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L'ultimo dei Plainsmen
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E-book281 pagine4 ore

L'ultimo dei Plainsmen

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Info su questo ebook

Nel 1907, dopo aver assistito a un'interessante conferenza a New York, Zane Grey si avventura in una rischiosa battuta di caccia al puma fra i ripidi declivi del Gran Canyon. Ad accompagnarlo nell'impresa c'è un manipolo di uomini in cerca di emozioni forti, fra cui il celebre Charles "Buffalo" Jones (1844-1919) che, oltre a essere stato il primo guardacaccia del parco di Yellowstone, è anche considerato fra i più grandi preservatori della fauna americana (in particolare del bisonte). In un'autentica celebrazione della natura incontaminata e della vita all'aria aperta, Zane Grey ci regala il ricordo di una spedizione memorabile, ma anche l'istantanea di un'epoca trascorsa in cui, nonostante tutto, prendono forma le prime tracce di un ambientalismo che, qualche decennio dopo, si costituirà come sempre più necessario... -
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2023
ISBN9788728515013
L'ultimo dei Plainsmen
Autore

Zane Grey

American author (Pearl Zane Grey) is best known as a pioneer of the Western literary genre, which idealized the Western frontier and the men and women who settled the region. Following in his father’s footsteps, Grey studied dentistry while on a baseball scholarship to the University of Pennsylvania. Grey’s athletic talent led to a short career in the American minor league before he established his dentistry practice. As an outlet to the tedium of dentistry, Grey turned to writing, and finally abandoned his dental practice to write full time. Over the course of his career Grey penned more than ninety books, including the best-selling Riders of the Purple Sage. Many of Grey’s novels were adapted for film and television. He died in 1939.

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    Anteprima del libro

    L'ultimo dei Plainsmen - Zane Grey

    L'ultimo dei Plainsmen

    Translated by Alfredo Pitta

    Original title: The last of the Plainsmen

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1952, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728515013

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PREFAZIONE

    Buffalo Jones non ha bisogno di presentazione per gli sportsmen americani; ma per quelli dei miei lettori che non lo conoscessero alcune poche parole non saranno superflue.

    Nacque nel 1846, nelle praterie dell’Illinois, e dedicò praticamente tutta la sua vita alla caccia degli animali selvatici; ma una caccia alla cui caratteristica, quella cioè di catturare la selvaggina viva, era dovuta l’indomabile energia e l’inflessibile volontà con la quale essa fu sempre condotta. Infatti Buffalo Jones catturò e soggiogò alla sua volontà, se anche non li domò, animali selvatici di tutte le specie che si trovano nella parte occidentale dell’America del Nord, e cioè in quella regione comunemente conosciuta col nome generico di West. L’uccidere gli ripugnava, sebbene per anni ed anni la necessità lo avesse obbligato a guadagnarsi la vita fornendo carne di bufalo alle carovane che attraversavano la prateria. E tuttavia anche in questo caso la sua ripugnanza ad uccidere si manifestò; giacchè egli, vedendo inevitabile l’estinzione di quelle nobili bestie, un giorno spezzò il suo fucile su una ruota di carro e fece fermo proponimento di salvare la specie dalla distruzione. Per dieci anni, infatti, continuò acacciare bufali, ma unicamente per catturarli e addomesticarli, di modo che ne ebbe nel West larga fama, e la qualifica di «Preservatore del bisonte americano». Da questo anche il suo nome di Buffalo Jones.

    A mano a mano che la civiltà si estendeva sulla prateria, Buffalo Jones si ritirava lentamente verso il West; ed oggi egli dimora su un altipiano circondato da deserte rocce sul ciglio settentrionale del Grande Canyon dell’Arizona. Là, nel suo range, i suoi bufali pascolano pacificamente, insieme coi mustangs e coi cervi, e sono liberi quanto potrebbero esserlo se si trovassero nella prateria selvaggia.

    Nella primavera del 1907 ebbi la fortuna di essere compagno di quest’ultimo dei plainsmen, come si chiamavano gli uomini della prateria, in un viaggio attraverso quella selvaggia e deserta solitudine, ed in una lunga caccia in quella meravigliosa contrada dei canyons tutta irta di picchi rocciosi, tormentata da gole selvagge, folta di pini giganteschi. Ed è di questo che voglio scrivere ora; cioè, rappresentare la bellezza di quelle montagne dai vivaci colori, delle lunghe navate scure e verdastre delle grandi foreste; voglie dare un’idea, seppure vaga, di ciò che può essere l’eccitamento dovuto a quell’aria fredda e asciutta; e specialmente voglio gettare un po’ di luce sulla vita e sul carattere di quello strano e notevole uomo che è Buffalo Jones.

