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Il paese di Coso
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Il paese di Coso
E-book239 pagine3 ore

Il paese di Coso

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Info su questo ebook

Quando andò in pensione nei primi anni novanta, Romolo Malatesta lasciò l’incarico di corrispondente del Messaggero, di cui, in verità non era mai stato un prolifico collaboratore, e iniziò a scrivere in proprio. Riordinò mentalmente tutti i suoi ricordi e le sue impressioni della sua infanzia più remota, quella che confinava e si confondeva con i racconti dei vecchi, delle storie dei briganti e di una miseria spaventevole, e scrisse di getto, così come faceva con i suoi quadri, una storia d’amore infelice, ambientata nella Rocca di Fabrica di Roma (ma il nome del paese non viene mai nominato) in quel tempo in cui la Rocca era tutti il paese. “E una realtà romanzata e non varrebbe nemmeno la pena di perderci il tempo… un pensiero una volta espresso è una bugia”.
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2017
ISBN9788878535671
Il paese di Coso

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    Il paese di Coso - Romolo Malatesta

    Romolo Malatesta

    IL PAESE DI COSO

    Romolo Malatesta

    IL PAESE

    DI COSO

    Ogni riferimento a cose e persone è puramente casuale.

    In appendice un piccolo Glossario per chiarire i termini meno noti.

    isbn: 978-88-7853-370-7

    isbn ebook: 978-88-7853-///-0

    Edizioni Sette Città

    Via Mazzini 87 - 01100 Viterbo

    tel 0761304967 fax 07611760202

    www.settecitta.eu

    ebook realizzato da Fabiana Ceccariglia. Stage del Dipartimento di Scienze Umanistiche/Lettere (DISUCOM) dell'Università degli Studi della Tuscia presso le Edizioni Sette Città.

    ISBN: 9788878535695

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Dedica

    Il paese di Coso

    Glossario

    Dedica

    La pigrizia è il rifugio degli spiriti deboli.

    (Chesterfield)

    Il paese di Coso

    Era avvenuto tutto così in fretta che ancora non mi rendevo conto di trovarmi in cima ad una torre dove il gruista celeste mi aveva appena sganciato. Tenevo ancora le mani sugli occhi come durante il viaggio da l’aldilà. Poi mi feci coraggio e allargai un poco le dita: mi ferì quasi la luce di una piccola cupola di sole che lievitava adagio all’orizzonte. Allora, anche se lentamente, abbassai la guardia. Dopo un respiro di sollievo restai immobile a gustarmi il sole che stava dando spettacolo.

    Lì per lì non feci caso alle cornacchie che continuavano a muoversi indifferenti, come se io non ci fossi. Alcune zampettavano con grazia sul muro largo della torre, simili ad indossatrici in passerella per la presentazione di modelli in seta nera che il sole si divertiva a lucidare un poco. Altre, si affacciavano dalle buche ancora mezze discinte. Appena un’occhiatina qua e là e poi di nuovo nella loro privacy. Certe erano immobili come sassi di fuliggine. Come il santo che parlava agli uccelli, le chiamai pure sorelle. Ma quelle sempre lì, indifferenti, fino a che, annoiate, non volavano via ed era per caso. Solo quando le vidi perdersi oltre il campanile tutto bianco, di quelli da cartolina illustrata di Pasqua con tanto di rondoni stampati che gli girano intorno, mi dissi che avrei anche potuto toccarle quelle cornacchie. Ormai. E continuai a guardarmi intorno. Non era niente male ciò che vedevo. Avevo un paese messo ai miei piedi come un suddito rispettoso, ma non sapevo il suo nome. Girai lo sguardo intorno. Compiaciuto mi dissi però. Da su a giù le case non erano poche. Mi fanno subito tenerezza le più vicine, le più piccole che si tengono strette strette, forse per meglio nascondere gli anni, a chiedere, in coro, protezione alla torre. I raggi del sole si fermavano sui tetti vecchi. Abbracciavano i camini e accarezzavano la gobba rugosa delle tegole romane. Qua e là, sui muri sbrecciati, i maschi dei passeri, ancora indecisi su dove andare a rubare, si aggiustavano, con mossette nervose, quella sorta di scoppoletta marrone, che sul capo hanno macchiata alla malandrina. Li salutai con un sorriso. E sì, anche le femmine che, invece, mezze assonnate, cercavano di stirarsi la vestina troppo corta e un poco sgualcita, belle e pronte a rinfrescare insieme i pettegolezzi messi via al calar della sera. Di nuovo pensai a quale poteva essere il nome di questo paese che messo così come era, ora vedevo come un gigante rabbonito, rassegnato, aggrappato a degli scogli e un poco confuso in un vapore grigiastro che si leva dal basso, oltre le chiome scomposte degli alberi. Così, tra un boh e l’altro rimuginato dentro, tanto per scaramanzia, provai ad indovinare. Niente. E mi ritrovai ancora più confuso. Una cornacchia mi passò sulla testa come una sassata. Si posò lì vicino gracchiando indispettita. Con quella vociaccia pensai che mi stesse chiedendo E tu chi sei?. Sorpreso, non sapendo che rispondere mi rifugiai in un prolungato eeeh, allargando le braccia ed inchinandomi un poco, mentre essa già se ne volava via senza degnarmi di altro.

