo siamo. Foglie attaccate ai rami su cui ogni tanto spunta un frutto. Siamo semi, grano. Un enorme piatto di grano. Questo siamo noi. Ogni chicco ha una sua storia ed un suo perché. Forte di questo concetto mi accingo a fare una cosa che ho sempre pensato di fare e non ho mai avuto, non il tempo, quello c’è sempre, ma la sicurezza, la motivazione e la condizione adatta, giusta per farlo.
Se non lo facessi penso che si perderebbe qualcosa che vale la pena non perdere: la memoria di un uomo. Una fogliolina, un frutto, un chicco di grano da ricordare. Non so perché mi senta questa responsabilità, forse perché l’uomo di cui voglio raccontarvi, è stato e rimane, per me, un eroe.
Sì, un eroe!
Ma non come quelli epici: forte, bello, valoroso, perseguitato dagli dei; non un condottiero temerario, scaltro e vincitore di cruenti battaglie; non un tormentato romantico, un disilluso filosofo, un incompreso scienziato, ma come un uomo che è riuscito a lasciare in quelli che lo circondavano, un buon ricordo, ma anche qualcosa di più reale e tangibile, qualcosa che circola ancora nei geni della sua stirpe in modo da rimanere immortale, generazione dopo generazione. Si muore quando si viene ricordati per l’ultima volta.
Un eroe che oggi non sarebbe considerato tale, anzi, con la facilità e la superficialità del giudizio dei molti lo si relegherebbe nei files dei falliti. Uno come tanti che visse tra tanti che non meritano il ricordo né la considerazione, né il tempo della gente di oggi, benpensanti che credono di essere sempre migliori di chiunque e specialmente della gente di ieri. Quelli che sono sicuri di stare nel giusto, di aver capito tutto, di essere i più intelligenti, non sapendo che i più intelligenti restano quelli che hanno il dubbio di esserlo. Ogni uomo è presunto intelligente fino a prova contraria, e di prove la vita ne è disseminata. Chi si veste di fumo, alla prima folata di vento, rischia di rimanere nudo.
L’eroe di cui vi racconterò è un uomo nato alla fine del diciannovesimo secolo, precisamente l’11 maggio del 1898, in una città, Afragola, uguale a tante altre, in provincia di Napoli, ma presa come esempio dai napoletani e dagli abitanti di altre città limitrofe per la sua arretratezza e rozzezza: ma da dove vieni, da Afragola?
Il mio eroe era un contadino che si diede alla professione di venditore ambulante, era analfabeta e si chiamava Domenico Castaldo: mio nonno.
Il papà di mamma lasciò questa terra quando ero ancora piccolo, nel 1964, io avevo sei anni e lui sessanta in più e me lo ricordo benissimo.
I libri di storia narrano di cose grandi: città, uomini, eventi, che hanno cambiato il corso della vita, io vi narrerò di un contadino nato e vissuto ad Afragola, una piccola citta della provincia di Napoli, perché ha cambiato il corso della mia vita. Una cosa che mi funziona bene è la memoria. Ricordo cose di quando non avevo ancora compiuto due anni. Mi è sempre piaciuto pensare che qualcuno
abbia voluto darmi questa capacità affinché potessi, un giorno, scrivere di Domenico, mio nonno: un chicco di grano.
Un giorno qualsiasi
I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.
Ennio Flaiano
Era il 21 agosto del 1962, a marzo avevo compiuto quattro anni, mia madre mi fece indossare un pantaloncino, cucito da lei stessa, di stoffa leggera, blu, una magliettina a mezze maniche a righe orizzontali bianche e celesti e un paio di sandali di cuoio, semplicissimi: due fasce orizzontali sul collo del piede, una più su dell’altra, una suola e una fascetta, sempre di cuoio, che passava dietro il calcagno con un cinturino che si chiudeva di lato. Erano uguali a quelli che i frati francescani del convento di Sant’Antonio erano soliti calzare, per questo, quel modello era conosciuto come sandali di Sant’Antonio.
Il convento dei francescani era un punto di riferimento ed un vanto per tutto il paese, l’unico. Tutto il complesso fu ultimato all’inizio del settecento e, dopo svariate vicissitudini e passaggi di mano, restaurato e modificato, dai francescani, all’inizio di due secoli dopo.