    Fortunatamente uno scrittore può ricordare; più, ancora, può rivivere con la stessa vivacità d’impressioni i momenti vissuti; e quindi può, nel mio caso, rivedere i picchi argentati dalla luce lunare profilarsi contro il cielo di un cupo turchino, riudire il gemito del vento notturno fra i pini, provare ancora il brivido dell’attesa, che si manifesta nel battito più frequente del polso, il tumulto, la gioia dell’azione difficile nei momenti pericolosi; risentire, infine, la misteriosa bramosia umana per tutto ciò che non si può conseguire.

    Da ragazzo lessi con cuore palpitante le gesta di Boone, il grande pioniere; amai quel silenzioso e terribile Wetzel, il borderman dedito alla sua opera di vendetta; mi entusiasmai per le imprese di Custer e di Carson, questi eroi della prateria; da uomo ho studiato le meraviglie e le tragedie della loro vita, ed ho voluto scriverne, Ed è stato mio destino — felice adempimento dei miei sogni di adolescente! — vivere per qualche tempo nelle contrade selvagge, ormai rapidamente trasformate e assorbite dalla civiltà, che produssero quegli uomini grandi, e fra essi l’ultima delle grandi figure della prateria: Buffalo Jones.

    Zane Grey .

    L’ULTIMO DEI "PLAINSMEN„

    I.

    Il deserto dell’Arizona.

    Quel pomeriggio ci accampammo, nell’interno della vasta distesa erbosa bruciata dal sole, all’ombra di un gruppo di pini avvizziti dalla calura. La giornata era stata torrida; poi, con l’oscurità calata quasi improvvisa, si levò il freddo vento del deserto. Persino i Mormoni che ci guidavano attraverso le sabbie ammonticchiate qua e là dal vento trascurarono di pregare e di intonare i loro cantici delle ore del tramonto. Ci raccogliemmo tutti in un gruppo silenzioso e stanco intorno al fuoco dell’accampamento; e quando alcuni indiani nomadi, uscendo dalle tenebre solitarie e melanconiche, apparvero presso di noi come ombre, ne salutammo con vivo piacere la venuta. Erano buoni e pacifici quegli indiani; appartenevano alla tribù dei Navajos, ed erano desiderosi di barattare qualche coperta o qualche braccialetto. Uno di essi, un uomo alto e smunto, che all’aspetto e al contegno si sarebbe detto essere un capo, sapeva anche un po’ d’inglese.

    — Come?… — diss’egli, con voce profonda. E noi comprendemmo che quella era un’abbreviazione del «Come state?» che serve di saluto in simili casi.

    — Ohè, Noddlecoddy! — lo salutò a sua volta Jim Emmett, il capo delle nostre guide mormoni.

    — Ugh! — fu la risposta dell’indiano.

    — Grosso Viso Pallido, Buffalo Jones, grande capo, cacciatore di bufali — continuò Emmett, indicando Jones. Era una presentazione del vecchio plainsman.

    — Come?… — ripetè il Navajo dignitosamente; e stese la mano in atto amichevole.

    — Jones grande capo bianco, prende bufalo, lega stretto — continuò Emmett, facendo il gesto di roteare in aria un lazo prima di lanciarlo.

    — Non grande, piccolo bufalo così — replicò l’indiano sorridendo, e abbassando la mano all’altezza del ginocchio.

    Jones se ne stava in piedi presso il fuoco, illuminato in pieno. Diritto, rude in aspetto, aveva un viso abbronzato, dall’espressione inscrutabile, la bocca dalla linea ferma, la mascella quadrata, gli occhi penetranti ma seminascosti dalle palpebre, per la lunga abitudine presa in tanti anni di socchiuderle per ricercare la vasta distesa della prateria. La barba era aspra e incolta, e una strana quiete si leggeva sui suoi lineamenti: frutto della tranquillità di spirito acquistata in una lunga vita avventurosa.

    Egli stese verso il Navajo entrambe le mani grosse e muscolose, con le dita stese.