    Su quella torre alta e quadrata, provai a muovermi. Dovetti farlo pure goffamente cercando un qualche appoggio. Non mi sembrava ancora vero di aver toccato terra. Ero indeciso, incerto, preso dalle vertigini, perfino impressionato dalla vicinanza di alcuni cipressi così allungati, impettiti e sicuri come ombre di nobili e severi castellani trapassati da tempo.

    Ad occhi bassi, arrivai alla botola. Scesi giù, strisciando, per le scale che non finivano mai. «Finalmente.» dissi, arrivato all’ultimo gradino. Per un poco sostai sull’uscio mezzo aperto che dava nel cortile dentro il castello abbandonato.

    Un gatto rossiccio, spruzzato di macchie bianche e nere uscì da una porta spalancata e cadente. Zampettava altero come se fosse di ritorno da una notte brava d’amore o si avviasse alla prima battuta di caccia. Con quell’aria spavalda, sicura, da padrone e signore di tutto il castello. «Micio! Pss, pss!» lo chiamai anche con un gesto amichevole delle mani. Il gatto rossiccio, maculato di bianco e di nero, invece non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Superbo si allontanò senza muovere un baffo. Io me ne ebbi a male. Qualcosa mi diceva che, anche se quel gatto proprio nero non era, il giorno non iniziava sotto i migliori auspici. Allora, tanto per darmi animo, mi dissi che davvero tutto avveniva per caso. Come per caso era sicuramente avvenuta la mia scelta d’inviato sulla terra per via dell’Apocalisse là dove si recita Mille e non più mille. Riguardo alla fine del mondo e al definitivo avvento del Regno dei Cieli.

    Per questa scadenza, anche se non proprio da eccola. Dio si era affidato ad un computer stellare per le destinazioni, tenendo conto che nessuno, per ovvie ragioni, capitasse nel proprio paese. Quello che lì avrebbe potuto trovare, a dir poco, poteva finirci … stecchito.

    Ero ancora sotto la torre cariata dal tempo. Guardai i panni che indossavo. Anche quelli me li ritrovavo addosso per caso. I miei, il giorno del visto arrivare, di certo dovevo averli gettati qua e là nel guardaroba dell’aldilà. Così, al momento del visto partire, dovetti scusarmi con la voce, sicuramente del gruista celeste che non vedevo, che mi apostrofò nel vuoto dello spazio immenso del cielo.

    «Ma come ti sei combinato.» gridò quella voce. E non poteva che averla con me e di certo per il mio abbigliamento.

    «Al buio, per la fretta e senza pensare, eccomi qua, vestito alla meglio!» dissi io a voce alta.

    «Che meglio non potevi!»

    «Come?»

    «Niente, niente! Era solo una battuta!»

    Siccome stavamo arrivando a destinazione, passammo ai convenevoli e via.

    Dio si stava dando daffare proprio per via del terzo millennio. Si seppe che mandava già a destinazione i suoi messi speciali, tanto per giocare d’anticipo. Che più di un sondaggio, era una curiosità tanto per sapere in che modo i monnaroli di oggi avrebbero aspettato la fine del mondo. Se chiusi nei monasteri a salmodiare con i monaci, accalcati nei santuari in ansia e in preghiera come nel mille, oppure a godersela nei bordelli facendo i furbi della situazione, tentando magari la contumacia con gli irriducibili che non credevano affatto che i cieli si squarciassero e che la terra davvero crollasse. Insomma tanto per vedere se le cose erano cambiate, e come, con il passar del tempo.