Il 13 di giugno ricorre la festa del santo. Una delle poche occasioni per vedere tanta gente accalcarsi un po’ dappertutto. Allora, come ancora oggi, la chiesa si riempiva di fedeli giunti lì da ogni parte d’Italia. Il gemellaggio col Santo di Padova aveva contribuito alla notorietà del convento.
‘O Munacone veniva portato per tutte le strade col bambinello in braccio da un lato e col giglio bianco dall’altro. Sorridente, guardava tutti quelli che si accalcavano intorno. Le mamme con i loro bambini, vestiti col saio dei francescani, facevano la fila per una foto ai suoi piedi. Molti fedeli, per invogliarlo a prendere in considerazione la loro preghiera, accompagnavano il saluto con un’offerta in denaro, ognuno per le proprie possibilità. Un frate, riconoscente e sorridente, ringraziava e intascava. ’A band’ ‘e musica [1] era d’obbligo.
I bambini ballavano intorno ai musicanti, festosi, si dimenavano in gesti inconsulti che nella loro immaginazione rappresentavano il top della danza. In pineta, in quel periodo apparivano, come una magia, le giostre. Il paese dei balocchi non solo dei bambini, ma praticamente, di tutti.
La pineta era costituita da un grande ammasso di pini secolari delimitati da una fila di grosse querce, che lasciavano spazio ad un vialone, viale Cristo Re, perpendicolare a viale Sant’Antonio, che conduceva ad una grande piazza ai piedi di un edificio scolastico, maestoso ed imponente: Scuola Elementare Guglielmo Marconi.
Lo spazio davanti alla scuola Marconi, largo Cristo Re, diventava un grande parco giochi. I giostrai montavano le loro attrazioni: c’era la pista dell’autoscontro, conosciuta da tutti come ‘e mmachine tozzi-tozzi; la ruota panoramica; a volte la pista delle moto acrobatiche; le ruote della fortuna e, lungo tutto il viale Cristo Re e viale Sant’Antonio, bancarelle di ogni genere.
Ho un dolce ricordo del pentolone girevole dello zucchero filato da cui un’abile mano simile a quella di un prestigiatore faceva apparire, incollati a degli aridi bastoncini di legno, nuvole di zucchero.
Per molti, specialmente per le donne, le mogli di contadini, di muratori e operai, ma anche per quelle dei pochi impiegati e professionisti del paese, quella, era una delle poche occasioni per una passeggiata, specialmente per chi aveva la fortuna e la possibilità di un abito nuovo, come la moglie di qualche vigile urbano, che non solo aveva l’opportunità di sfoggiare la sua mise migliore, pavoneggiandosi affianco al marito, ma dava l’occasione al comandante, che indossava, impettito, la divisa da cerimonia, di mostrare a tutti la sua autorità.
Insieme procedevano come due divi del cinema, facevano la passerella tra la folla, la quale, rispettosa, gli lasciavano il passo, intimorita dalla fierezza, dalla boria, dalla postura e dell’andamento militare del comandante e della sua rispettiva signora, formandogli davanti un corridoio da percorrere.
La passeggiata tra le bancarelle, la visita al santuario, la zuppa di cozze per alcuni, lo zucchero filato per i bambini più fortunati, quelli di famiglie più o meno agiate, rappresentavano motivo di allegria, spensieratezza e sfoggio degli abiti migliori.
Negli occhi tanti colori, quelli invigoriti dalle lampadine del ristorante e quelle sulle innumerevoli bancarelle che davano evidenza e merito ai colori dei vestiti indossati dalle signore che si fermavano a guardare senza mai comprare nulla. Che contentezza! Che soddisfazione vedevo su quelle facce. L’aria era pregna di gioia, movimento, risate e anche le grida assumevano un tono di festa.
Era davvero la festa del paese.