    — Prendere bufalo, grosso bufalo, molti bufali, un solo giorno — disse.

    L’indiano si raddrizzò, dignitosamente, pur conservando il suo sorriso amichevole; e Jones continuò:

    — Io grande capo, io andato lontano Settentrione, lontano, Terra dei Little Sticks, prendere bue muschiato, Bianco Manitou tribù Grandi Schiavi… Naza! Naza!

    — Naza? — ripetè l’indiano, accennando verso la Stella Polare. — No, no!

    — Sì. Io grande Viso Pallido, vengo da lontano paese dove tramonta sole, attraversare Grandi Acque, andare Buckskin, Siwash, cacciatore giaguari.

    Il giaguaro è una deità per i Navajos, i quali hanno per esso tanto timore riverenziale quanto gli indiani della tribù dei Grandi Schiavi, nel Nord, ne hanno per il bue muschiato.

    — Ma non uccidere giaguaro — continuò Jones, vedendo gli arditi lineamenti dell’ indiano prendere un’espressione di durezza. — Inseguire giaguaro a cavallo, inseguirlo lungamente, cani correre dietro giaguaro tanto tanto tempo, forzare giaguaro arrampicarsi sopra alberi, io grande capo, arrampicarsi sopra albero, gettare lazo, prendere giaguaro, legare giaguaro stretto.

    La faccia aggrondata del Navajo si spianò.

    — Bianco volere scherzare. No!

    — Sì — esclamò Jones, stendendo le braccia poderose. — Io forte, io prendere giaguaro, legare giaguaro, andare via, tenere giaguaro vivo.

    — No! — ripetè l’indiano con veemenza.

    — Sì! — protestò Jones, accennando risolutamente con la testa.

    — No, no! — gridò ancora il Navajo.

    — Sì! — urlò Jones.

    — Grossa bugia! — tuonò l’indiano.

    Tutti si misero a ridere, e lo stesso Jones, che non era permaloso, si unì a quella risata. L’indiano aveva espresso crudamente uno scetticismo che io avevo sentito trapelare più delicatamente quando si parlava di lui a New York, e che, per strano che questo potesse sembrare, avevo compreso essere condiviso da cowboys, rancheros e cercatori d’oro che avevamo incontrati durante il nostro viaggio verso il West. In compenso, però, avevo incontrato anche uomini che conoscevano meglio Jones, dai quali avevo saputo quanto bastava perchè dalla mia mente fosse scacciata ogni ombra di quel dubbio e quel ridicolo che si voleva così gettare su di lui. Ricordo, per esempio, il discorso fattomi nel suo rude linguaggio da un veterano della prateria, le cui cicatrici attestavano una vita aspra e avventurosa.

    — Dite, giovinotto, ho inteso che non potete attraversare il canyon per la molta neve. Mi pare che siate abbastanza fortunato; e quindi ciò che vi rimane da fare è di riprendere la via di New York, lasciando andare l’idea di un simile viaggio. Date retta a me, non pensate a passare pel deserto, specialmente coi Mormoni: quella gente dice sempre acqua se ne trova, ma mi pare che l’acqua l’abbia nel cervello. Da Flagstaff al range di Jones ci sono centocinquanta miglia, e soltanto due volte si trova l’acqua lungo la via. Io lo conosco, questo Buffalo Jones: lo conobbi cioè quando faceva quelle sue prodezze col lazo, che lo resero famoso e gli valsero il nome di «Preservatore del bisonte americano». E so anche di quel suo viaggio pazzesco verso le terre deserte del Nord, alla caccia del bue muschiato. Ora credo anche di indovinare che cosa voglia andare a fare laggiù nel Siwash: a prendere giaguari vivi, certo. Vi dico io che Jones prenderebbe il diavolo in persona, col suo lazo, se non temesse di vederselo bruciare. Oh, è un demonio scatenato lui stesso, in queste cose! Tutto prende, col suo lazo: belve, e bisonti, e uomini, e cavalli, e cani!

    Ora, questo discorso, per quanto ispirato da buone intenzioni, non poteva naturalmente che accrescere in me il desiderio di accompagnare Jones; e così fu. Se prima mi sentivo interessato al vecchio cacciatore di bufali ora egli mi affascinava addirittura. Ed ecco che mi trovavo con lui nella solitudine della prateria, e lo vedevo quale egli era, semplice, tranquillo, l’uomo che bene si adattava a quel silenzio, a quelle enormi distanze, a quelle cacce sulle montagne.