    Intanto continuavo a guardarmi e mi veniva da ridere per come ero vestito. Con quella giacca poi, nera da frac cui erano state tagliate le code, con i risvolti di raso con le punte a lancia. Un camiciotto rosso da pittore esaltato mi faceva da sparato malamente tenuto sopra il pantalone blu con tanto di bande color melone. Continuavo a sorridere. In ogni caso, messo in quel modo, anche senza volerlo, non avrei potuto che stupire. Abito a parte, non sapevo raccapezzarmi. Come non sapevo il nome del paese al quale, dall’alto, avevo dato solo una sbirciatina.

    Ero ancora lì, bella corte del castello, sotto la torre. Guardando in alto la sciabolata di sole che entrava da una fessura per il gridaccio di altre cornacchie. Tirata su, e non so come, quella sorta di brache che mi erano scese giù e rassettatomi un poco, mi mossi.

    Al primo passo mi accorsi di avere ai piedi scarpe nere di copale. Un poco ridendo commentai: «Roba da anticaja e pietrella e per dispetto fanno perfino lo scrocchio!» Pure quelle avevo prese a caso. Una scusante: anche volendo, là, avrei avuto ben poco da scegliere. Sempre meno gente arrivava calzata nell’aldilà.

    Uscii da quel castello in abbandono con un senso di sollievo. Le case lì davanti erano rattoppi di colore che però non riuscivano a coprire del tutto il grigio naturale che ancora sputava fuori insistente. In certi vicoli, da una finestra, all’altra davanti, ci si poteva dare la mano. Non si vedeva anima viva. Ebbi subito come un tremore per paura di essere finito in un paese abbandonato. Poteva essere che la gente fosse ancora immersa nel sonno. Me lo augurai. Però no c’erano segni di vita. Le finestre erano tutte ben chiuse. I vasi messi fuori sulle tavole morti di sete, scheletriti. Un silenzio profondo regnava lungo quei vicoli contorti, simili a serpentoni intorpiditi nonostante il solletico del sole, come a custodire i ricordi nati e cresciuti tra le mura di tante casette, strette strette, così affratellate da chissà quale antica miseria.

    Pensai che la gente poteva essere fuggita via, cacciata dalla paura per qualche fantasma che di notte lascia il castello e urla nei vicoli con il vento. Oppure il benessere l’aveva invogliata a nidificare sotto quei tetti laggiù, a tegole nuove, che da in cima alla torre avevo veduto più in basso. Intanto, magari soltanto per provare la mia voce, gridai che io ero in missione speciale Apocalisse. Anche senza essere certo di aver profanato qualcosa di sacro, un magico abbandono, mi pentii e continuai a girare, quasi con devozione, per le viuzze che ora salivano e ora scendevano fino su certi massi enormi a scapicollo sulla strada di sotto che sembrava aspettarli a braccia larghe.

    Andando ad occhi bassi, guardando l’erba cresciuta tra i vari ciottoli, mi ritrovai in un piccolo spiazzo quasi tutto nuovo e civettuolo. La casa dinanzi, oltre il parapetto di muro, era diversa dalle altre. Sul grande portone faceva bella mostra l’emblema in marmo di famiglia nobile, di chissà quale illustre casato, di gran nome.

    Me ne tornai indietro, tra quei vicoli senza voce dove non si affacciava una donna, dove non correva un bambino. Allora pensai di essere stato io un bambino di quei vicoli con le cicatrici in testa lasciate dalle sassate come segni di buona condotta. Dalle ginocchia sbucciate, ma senza alcuna fasciatura perché al sole asciugavano meglio, con una bella mano di tintura di jodio come una toppa gigante e messa là senza punti. Poi, guardandomi il mezzo frac che mi stava un po’ comoduccio, mi congratulai con me stesso della divagazione che mi ero offerto, una distrazione che mi allontanava dalla missione Apocalisse.

    «Oh, finalmente qualche anima viva!» mi dissi.

    Dei cani acciambellati dinanzi ad una porta balzarono in piedi tutti insieme. Agitarono la coda, festosi per l’uomo appena uscito di casa. Solo un di essi, il prescelto con poche parole e un piccolo gesto della mano, si mosse per andargli dietro. Gli altri, un poco delusi, si rimisero giù, nella loro piccola corte da cani.

    Io dissi solo però! e cercai di ricordarmi se per caso anche io avessi avuto un cane. Un cane qualunque. Un cane anonimo. Se sì, doveva essere un bastardone. Un cane da niente. Che non si guadagnava neppure una ciotola d’acqua. Un mangia pane a tradimento insomma. Che però si accontentava di poco. Anche di quello che non gli davo.