Dopo che mia madre finì di sistemarmi addosso la maglietta a strisce bianche e celesti, pensò a lei. Si pettinò guardando la sua immagine riflessa in un piccolo specchio del nostro, altrettanto, piccolo bagno di un appartamentino in un palazzo ottocentesco che in passato era stato sede del partito fascista. Per questo per il paese era: ’o palazzo d’ ‘o fascio. Con la cacciata dei fascisti e dei tedeschi, da un giorno all’altro non c’erano più fascisti ad Afragola. Un po’ come in tutta l’Italia. Il palazzo del fascio fu saccheggiato e depauperato dei simboli del partito e qualche anno dopo, si dice che, fu l’alloggio per qualche giorno del primo presidente della Repubblica Italiana, Enrico De Nicola.
Poco distante c’era palazzo Ciaramella, conosciuto dai più come ’o palazzo d’‘o podestà. Qualcuno, tutt’ora, lo chiama così. Luigi Ciaramella fu, nel periodo fascista, il podestà di Afragola. Fu lui che riuscì dopo aver realizzato fogne, strade, scuole ed altre opere pubbliche a far nominare, nel 1935, Afragola città. Il fascismo, tramite Luigi Ciaramella, fece bene ad Afragola.
Al primo piano, del palazzo del fascio, appena salite due rampe e mezza di scale, si arrivava ad un pianerottolo, di fronte sulla destra un balconcino con una ringhiera in ferro battuto, affacciava su di un ampio cortile quadrato e a sinistra ci si avviava su di un balcone che cingeva, per gli altri tre lati, tutto il cortile e lungo tutto il balcone erano allineate portafinestre bianche.
A destra e a sinistra del pianerottolo c’erano due grosse porte a doppia anta in legno scuro, erano due ingressi di altrettanti appartamenti l’uno di fronte all’altro, in quello alla sinistra, in quel tempo, ci abitavo io con la mia famiglia.
Dopo due grandi e massicce porte di legno massello, sempre aperte durante il giorno, una grossa porta di legno con mezzo vetro smerigliato nella parte superiore immetteva in una saletta d’attesa, di fronte una parete con due porticine: il cucinino a sinistra e il bagnetto a destra e sulla parete di sinistra, attaccata all’ingresso del cucinino, una porta a due ante dava accesso alla stanza più grande, quella in cui c’era di mattina, al centro, il tavolo grande con le sedie, a destra e a sinistra due mobili sormontati da due larghi specchi.
Di notte sbucavano fuori dei letti, non mi ricordo da dove, per me ed i miei fratelli. Ne eravamo in tutto cinque, quattro maschi ed una femmina.
Appena entrati nella camera da pranzo-letto, giusto di fronte, c’era una portafinestra che immetteva sul balcone che affacciava su via Gramsci. Gli amministratori, nel dopoguerra, si divertirono a dedicare ad Antonio Gramsci quella strada, così, ’o palazzo d’ ‘o fascio, si trovò di colpo, in via Gramsci e, poco lontano, dal palazzo d’ ‘o podestà.
A sinistra della portafinestra, sulla parete perpendicolare, in fondo, si apriva un’altra porta che dava nella camera da letto dei miei genitori, che a sua volta aveva una portafinestra che immetteva sull’unico balcone. Questa era tutta la casa, in affitto, in cui ho vissuto per quattro o cinque anni insieme alla mia famiglia, a via Gramsci, nell’ex palazzo del fascio.
Mia madre continuò a pettinarsi specchiandosi e i suoi capelli neri scivolavano tra i denti del pettine, entrando scompigliati un po’ ricci e ammassati, per uscirne con una forma, costretta dal pettine, di striscioline ordinate e diritte. Più si pettinava più i capelli assumevano una forma ordinata e bella.
Aveva dei bei capelli, mia madre.
Prese, agilmente, con due dita delle mollette nere che teneva tra i denti e se le infilò nei capelli sulla nuca, per non permettergli di cadere liberi, in modo da tenerli uniti con tutti gli altri. Si diede l’ultima guardata allo specchio, controllò che il suo aspetto fosse in ordine e soddisfacente e poi mi tese la mano:
- Jammucenne, so’ pronta. [2]
Salutò mia sorella, Filomena, che intanto rassettava la casa, le disse di non aprire a nessuno, che saremmo ritornati entro una mezz’oretta.
Ci avviammo, le strinsi la mano, lei no, me la porgeva sempre così, in modo che io la stringessi. Era compito mio stare aggrappato a lei.
Eravamo pronti per andare a fare la siringa al nonno.
Mentre scendevamo le scale mi fermò qualche