    — Veramente non è facile credere a tutto questo che dice Jones — osservò Judd, uno degli uomini di Emmett. — Come, infatti, potrebbe un uomo aver la forza e il coraggio di fare simili cose? E non è una crudeltà tenere in prigionia gli animali selvatici? Anzi, non è contro la stessa Parola di Dio?

    Ma immediatamente Jones rispose con una citazione biblica:

    — «E Iddio disse: «Facciamo l’uomo alla nostra immagine e somiglianza secondo la nostra somiglianza; ed abbia la signorìa sopra i pesci del mare, e sopra gli uccelli del cielo, e sopra le bestie, e sopra tutta la terra, e sopra ogni rettile che serpe sopra la terra». Avete capito? «Signorìa… su tutte le bestie della campagna!» — ripetè egli con voce tonante; e allargò le braccia, chiudendo i grossi pugni. — Signorìa! Questa fu la parola di Dio!

    Si sentivano in lui una tale possanza e una tale intensità di convinzione, che quelle sue stesse sensazioni si comunicavano a noi. Poi egli si acquietò, lasciò ricadere le braccia, e per qualche tempo rimase silenzioso. Ma aveva per un momento sollevato il velo su quella che era la grande, la strana, l’assorbente passione della sua vita.

    Nei primi giorni di quel viaggio egli mi aveva raccontato che da ragazzetto ancora aveva rischiato di rompersi il collo per catturare una piccola volpe, e che una volta presala l’aveva tenuta stretta, sebbene essa gli mordesse crudelmente la mano; mi disse che non si era mai unito ai suoi coetanei nei giuochi soliti di quell’età, preferendo di correre solo per le praterie e di arrampicarsi sulle colline boscose, o di starsene ore ed ore in agguato presso una tana di quei rosicanti che in America si chiamano gophers. E quel ragazzo aveva mostrato quel che sarebbe stato l’uomo. Per cinquantacinque anni, infatti, una invincibile passione per quella «signorìa sulle bestie della campagna» lo aveva addirittura ossessionato, facendo della sua vita nient’altro che una continua caccia.

    Gli indiani nostri ospiti se ne andarono ben presto, svanendo, silenziosamente come erano venuti, nell’oscurità del deserto; e noi ricademmo ben presto in una quiete interrotta soltanto dalla cantilena di un Mormone che pregava. Ma improvvisamente i cani ringhiarono, e il vecchio Moze, più iroso e aggressivo degli altri, balzò in piedi e latrò contro qualche predone del deserto, come chiamavano i coyotes, reale o immaginario che fosse. Un aspro ordine di Jones lo fece accucciare di nuovo; e anche gli altri cani si acquietarono.

    — Sarà meglio legare i cani — disse Jones. — Meglio che non possano allontanarsi, giacchè niente di più facile che qualche coyote venga giù da quelle colline.

    I cani della spedizione mi interessavano e mi piacevano oltre ogni dire; ma Jones sembrava avere per essi un reale disprezzo. Veramente, quel quintetto di bestie dalle lunghe orecchie pendenti avrebbe fatto perdere la pazienza ad un santo. Il vecchio Moze era stato acquistato da Jones nel Missouri, e per anni non aveva fatto che fiutare e seguire la pista di belve e selvaggina di ogni genere. Era bianco e nero, irsuto, col corpo coperto di cicatrici che dimostravano la sua combattività; e se mai cane ebbe l’occhio cattivo, quello era appunto Moze. Aveva un tal modo di agitare la coda, indeterminato, equivoco, che si sarebbe detto essere egli conscio della sua bruttezza e sapesse di avere poca probabilità di farsi voler bene da qualcuno. Tuttavia non aveva perduto la voglia e la speranza di farsi un amico. Quanto a me, la prima volta che mi manifestò in tal modo questa sua bontà di cuore sotto una ruvida scorza, mi conquistò per sempre.