    Che razza di pensieri i miei! Però me ne compiacevo. Uscivano dalla nebbia della mia mente che velava i miei ricordi, ed erano un piacere anche così. Il mio cane di fantasia, di colpo, si confuse con gli altri nella piccola corte da cani, lasciandomi spazio per rendermi conto che, almeno per quanto avevo visto, flora e fauna comprese, ero capitato in una parte di mondo da non sorprendermi più di tanto. Sì, ma il nome di questo paese? Solo a quell’uomo potevo chiederlo.

    «Buon giorno!» dissi rivolto all’uomo dei cani che se ne andava verso giù. Salutai con deferenza. «Educazione non guasta», pensai. E poi ero forestiero e dovevo farlo, ma quello niente. Tirava via indifferente battendosi sulla gamba un frustino scortecciato, con il cane, più nero che bianco, che lo seguiva a saltelli. Mentre l’uomo e il cane si allontanavano, io dissi tra me e me:

    «Ma tu guarda che roba! Non c’è più vangelo! Non c’è più educazione! Una volta si diceva "salutare è cortesia, rispondere è obbligo! E va bene! Forse quell’uomo è sordo oppure ancora tutto avviene per caso. E se io parlassi un’altra lingua?» Questo no! Avevo ben capito le parole dell’uomo rivolte al cane, perché lo seguisse. Allora pensai che potevo ancora essere un’ombra. E mi rividi nell’aldilà dove tutti eravamo solo ombre all’impiedi; tante sbuffate di vapore biancastro, tutte uguali che andavamo avanti e indietro, da detenuti in attesa di giudizio, all’aria perenne e con il moto perpetuo incorporato.

    Qui davvero mi sarebbe stato difficile accettare la stessa sorte, come là, senza conoscere nessuno, senza scambiarsi un saluto, neppure un sorriso di circostanza. Fermatomi al sole cercai la mia ombra. Ma non la vidi: altro grande spavento oltre la brutta impressione di trovarmi davvero in un paese di già abbandonato con quell’uomo e i cani, unici testimoni di un esodo avvenuto in massa. Per non rattristarmi oltre la buttai sul gioco e in nome dell’Apocalisse, che davvero sembrava passata da scopritore di nuove terre, mi guardai intorno e presi possesso della piazza dove mi trovavo sempre più solo. Mani ai fianchi e gambe divaricate, gridai che tutti dovevano uscire all’aperto dinanzi all’inviato speciale per quella Apocalisse alla quale ognuno era tenuto a rispondere. Mi meravigliai di me stesso. In panni simili non mi ci vedevo proprio. Per ironia del gioco alcune imposte si spalancarono. Era per caso. Da qua e da là spuntò qualche passante. Ad ognuno andavo incontro. Salutavo e quello manco per sogno. Con qualcuno lo feci ad alta voce e il risultato era sempre lo stesso. E allora?

    Allora se le cose stavano così come stavano, che nessuno mi udiva, che nessuno mi vedeva, pensai che dipendeva da me. Che non esistevo. E se esistevo, magari esistevo veramente soltanto per modo di dire. Quanto bastava per dire «addio Apocalisse!» Non convinto di nulla camminavo avanti e dietro e ripetevo «Esisto o non esisto? Essere o non essere?» Non appena mi si affacciò alla mente come quel dubbio tormentasse ancora là un certo uomo assai famoso, mi fermai all’istante. Rivedevo quel poverino tanto ingobbito, così pensoso che andava e poi tornava a corto, entro quel solco che, sempre più profondo, scavava nel vuoto dell’aldilà.

    Non volendo fare la stessa fine, per scaramanzia, mi grattai. Non lo feci, si vede, in modo giusto. Ora, proprio perché mi sentivo mortificato come un bambino maleducato, mi ritirai dietro l’angolo della casa vicina. Ma non poteva finire così. Questa volta avrei abbracciato la prima persona di passo appena sbucata fuori. Dovevo farlo di colpo, senza vedere, altrimenti non ci sarei riuscito. Non ce l’avrei mai fatta a vincere la mia riservatezza. Udii dei passi e capii che erano da donna. «Chi se ne frega!», mi scappò detto. Pentito cercai di rimediare, spiegando che volevo dire chi se ne buggera! E subito recitai «E non m’indurre in tentazione!» Fui esaudito. Quella che passava era proprio una donna. Lei non girò l’angolo. Continuò ad andare dritta ed io mi calmai un poco.