    Parlare delle imprese di Moze richiederebbe uno spazio maggiore di quello che prenderebbe il racconto di tutto il viaggio; ma basterà l’enumerazione di alcuni incidenti per mostrarlo qual era, un cane che chiamerò «di carattere», e per dimostrare che i suoi progenitori, se proprio non avevano riportato il primo premio in qualche mostra canina, per lo meno gli avevano trasmesso un sangue combattivo. A Flagstaff, per esempio, lo avevamo incatenato nel cortile di una scuderia, e la mattina seguente lo trovammo appeso alla catena, dall’altra parte della palizzata che recingeva il cortile, alta oltre due metri. Lo liberammo e lo mettemmo giù, aspettandoci di non avere altro da fare che compiere il doloroso dovere di seppellirlo; ma dopo qualche momento appena Moze si riscosse, agitò la coda, e andò ad azzuffarsi col cane della scuderia. Infatti, il battersi era il suo forte, e insieme la sua debolezza. Non c’era cane di Falgstaff col quale Moze non si fosse azzuffato; e quando vennero dalla California i segugi che dovevano servirei per quella caccia, egli ne mise immediatamente tre fuori combattimento, e uno, il più piccino, lo soggiogò definitivamente nient’altro che col suo selvaggio ringhio.

    Ma la sua principale impresa fu tale da lasciare a bocca aperta persino Jones, che non si meravigliava facilmente.

    Avevamo condotto con noi Moze a EI Tover, nel Grande Canyon; e là, vedendo esserci impossibile di superare l’orlo superiore settentrionale del canyon, lo lasciammo con uno degli uomini di Jones, un certo Rust, con ordine a questo di ricondurlo a Flagstaff entro una quindicina di giorni. Rust invece anticipò di qualche giorno quel termine, e quando lo rivedemmo si dichiarò ben contento di sentirsi sollevato dalla responsabilità di dover custodire una simile bestia. Infatti ci raccontò di parecchie cose che Moze aveva fatto, e specialmente che un giorno aveva spezzata la catena e si era gettato a nuoto nei pericolosi gorghi del Colorado, cercando di oltrepassare le terribili rapide di Sockdolager. Rust e alcuni suoi compagni avevano assistito stupefatti alla scena, e avevano visto il cane scomparire nei gorghi giallastri e turbinosi, mentre il fragore delle rapide non lasciava alcuna speranza di salvezza. Soltanto un pesce, infatti, avrebbe potuto vivere in quel punto del fiume, soltanto un uccello avrebbe potuto oltrepassare le ripide pareti che formavano le rive. E tuttavia quella stessa sera, quando gli uomini, finito il lavoro, si avviavano al tramway per ritornare alle capanne, la prima cosa che videro fu Moze, che veniva loro incontro agitando la coda. Aveva attraversato il Colorado presso le rapide ed era ritornato!

    Ai quattro segugi venutici dalla California, begli animali di robuste fattezze e di colore rossobruno, avevo messo i nomi di Don, Tige, Jude e Ranger; e a forza di persuasione ero riuscito a stabilire una specie, dirò così, di relazione familiare fra loro e Moze. Così quella sera legai i segugi, dopo averne curato le zampe indolenzite dal lungo cammino nella sabbia, e lasciai libero Moze, sapendo che egli, quando era incatenato, diveniva feroce, frenetico addirittura.

    I Mormoni si erano già stesi sulla sabbia, avvolti nelle coperte; e io ne scorgevo vagamente nell’ombra le figure. Jones stava avvolgendosi anche lui nelle coperte. Mi allontanai un po’ dal fuoco, che era vicino a spegnersi, e andai ad ammirare la vasta pianura deserta che si stendeva, misteriosa e immensa, verso settentrione. Che solenne quiete! Inspiravo a grandi boccate l’aria fredda e pura, e ne risentivo una strano eccitamento, una sensazione che non avrei saputo descrivere. C’era laggiù, verso settentrione, qualcosa che si sarebbe detto mi chiamasse attraverso l’oscurità; ed ecco, io gli andavo incontro.

    Poi mi sdraiai anche io per dormire, ma per qualche tempo ancora rimasi assorto a contemplare l’infinita distesa azzurra che era sul nostro capo. Le stelle apparivano grandi e meravigliosamente brillanti, e tuttavia davano l’impressione di essere ancora più lontane di quanto le avessi viste da altri luoghi. Un lieve venticello sollevava qualche nuvoletta di sabbia. Potevo udire il tintinnìo delle campanelle legate al collo dei cavalli impastoiati. Poi a poco a poco mi assopii, e l’ultima cosa che ricordo di quella sera fu che il vecchio Moze mi strisciò accanto cercando il calore del mio corpo.