    I cani della corte invece si agitarono tutti insieme. Annusarono e via a mischiarsi con altri simili dietro ad una cagna in calore. Pure un cagnetto, proprio un niente di cane, si dava da fare. Seguiva, magari, tanto per dire «ci sono anch’io!» Poi, per un bisogno più urgente, si avvicinò all’angolo e tranquillamente alzò la zampa su di me. L’avrei potuto scacciare. Invece non feci una mossa. Lasciai che il piccolino facesse il suo bisognino. Ma quanto ci restai male quando mi accorsi che bagnato era solo il muro!

    La piazza non era più un deserto. La gente era più di passo. Quella di sosta era di uomini avanti con gli anni. Uno si mise a dimora sulla panchina. Lo salutai e non ebbi risposta. Stava a testa bassa. Provai ad alzargli la visiera della berretta che teneva calata sugli occhi. Quella mancanza di tatto mi raggelò e strinsi i denti per non lasciarmi sfuggire la parolaccia che avevo pensato. Era brutta. Meritava davvero una bella tirata di orecchie. Pensando che mi sarebbe arrivata, mi misi a riparo dal lungo braccio di Dio sotto un arco. Guardando nella volta gridai aspettando il rimbombo. Niente! Nemmeno quello. «Ecco allora perché nessuno mi ode: magari perché mi parlo da solo o dentro come un ventriloquo», pensai e per non avere più dubbi palpai me stesso: esistevo davvero soltanto per modo di dire, come gli abiti indossati a coprire il nulla che avevo sotto. Ora non mi rimaneva che rassegnarmi. Eppure, nonostante ciò, non resistetti alla vanità di una vetrina. Mi avvicinai. Mi misi a specchio e sbottai in una fragorosa risata. Più mi guardavo e più mi prendevo in giro da solo. Un manichino messo in mostra così stranamente vestito non lo avevo mai visto. Tutto sommato pensai di essere fortunato se davvero nessuno mi vedeva combinato com’ero. Finii col commiserarmi. Non riuscivo nemmeno a riconoscermi, nonostante mi fissassi, e facessi le smorfie per richiamare alla mente un indizio di identità. E come potevo? La mia faccia era come di gomma floscia, di pasta molla che modificava il suo aspetto ad ogni piccola mossa. Provai a starmene immobile, ma quella si muoveva da sola. Anche per le mie mani era così. E allora? Allora guardai l’uomo che sostava davanti la vetrina e mi dissi che forse potevo, grosso modo, più o meno, magari essere simile a lui, dall’apparente età di anni non so. Tanto per dire qualcosa esclamai: «Apocalisse! Apocalisse! Quante cose non si fanno in tuo nome!» Di ciò nessuno poteva essere responsabile: la colpa era tutta mia. Nel breve corso di aggiornamento della missione Apocalisse, mi ero distratto. Pensavo già di trovarmi lontano, fuori dal lungo silenzio e finalmente di nuovo tra i vivi. Perciò non ricordavo più nulla delle istruzioni e delle avvertenze del caso. Anzi potrei persino giurare di non averne neppure sentito parlare. Pensai che quella dell’udire, anche senza essere udito, e del vedere anche senza essere visto, era già una fortuna. E mi rivolsi verso la chiesa per un certo riguardo, per ringraziare, quasi che così fosse meglio, a vicino a vicino. Doveva essere quella la casa madre della fede di tutto il paese. Ma era così bianca da sembrare un fantasma di chiesa ancora sonnolenta, che continuava a sbadigliare con una sola pacca aperta della grande porta, come una bocca che fa le smorfie.

    Il grande orologio a due facce, ognuna con un grande occhio anemico, sbirciava la propria piazza: una quella di su e l’altra quella di giù. Un orologio senza campana e non poteva manco dir niente. Con le sfere immobili, indolenzite, inchiodate lì come braccia in croce.

    Chi guardava su verso il campanile netto scrollava la testa. Uno disse che gli occhi ci andavano per abitudine. Che una volta quello era l’orologio dei poveri e che adesso aveva smesso di funzionare perché i poveri non c’erano più.

    Un vecchio disse che si era fermato per via che gli avevano strappato le palle che un dipendente comunale, a soprassoldo, provvedeva a tirargli su per farlo andare. Un altro disse che non camminava perché era finita la... carica e intanto stropicciava il pollice su l’indice della sua mano.

    Allora anch’io guardai l’orologio, contento di quella novità. Peccato però! Non riuscivo a riconoscere i numeri su quei due faccioni rotondi da luna piena. Pensai che poteva essere perché scritti in modo strano. Un pochino

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