    Quando mi svegliai, la cupa striscia di nuvole ad oriente appariva sormontata da una lunga linea di una pallida chiarità, che poi a poco a poco si rafforzò e si tramutò in un chiarore rosato. Venne l’aurora, e potemmo scorgere distintamente i picchi nevosi di San Francisco, leggermente tinti di un delicato color di rosa. I Mormoni erano già in piedi, e preparavano i pacchi per la ripresa del viaggio. Erano tutti uomini grossi e robusti, piuttosto taciturni ma attivi e laboriosi, ed era interessante vederli fare i loro preparativi. Viaggiavano con carri e muli, alla maniera primitiva: esattamente, a quanto mi assicurava Jones, come avevano fatto cinquant’anni prima i loro padri quando si dirigevano attraverso la prateria, verso quella regione dell’Utah che era la loro Terra promessa e nella quale si stabilirono.

    Durante le prime ore del mattino avanzammo speditamente. A mano a mano che ci avvicinavamo al deserto, però, l’aria diveniva più calda, i gruppi di cedri cominciavano a diradarsi, i cespugli ad essere meno folti e meno frequenti. Mi rivolgevo spesso a guardare i picchi di San Francisco, le cui vette nevose scintillavano al sole nettamente profilate contro il cielo e sembravano quasi divenire più elevate. Qualcuno mi disse che quelle cime si potevano scorgere a duecento miglia di distanza attraverso il deserto, e che per i viaggiatori avviati in quella direzione rappresentavano come la stella guidatrice, che li attirava con una specie di fascino.

    Ma quando guardavo verso settentrione sentivo di respirare più affannosamente, e un gelo di terrore e di meraviglia mi stringeva il cuore davanti al magnifico spettacolo. Il terreno scabroso e rosso scendeva gradatamente; lievi alture ondulate e aride, nude collinette brune e come appiattite, dune sabbiose rigate dal vento, tutto sembrava confondersi in una oscurità grigia, in qualche cosa di selvaggio e di desolato, vago come una terra irreale.

    — Vedete quelle dune bianche laggiù, a sinistra? — mi disse Emmett. — Fra esse scorre il Piccolo Colorado. A quale distanza vi sembrano essere?

    — A trenta miglia, forse — risposi. Avrei detto venti, secondo la valutazione che facevo, ma dal tono della domanda avevo compreso che la distanza doveva essere maggiore.

    — Sono settantacinque miglia, invece; e vi giungeremo posdomani mattina. Se poi le nevi delle montagne avranno cominciato a liquefarsi, ci vorrà qualche tempo per attraversare il fiume.

    Nel pomeriggio si levò un vento che sollevava nuvolette di sabbia, le quali, percotendomi il viso, parevano pungermi, e mi accecavano, mi inaridivano la gola al punto di obbligarmi a ricorrere ai barili dell’acqua con una frequenza che mi faceva vergognare. Alla sera ero così stanco, che una volta entrato nel sacco che mi serviva da letto, caddi in un sonno di piombo, tanto che allo svegliarmi vidi di non essermi neppur mosso durante tutta la notte.

    Il giorno seguente fu più caldo; il vento soffiò più forte, e la sabbia faceva sul viso l’effetto di mille aghi piccolissimi e tormentosi.

    Passò anche quella giornata. La mattina successiva, verso mezzogiorno, improvvisamente i cavalli nitrirono, e le mule, dall’andatura tarda e assonnata, parvero riscuotersi.

    — Sentono l’acqua — disse Emmett.

    E infatti non passò molto che anch’io, nonostante la caldura soffocante e la sabbia che mi riempiva le narici, sentii come l’odore dell’acqua. I cani, per quanto le zampe dovessero loro dolere a causa della sabbia infocata, corsero avanti di noi sul sentiero. Poche altre miglia di sabbia scottante, di ghiaia e di pietre rossicce, e svoltando l’angolo di una bassa mesa, vedemmo il Piccolo Colorado.

    Era un ampio fiume, dalle acque fangose e rossicce, dalla rapida corrente. In un braccio laterale alcune elevazioni del fondo apparivano all’asciutto, e fra esse ruscelletti d’acqua si svolgevano in ogni direzione. Il corso principale del fiume si svolgeva sotto la sponda sulla quale ci eravamo fermati. I cani si precipitarono in acqua per ristorarsi;

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